Passato e presente dello sport in Corea del Nord, a metà tra rivoluzione e propaganda. Con particolare attenzione al calcio, lo sport più seguito ma anche quello meno vincente.
Lo sport è rivoluzione o sottomissione, strumento e specchio delle differenze tra il sistema occidentale e quello della Corea del Nord. Lo sport è anche e soprattutto cultura, un veicolo per arrivare a nozioni che da piccoli ci annoiavano, come la geografia (o meglio ancora, la geopolitica), e scoprire luoghi, usi e costumi lontanissimi da noi, ma terribilmente vicini e reali nell’istante in cui l’arbitro fischia e si gioca. Tutti insieme in quel rettangolo verde. Certo l’istruzione è cambiata, e il nostro Paese con essa, tant’è che ormai molti universitari (quindi coloro che tra i giovani dovrebbero rappresentare l’eccellenza) fanno fatica a leggere anche solo tre romanzi di narrativa l’anno, mentre seguono ogni mattina l’andamento della borsa.
Vanno in difficoltà quando c’è da individuare una capitale del mondo su una cartina, ma difficilmente sono incapaci di approcciarsi ad un nuovo mezzo tecnologico. E proprio qui risiede un grande equivoco: la reale situazione della Corea del Nord, costretta dentro una visione occidentale figlia della guerra fredda, nella dicotomia buoni contro “’impero del male”. Ma cosa succede in Corea del Nord? Qual è lo stato di salute del calcio e dello sport in generale? Nel 1951, duranti i conflitti intestini tra il sud e il nord della Corea, Kim Jong-il decise di organizzare, pescando tra le forze armate, una squadra sportiva che potesse poi competere durante i giochi universitari.
“Se questa armata diventerà un giorno una forza rivoluzionaria molto potente, non sarà solamente perché i militari hanno mira e tattica efficace ma perché hanno praticato sport, sviluppando la forza”.
Parole ben chiare quelle del leader, suffragate poi dal libro Il calcio nella nostra nazione, testo nato nel periodo Juché (post sovietico), che sottolinea come l’impostazione del lavoro fisico e lo sviluppo tattico del gioco siano le due basi dalle quali partire per la creazione del modello nordcoreano. Questo modello è caratterizzato da una rapida esecuzione degli schemi, dal lancio lungo come espediente per evitare ogni possibile incertezza e soprattutto da un impegno collettivo costante, per un gioco esclusivamente d’attacco e aggressivo. Alcuni dubbi rimangono circa lo sviluppo tattico, che però storicamente si è spesso realizzato attraverso lo studio attento di modelli vicini al blocco sovietico, come ad esempio la gloriosa scuola calcistica ungherese. La nazionale di calcio fu affidata per un periodo proprio all’ungherese Pal Csernai per poi realizzare nel 1966 che la strada era sbagliata, e che bisognava invece sfruttare le caratteristiche tipiche dei nordcoreani: velocità e dedizione. Proprio per questo gli allenatori punteranno sui lanci lunghi, capaci di esaltare questa loro velocità (a differenza del gioco nel breve) da sfruttare poi al massimo per sperare di impensierire le tendenze difensive del calcio internazionale.
“Per fare la rivoluzione coreana dobbiamo conoscere la storia e i costumi del popolo coreano” e così ogni città, ogni fabbrica, ogni istituto avrà il suo centro sportivo e il suo vivaio dal quale pescare. Questa capillarizzazione dell’attività sportiva crea competizione anche all’interno dello stesso Paese, come quando alla morte Kim Il-sung si scontrano due fazioni del partito: da una parte la squadra del primo grande centro sportivo 25 Aprile (data in memoria della formazione delle armate anti giapponesi del 1932) guidata da Kim Jong-un; dall’altra la rappresentativa di Pyongyang, capitanata da Kim Kung Gap, altro papabile erede del leader massimo. Vincerà proprio Kim Jong-un che ribadirà così il concetto:
“Ogni nazione ha le sue caratteristiche distintive, una nazione si distingue da un’altra nelle costituzioni fisiche del suo popolo, nella sua storia sportiva e nelle sue tradizioni. Ecco perché come in altri lavori anche nello sport le competenze devono essere sviluppate in linea con le reali condizioni di ciascun paese e le esigenze del suo popolo. Solo allora i pregi di una nazione devono essere definiti a pieno e lo standard delle competenze sportive devono essere portate rapidamente ad un livello elevato. Dobbiamo perciò sviluppare abilità sportive rigorosamente in conformità con le condizioni reali del nostro paese e le esigenze della nostra gente e introdurre avanzate competenze sportive di altri paesi basandoci su questo principio”.
