In Israele la scelta della squadra per cui tifare è una questione maledettamente importante, collegata spesso alla politica e all’appartenenza etnica.
I ragazzi che giocano su un campetto ricoperto di polvere rossa – polvere desertica, portata a Gerusalemme dal vento caldo che spira dal Mar Morto – indossano magliette tarocche di squadre europee: Barcellona, Manchester United, Juve, Real, Bayern… Non si tratta di una scelta meramente estetica. Quando, a partita conclusa, escono dal campetto alla spicciolata e chiedo loro per che squadra tifino, le risposte sono intonate agli stemmi delle loro casacche malamente falsificate: Barcellona, Manchester United, Juve, Real, Bayern… Certo, si potrebbe immediatamente obiettare, la loro scelta è motivata dal fatto che il calcio europeo è più appetibile di quello israeliano.
D’altronde qui, come anche in Africa o in Asia, è molto più facile appassionarsi alle squadre inglesi, italiane o spagnole, trasmesse nelle tv di ogni bar, piuttosto che alle modeste gesta delle formazioni locali. Ma, in questo caso, c’è di più. C’è che in Israele, terra storicamente martoriata e malamente spartita tra ebrei, musulmani, cristiani e armeni, anche il tifo calcistico è una questione maledettamente importante. Una questione che, più che al gioco, guarda alla religione, alla politica, a un’idea feroce e spesso irrazionale di appartenenza. In poche parole, una questione da adulti.
Il calcio professionistico israeliano ha origini antiche in cui, fin da subito, lo sport si intreccia con la politica. Il primo campionato storicamente documentato, infatti, si svolse già nel 1931 e vide un vincitore inatteso, ossia la British Police. Già perché il football, insieme a thè e imperialismo, fu importato qui come in gran parte del mondo dagli inglesi, durante il mandato britannico della Palestina. Un mandato confusionario, ambiguo, che spalancò le porte all’ancora più equivoca risoluzione delle Nazioni Unite del 1948, che in sostanza riuscì nella non facile impresa di scontentare tutti, ebrei e arabi, creando le basi di un conflitto che dura tutt’oggi.
Le squadre che formarono il primo campionato israeliano unificato del 1954, chiamato Lega Leumit (ribattezzato dalla stagione 1999/2000 Ligat ha’Al), divennero così, già a partire dal loro nome, cassa di risonanza per sentimenti extra-sportivi. Il Beitar Gerusalemme, oltre ad assumere la fortemente connotata Menorah come stemma, trasse il nome da Betar, movimento del revisionismo sionista. A Tel Aviv, città israeliana neo-nata a fianco dell’araba Giaffa, vennero invece fondati il borghese Maccabi, dal nome dell’organizzazione globale “Maccabi” che si pone l’obiettivo di fornire attività educative, culturali, sociali e sportive agli ebrei di tutti e cinque i continenti, e l’Hapoel, squadra di origini proletarie (Hapoel significa “lavoratore” in ebraico) che vantò, tra i suoi primissimi tifosi, nientemeno che il generale inglese Edmund Allenby.
Le radici così fortemente connotate, politicamente ed etnicamente, delle squadre che militano nel massimo livello professionistico del campionato israeliano hanno effetti duraturi, che permangono ancora oggi. Ma sono inserite in un contesto che sta lentamente mutando, scisso tra una crescente volontà di cambiamento e una latente tendenza ultra-nazionalista, certamente favorita dal vento che soffia un po’ su tutto il mondo.
In particolar modo, sono Tel Aviv e Gerusalemme, le due città più importanti d’Israele, proverbialmente note (“A Tel Aviv ci si diverte, a Gerusalemme si prega”), a essere espressione di diverse concezioni di cos’è Israele e di cosa dovrebbe diventare in futuro. E se, come spesso abbiamo detto, il calcio è lo specchio della società, l’Hapoel ed il Beitar riflettono alla perfezione la situazione e le contraddizioni delle loro città d’appartenenza.
Di Gerusalemme e della sua squadra abbiamo già parlato approfonditamente, in occasione del docu-film Forever pure. Soprattutto, si è parlato del gruppo ultras de La Familia, più volte accusato dall’IFA e dalla FIFA di atteggiamenti razzisti e xenofobi nei confronti dei giocatori arabi. Alle vicende risalenti al 2013 dei due giocatori ceceni di fede musulmana, Dzhabrail Kadiyev e Zaur Sadayev, si è recentemente aggiunto un curioso nuovo capitolo, fresco di calciomercato.
