Un'estate da dimenticare, ammesso che sia possibile.
Che difficoltà scrivere certi articoli: procede incessante la raffica di notizie tragicomiche senza che la penna riesca a seguirle. I Sauditi a fare spesa in un’Europa ridotta a discount del calcio, Gravina e i diritti Tv, Gravina e Mancini, Gravina Mancini e Spalletti, Gravina Mancini Spalletti e De Laurentiis. Senza parlare delle telenovele melense di mercato: siamo stanchi, capo. Occorre sperare che la lunga estate calda del calcio – nostrano e non solo – finisca presto: e sì che per un italiano invocare la fine della bella stagione è grave, ma tant’è.
Perché un’estate così non si era mai vista: indecenze amministrative e societarie, trattative degne dell’ultimo Maurizio Mosca e dell’iconico pendolino e giocatori che decidono, nel fiore degli anni, di abdicare al successo agonistico in favore di stipendi gargantueschi.
È evidente come il mondiale qatariota – complici le conseguenze economiche della pandemia – abbia ridefinito per sempre i caratteri di un calcio destinato a diventare altro da ciò a cui siamo abituati, un sistema più simile ad Hollywood che non ad uno sport. Ad ogni modo, se dovesse diventare puro intrattenimento, con i giocatori trasformati in multinazionali per conto proprio, occorre badare alla deriva impersonale ed economicistica che sta imboccando e che lo renderà altro dall’agonismo e dalla competizione che ne dovrebbero costituire le cifre essenziali.
Certo, non sono fenomeni nuovi né il commercio che gli sportivi costruiscono sulla propria immagine (si pensi al marchio Air Jordan), né il divismo (si pensi ad Adriano Panatta): tuttavia, se la volontà di massimizzare i profitti legati alla propria notorietà e alle doti tecniche è sacrosanta, ben altro e più grave fenomeno è l’esodo di giocatori che nel pieno della carriera – Manè, Milinkovic-Savic, Fabinho, Kessie etc. – decidono di svernare anzitempo in luoghi in cui il calcio fa discutere a malapena per qualche banalissima esultanza.
Non è del calcio questa dimensione, e non è normale che sia normale. È altrettanto vero, però, che non abbiamo un’idea nobile e virtuosa da perseguire e contrapporre: la situazione del calcio italiano è disastrosa da qualsiasi punto di vista. L’inconsistenza di un calciomercato mai così misero – non per nulla animato dai mal di pancia di un Lukaku qualsiasi, mentre in Premier possono permettersi 70 milioni per Tonali – tradisce la decrescita infelice del nostro campionato maggiore. Per non parlare della situazione in quelli minori.
La scorsa stagione si era conclusa con l’inutile e ridicola epopea giudiziaria della Juventus e un campionato, a suo modo, falsato (lasciateci abbandonare ad un luogo comune: solo in Italia!); altro giro altra corsa e la Serie B – in cui pare ormai normale che le società falliscano a cadenza annuale – riparte escludendo la Reggina in favore del Lecco, in un andirivieni di dirigenti, faccendieri e azzeccagarbugli che tra tribunali e consigli sportivi smaniano alla ricerca di cavilli fumosi e soluzioni improbabili.
Dal 2000 in poi, in Italia, sono falliti quasi 200 club professionistici. Duecento. 9 all’anno. Ma anche questo ormai ci sembra ‘normale’.
A conclusione dell’agosto più grigio degli ultimi anni sono poi arrivate le dimissioni del CT Mancini, tragedia all’italiana in quattro atti (Mancini, Gravina, Spalletti, De Laurentiis) che si potrebbe trasmettere in mondovisione, se solo Gabriele Gravina – il più nudo dei re nudi – riuscisse a trovare un accordo per i diritti dei nostri campionati, per cui comprensibilmente nessuna piattaforma è disposta a sborsare un miliardo di euro e che si discuteranno in una data casuale e però simbolica come l’11 settembre.
Il calcio – quello italiano soprattutto – è ormai un vuoto a perdere in cui a perderci rimangono puntualmente appassionati e tifosi, gli unici a restare col cerino in mano dal basso della loro irrilevanza economica; il calcio del futuro, invece, forte di una sempre crescente popolarità da social, vaneggia e volteggia su se stesso, forse progredisce ma certo non cresce, con i media che addirittura ne tessono le lodi.
In questa Babilonia, a noi commentatori sia concesso quantomeno di indossare l’occhiale indiscreto dello scetticismo, animarci dello spirito nobile del dubbio per evidenziare le patologie di uno sport che rischia di non essere più tale. Senza scadere nel passatismo o in nostalgie innecessarie, tentiamo la via della resilienza (sic!) e dell’atarassia (meglio), consapevoli che non è normale che sia normale e che a questa lunga estate – finisse presto! – seguirà senz’altro un autunno caldo in egual misura: il problema, purtroppo, non è certo stagionale.