Da qui in poi lo sport avrà una impennata e rappresenterà uno dei grandi obiettivi del leader successore, come evidenziato anche dai dati delle spese statali. Negli ultimi anni infatti le attività sportive rappresentano il terzo capitolo di spesa dello stato (con il 6,9%) dietro soltanto alla ricerca scientifica (11%) e la spesa per le forze armate (15%). Non a caso a Pyongyang troviamo grandissimi impianti sportivi tra cui il più capiente stadio al mondo, il Rungrado May Day Stadium, che può vantare fino a 150 mila posti a sedere ma che durante alcune manifestazioni di wrestling ha contenuto addirittura fino a 165 mila spettatori.
Proprio qui ha sede uno dei grandi punti di forza del sistema sportivo nordcoreano, così fortemente contrapposto a quello dei paesi capitalisti, ovvero la capacità di poter eccellere in ogni tipo di sport senza discriminazione alcuna tra le discipline. Un esempio? Il sollevamento pesi: come mai in questo sport Paesi come Inghilterra, Stati Uniti e Germania riportano spesso sonore sconfitte? Perché in questi Stati non si campa di certo praticando sollevamento pesi, e lo sport stesso dipende dalla domanda che c’è di esso, e quindi in definitiva dal mercato. All’opposto, in Corea del Nord prevale l’interesse del popolo e la voglia di aggiudicarsi quella specifica medaglia (sperando magari di arrivare alla competizione in qualità di Paese più preparato). Produrre entrate può essere più importante dell’onore nazionale, ed è per questo che nei paesi occidentali vengono spesso messi da parte sport meno redditizi, non garantendo così ai propri atleti un allenamento adeguato e attrezzature all’avanguardia. Questo però non può certo significare assoluta supremazia dei paesi socialisti, dal momento che molti sport in occidente fruttano bene, spesso anche in maniera spropositata come il calcio.
Proprio nel calcio però troviamo una delle leggende dello sport nordcoreano (in questo caso sovietico-coreano): Andreij Buirovic Jong Il-Sun, attaccante della Dinamo Alma Ata. Jong, tornato in Corea per diventare allenatore, sarà il punto di riferimento per tutto il movimento durante gli anni 50 e 60, forgiando quella squadra che poi batterà l’Italia di Bulgarelli ai mondiali del ’66. Nonostante si abbiano poche notizie certe sulla sua carriera, vive nella memoria di alcuni suoi ex giocatori, tra cui Ermek Tursunov (ora pluripremiato regista kazako). “Un punto di riferimento per tutto il calcio mondiale, non solo per il calcio coreano e kazako”. Pak Doo Ik invece era soltanto un caporale dell’esercito con qualifica da dentista, eppure il 19 luglio del ’66 riscrisse la storia portando una squadra di non professionisti fino ai quarti di finale, poi persi, contro il Portogallo di Eusebio.
Sono passati 50 anni da quegli storici traguardi, e viene da chiedersi se questa crescita sia rimasta poi costante. La risposta è no: il calcio nordcoreano non ha fatto ulteriori passi avanti, nonostante sia attualmente lo sport più popolare in patria. La Fifa ha recentemente investito 3.279.172 dollari per un programma di sviluppo, con strutture all’avanguardia tra le quali una accademia da 800 mila dollari, uffici e vari campi, tutti situati a Pyongyang. L’obiettivo, a detta del direttore delle accademy Ri Yu-ll, è quello di allenare gli studenti per ottenere giocatori super preparati che possano superare in talento stelle dal calibro di Leo Messi.
“Per ora credo che dovremmo pensare a dominare innanzitutto l’Asia e poi nel futuro prossimo spero che arriveremo a dominare il palcoscenico internazionale”.