A giugno di quest’anno, infatti, il presidente del Beitar ha annunciato l’acquisto del ventiquattrenne nigeriano Ali Mohamed, giocatore promettente e che, a dispetto del nome, è di fede cattolica. Questo però non è bastato a placare La Familia, che ha espressamente richiesto di trovare al ragazzo un soprannome da stampare sulla maglietta. “Capisci,” mi spiega un ragazzo (che ufficialmente non si proclama appartenente a La Familia) davanti allo store ufficiale del Beitar, «quel nome [Mohamed, ossia Maometto] nel nostro stadio neanche si può pronunciare. Bisogna cambiarlo, è una questione di rispetto».
Questo episodio è solo l’ultimo che conferma l’immutata tendenza estremista della tifoseria del club. Club che, pur essendosi spesso dissociato dalle manifestazioni più clamorose, in certe occasioni non si è invece dimostrato migliore dei propri supporter, evidenziando una stretta uniformità di visione. Durante la visita ufficiale di Donald Trump in Israele nel 2018 – che acuì la tensione israelo-palestinese per la volontà del presidente USA di riconoscere ufficialmente Gerusalemme come capitale d’Israele – il Beitar si ribattezzò, sui propri account ufficiali, Beitar Trump Jerusalem: una trovata tutt’altro che distensiva, e che poco aveva a che fare con il calcio.
Ma se Gerusalemme è il volto ancorato al passato e ad un’idea ultra-nazionalista di Israele, l’altro lato della medaglia è rappresentato da Tel Aviv: città più aperta, moderna, obbligatoriamente nata e cresciuta nel confronto tra gli arabi (che popolano Yafo, la città vecchia) e gli israeliani insediatisi nella parte nuova a partire dagli anni ‘40, ora tutta un fiorire di avveniristici grattacieli.
La popolazione di Tel Aviv è giovane, con un’età media di 30 anni, e fa sempre più fatica a riconoscersi negli antiquati schemi di opposizione ebreo-musulmana. Si respira una crescente volontà di pace e di integrazione, un rifiuto dei dogmi ultra-ortodossi che parte anche dai campi di calcio. Ne è un esempio lampante la compagine dell’Hapoel: vincitrice di 11 campionati e 15 coppe nazionali, la squadra biancorossa è famosa soprattutto per essere la squadra più amata dagli arabo-israeliani.
Non solo perché tra le sue fila hanno militato giocatori musulmani di grande caratura, come il leggendario Rifat Turk (centrocampista nato proprio a Yafo e primo calciatore arabo a vestire la maglia della nazionale israeliana), Walid Badir (capitano della formazione campione d’Israele nel 2010) e Salim Tuama, ma soprattutto per l’attuazione di concreti programmi volti all’integrazione. Dal 1997, infatti, l’Hapoel ha avviato il progetto “Mifalot”, che prevede l’organizzazione di manifestazioni sportive rivolte a bambini e ragazzi israeliani, palestinesi e giordani, finalizzate alla promozione di una pacifica convivenza tra questi popoli confinanti, per non dire sovrapposti.
Certo, non è certo tutto oro quel che luccica. Di contro a queste iniziative lodevoli, infatti, una parte della tifoseria dell’Hapoel ha fatto proprie le istanze antisemite, concretizzatesi nel gennaio di quest’anno durante il derby con il Maccabi. Ai rivali cittadini, le frange arabe della curva Hapoel hanno gridato “Shoah! Shoah!”, invocando nientemeno che l’olocausto per i cugini di credo ebraico. La situazione negli stadi, nonostante gli sforzi, resta dunque conforme al clima politico.
D’altronde, gli stessi membri dell’UNSCOP, il comitato speciale per la Palestina creato nel 1947 dalle Nazioni Unite, definì la risoluzione del problema palestinese come “manifestamente impossibile”. Il calcio cerca di dare il suo contributo, tentando di creare esempi virtuosi contrapposti alla propaganda razziale delle curve, ma difficilmente questo basterà. Lo specchio della società, infatti, risente comunque della realtà in cui si inscrive.
E allora, l’immagine più bella ce la restituisce il calcio non ufficiale, quello di strada, dei campetti arrossati dal vento del deserto. Finita la partita, un bambino corre alla moschea, richiamato dal canto del muezzin; un altro si appunta in testa la kippah e si avvia verso il quartiere ebraico. Uno con la maglietta finta di Salah, l’altro di Suarez. Loro si sono ancora goduti il calcio per quello che è: un gioco. All’obbligo di scelta tra Beitar e Hapoel, con tutto ciò che implica, penseranno un altro giorno.
Una speranza per aumentare i ricavi, l'immenso mercato, i capitali in Europa: il Celeste Impero è un miraggio per tutto il calcio globale. Ma qual è lo stato dell'arte? Un'opinione.
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