Bensì uno sport di contatto.
Il novembre calcistico è iniziato come si era concluso l’ottobre: con i tifosi italiani di nuovo in rivolta. Perché il contatto tra Kjaer e Pellegrini in Milan-Roma sembra assomigliare a quello tra Dumfries e Alex Sandro in Inter-Juve di due settimane prima, eppure manca il rigore, ma soprattutto l’appena accennato scontro di gioco tra Ibañez e Ibra viene punito con la massima punizione. Parte quindi la solita trafila dietrologica, si rispolvera il conteggio dei rigori dati al Milan lo scorso anno o alla Juve nei secoli, ci si interroga sull’utilizzo del VAR in ogni contesto immaginabile, dai principali quotidiani nazionali ai blog più sfigati dell’universo, e il risultato è ovviamente l’ennesimo gigantesco nulla di fatto.
Non una parola su quale direzione intraprendere per evitare futuri problemi, se non la decisione di sospendere Maresca per una imprecisata “gestione insoddisfacente” (non solo il rigore ma anche i cartellini e più in generale la direzione di gara). Così filtra dall’Aia, in assenza di dichiarazioni ufficiali.
Non si tratta di una questione di mancata coerenza, come si è scritto da più parti. O meglio: la questione della coerenza viene dopo, prima c’è da stabilire cosa vogliamo che sia calcio e cosa no, cosa pensiamo sia giusto punire e cosa no. Perché se il contatto Ibra-Ibanez comporta un calcio di rigore, e tutto ciò nonostante la presenza del VAR, allora siamo di fronte a una mutazione del calcio per come lo conoscevamo. Questo lo scriviamo più a “beneficio” dei tanti appassionati che erano d’accordo con Maresca, convinti che quel rigore potesse essere fischiato, che di Rocchi e soci, i quali fortunatamente hanno provato ad essere chiari e a stroncare tutto ciò sul nascere.
Sì perché in molti, anche spettatori, hanno “condiviso” quel rigore così come tante altre decisioni ogni settimana sempre più fiscali sul campo. Gente che viene il dubbio abbia mai indossato degli scarpini, e che alimenta una nuova versione del calcio che non permette più il minimo contatto e condanna sempre e comunque il “gioco maschio”, ovvero le giocate mosse da sano agonismo virile. In questo senso ci si affida al VAR ma l’assistenza tecnologica non può aiutare più di tanto, anzi rischia di peggiorare la situazione: un frame o una breve sequenza evidenziano sempre il contatto ma non possono restituirne la gravità, valutazione che spetta invece al giudizio in diretta dell’arbitro.
Negli ultimi anni è in atto una demonizzazione tout court del gioco duro, e basta ormai una gomitata o una rissa lontanamente accennata a farci gridare allo scandalo; a farci sobbalzare sul divano, quasi avessimo dimenticato cosa è sempre stato il pallone. Sono in tanti quelli che vorrebbero in campo giocatori castrati e restii a far sentire i tacchetti agli avversari, e quindi un calcio sempre più simile a uno spettacolo di danza classica. Ciò vale in area di rigore così come in tutte le zone del campo, dove in teoria si dice che debba essere preservato “il gioco” ma poi, nella pratica, lo si interrompe continuamente. Ciò che però non si capisce è che un arbitraggio così inteso, allo scopo di punire ogni nefandezza, spezza continuamente la partita. Rende magari lo spettacolo più “family friendly” ma anche incredibilmente più artefatto, lento e noioso.
Qui vengono allora a confliggere due esigenze: quella dello spettacolo, che beneficerebbe del vecchio “arbitraggio all’inglese”, e quella repressiva, ossessionata da qualsiasi forma di gioco duro.
Ci ha provato Fabio Capello a farlo capire a chiare parole ai microfoni di Radio Rai, commentando proprio gli episodi di Milan-Roma: «inutile parlare dei rigori, è vero che è stato toccato ma il calcio non è il basket, è un gioco di contatto, la mia proposta è di mettere un ex giocatore vicino al Var per poter discutere di queste situazioni». La domanda in effetti è: ci sono mai andati in campo certi arbitri, dirigenti e appassionati? Si presume di sì, ma forse a questo punto no. Hanno mai ricevuto in età adolescenziale una bastonata ben assestata? Se l’hanno fatto e non hanno denunciato il tutto al telefono azzurro, allora significa che un po’ di sano contatto è nell’ordine delle cose.
Se è vero poi, come dice Pioli, che le squadre italiane faticano in Europa perché altrove si gioca di più mentre in Italia si fischia troppo, la questione diviene ancora più cruciale per la sopravvivenza del nostro calcio ad alti livelli. La soluzione però non può essere neanche il ricorso al tempo effettivo, che non cancellerebbe i falli e anzi forse li renderebbe tutti “tattici” proprio come nel basket. Il punto è modificare il metro arbitrale, nel merito e nel metodo: accettare ritmi più alti, contatti più decisi, incoraggiare il gioco, dargli ritmo e non spezzettarlo ad ogni occasione utile; se necessario proseguire anche con i calciatori a terra come ha fatto la Lazio con l’Inter – ove non ci siano situazioni gravi, botte in testa etc.
Insomma, si esce da questa situazione solo riconoscendo a pieno la natura del calcio come sport di contatto, rinunciando a sterilizzarlo una volta per tutte e quindi permettendo i contatti di lieve entità. Se poi le famiglie si scandalizzeranno per una gomitata, potranno sempre andare a uno spettacolo di danza classica o a teatro: anche meglio, vista la situazione culturale del nostro Paese.