Ad oggi sono 126esimi nel ranking FIFA e possono vantare una recente partecipazione ai mondiali – nel 2010, la seconda dopo quella del 1966 – nella quale hanno sì perso tutte le partite, ma hanno anche segnato con Yun-Nam Ji uno storico gol al Brasile. Non sono ovviamente mancati i momenti controversi, come la sfida contro il Giappone durante la quale i tifosi nordcoreani hanno completamente coperto l’inno degli avversari, con un infinito tappeto di fischi e schiamazzi. Ma chi fa parte di questa nuova generazione di giovani calciatori? Il più celebre è sicuramente Pak Kwang Ryong.
Classe ’92, è il tipico puntero prestante fisicamente che, pur indossando la casacca numero 9, non garantirà mai un numero eccessivo di gol, a fronte però di una infinità di sponde e una dedizione al lavoro senza eguali. Insomma il classico giocatore che ogni allenatore vorrebbe, ma non solo: Pak farebbe la fortuna anche di qualsiasi presidente. Il suo stipendio infatti ammonta a circa 4 mila euro al mese, deciso in accordo con Pyongyang. Il piccolo record che detiene è quello di essere stato il primo nordcoreano ad esordire in Champions League, subentrando al 94esimo della sfida tra Basilea e Otelul Galati il 14 settembre 2010. Più consistente la sua seconda presenza europea, nel teatro dei sogni contro il Manchester United dell’allora Park Ji Sung, una sfida del 38esimo parallelo.
Le polemiche sono invece arrivate quando la sfida si è riproposta ma nella stessa squadra, il Basilea per l’appunto. Park Joo-ho e Pak Kwang-ryong compagni di squadra, un affronto per Pyongyang che dopo aver preso visione di una foto dei due seduti vicini ha subito chiarito “no interviste e nessuna foto” inviando addirittura un ex arbitro, in veste di vigilante, che controllasse l’evolversi della situazione evitando che la cosa si ripetesse. Più vicino a noi è invece l’esempio del giovane attaccante Han Kwang-Song (non a caso, ennesimo giocatore offensivo) nativo di Pyongyang e passato anche per la masia del Barcellona prima di approdare in Italia.
Han è giovanissimo, addirittura classe 1998, e nel 2014 grazie alla mediazione del senatore Razzi riesce a far parte di un programma di confronto tra la nascente generazione di calciatori nord coreani e le scuole calcio italiane. Finito lo stage, nonostante qualche problema burocratico, viene addirittura aggregato prima ad una scuola calcio di Perugia per poi finire a Firenze. In quella spedizione di giovani talenti non c’era ovviamente soltanto lui, ma anche Choe Song Hyok (il numero 10) e Kim Ho Gong (difensore), passati anche loro sotto la lente dei dirigenti della Fiorentina che si convinsero a firmare dei pre-contratti finché poi l’avvicendamento societario, con il ritorno di Pantaleo Corvino, fece arenare tutta l’operazione.
Han nonostante ciò è rimasto in Italia e per la precisione in Sardegna: qui inizia la sua avventura con la maglia della primavera del Cagliari, con la quale si fa notare anche durante il torneo di Viareggio con una rete all’esordio. E se non è un bis poco ci manca: segna infatti alla sua seconda apparizione con la prima squadra rossoblu, in serie A, battendo Hart con un colpo di testa nei minuti di recupero. Tredici circa i minuti giocati complessivamente dal nordcoreano, che però può vantare già due record non da poco: primo nordcoreano ad esordire in A e ovviamente anche il primo a segnare un gol.
A questo punto possiamo lasciar andare la fantasia, come quando immaginiamo le condizioni di vita in Corea del Nord: di gol ce ne saranno altri? E Han Kwang-Song raggiungerà il livello dei grandi del calcio europeo? Sarà oggetto di merchandising in Occidente? O diventerà mai il nome più ambito durante le aste del fantacalcio? Chissà, forse la strada più veloce è dichiarare guerra all’Occidente e vincerla.
Molti calciatori esistono solo nella memoria dei social, e altri hanno visto la loro immagine stravolta da nuove dinamiche contemporanee. Attenzione però a dare le colpe al nuovo mezzo.
Un album dei ricordi, tra le parole di Darwin Pastorin e le illustrazioni di Andrea Bozzo, che recupera il lettore a una dimensione pallonara sconosciuta al mondo di oggi.