In principio fu il Rugby. Nello sport inventato da sir Webb Ellis è noto che la palla ovale debba essere fisicamente condotta oltre la try line per marcare una meta. Nel fratello maggiore del fútbol quindi il giocatore deve immancabilmente correre, e tanto, per poter segnare.
Questa una ulteriore separazione regolamentare tra i due sport: nel calcio è la palla che deve correre, non il giocatore. Il goal, la meta, consiste nel medium-palla che oltrepassa la linea di porta, nulla osta che questo accada con un tiro scagliato da centro metri. Il diverso paradigma ha permesso nella storia ai più disparati fisici di prestarsi al gioco del calcio con la garanzia di potersi esprimere al meglio: non esiste quindi, come nella pallacanestro o nel nuoto, un fisico-tipo, uno stereotipo atletico cui votare l’emblema del calciatore.
Non esiste, altresì, un modello di velocità cui un giocatore deve sottostare, ogni latitudine coltiva le proprie specificità. Il calcio latino più abulico, quello europeo più rabattino. Quello contemporaneo, di calcio, è nevrastenico: i ritmi dei capovolgimenti di fronte potrebbero concorrere con i cronometri dei cento metri, ed ogni anno che passa l’ipertrofia atletica ci costringe a rivedere i parametri di valutazione.
Antonio Cassano, fenomeno inconciliabile con la fretta contemporanea, arrivato al calcio già con qualche anno di ritardo (Photo by Denis Doyle/Getty Images)
Ma è esistita, ed esiste ancora oggi in misura minore, una nicchia di atleti irenici in grado di isolarsi nei loro ritmi sonnacchiosi. Calciatori pigri e indolenti il cui talento è tale da poter sopperire ai ritmi epilettici delle nuove generazioni. Christian Eriksen, fuoriclasse danese di recente passato nelle fila dell’Inter, ha dichiarato al suo arrivo in Italia “Non mi piace correre, preferisco farlo con la palla”, a testimonianza che sacche di resistenza possono ancora trovare albergo nel fútbol odierno.
Il calcio posizionale, erede del totaalvoetbal olandese, tanto in voga in questi anni prende le mosse proprio dall’idea che la corretta posizione dei giocatori nel rettangolo riporti il pallone a correre nello spazio. Come si gioca quindi un calcio lento? Sapendo giocare a calcio, non vi sono scappatoie. Lentezza fisica, velocità di pensiero, inerti nella corsa ma rapidissimi nell’assist, nell’altruismo di un passaggio, nel creare linee in campo che gli altri non vedono. Tutti i lenti sono stati grandi passatori, mesti di gamba ma pieni di fosforo in testa.
C’è un legame stretto tra lentezza e memoria, tra velocità e oblio. […] Nella matematica esistenziale questa esperienza assume la forma di due equazioni elementari: il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria, il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio. (Milan Kundera)
Si prenda il caso di Cassano: il talento di Bari Vecchia, appassionato di carboidrati, era solito galleggiare nella zona di campo all’ombra nelle partite pomeridiane tanto era il suo malessere nei confronti della fatica. Nemico giurato del sudore, il fuoriclasse in campo spesso si eclissava in lunghe fasi letargiche, ripudiava andare incontro la palla o attaccare uno spazio. Fisso ed immobile, una volta ricevuta la sfera dispensava magia. Domenico Morfeo, nomen omen, è stato un altro trequartista dai piedi educati e dall’ottima visione, in grado di rallentare l’azione fino all’immobilità. O Liverani, primo afro-italiano a vestire la maglia della Nazionale, oltremodo fiacco ma dotato di un sinistro geniale.
Agostino Di Bartolomei, lento e chirurgico.
Agostino Di Bartolomei, condottiero della magica Roma degli anni ‘80, era un’estensione del Barone Liedholm in campo: cervello e stratega della squadra ma spaventosamente lento. “Perchè dovrei correre signore se già lo fa palla?” rispose una volta Román Riquelme, il vero ultimo Diez della scuola argentina, a mister Van Gaal che andava asserendo: “quando hai la palla sei il più forte del mondo, quando non ce l’hai giochiamo uno in meno”.
Il 10 del Boca è l’epitome di quei giocatori sudamericani speculatori, gente a cui piace molto processare e riflettere con il pallone tra i piedi. Occorre un ripasso di simili poeti in quest’era di ipercinesi. La lentezza di Riquelme andava in due direzioni. Da una parte era proverbialmente lento nelle movenze atletiche, dall’altra conduceva uno splendido calcio sospeso. Valdano, cantore di cose argentine, diceva di lui
Chiunque, dovendo andare da un punto A a un punto B, sceglierebbe un’autostrada a quattro corsie impiegando due ore. Chiunque tranne Riquelme, che ce ne metterebbe sei utilizzando una tortuosa strada panoramica, ma riempiendovi gli occhi di paesaggi meravigliosi.
Giocatori come lui impongono l’arsi-tesi ai compagni di squadra, dettano il tempo come si diceva una volta. Román ha avuto un rivale di gioventù, el Payaso Aimar, mago milionario degli acerrimi rivali del Boca, quelli dell River Plate, in quello scontro manicheo che è il principale derby di Buenos Aires. Aimar condivideva con Riquelme il dominio del tempo: sterzate, frenate, fiumi di estro.
Juan Roman
“Il movimento è un’illusione” diceva Parmenide nel paradosso di Zenone, e lo spiega meglio Borges, argentino come el Mago Valerón, rapido come la tartaruga del paradosso antico ma acuto rappresentante dell’ultima generazione di dieci trequartisti. Valderrama, eroe colombiano, era fondamentalmente un senza ruolo, ogni intuizione creativa della squadra scaturiva dai suoi raffinati piedi, i quali elaboravano ogni pallone in modo coscienzioso.
Valderrama aveva il talento di ipnotizzare gli avversari, imponendo autoritariamente l’andamento del gioco. Bradicardico, delle volte difendeva il possesso trottando verso la propria metà campo, in barba a verticalizzazioni ed ossessione per l’attacco, el Pibe de Santa Marta, narcometronomo in grado di ovattare il gioco per intere frazioni. Don Eduardo Galeano di lui diceva “ha i piedi storti per nascondere meglio il pallone”.
Carlos Alberto Valderrama Palacio, narcometronomo.
I giocatori lenti sono degli intellettuali, il più delle volte. Lo stesso Guardiola incubava nella sua andatura tutte le riflessioni teoriche poi espresse da coach, i giocatori lenti spesso sono degli allenatori in campo. Redondo, tanghero e giurista, può annoverarsi tra i lumaconi dalla classe infinita: passo da bradipo, approccio olistico, lampi di genio. Assimilabile al 5 delle merengues anche l’ingiustamente dimenticato Guti, flemmatico quanto artistico centrocampista di quel Madrid galactico.
“Voi italiani non capite! Io non sono lento; semplicemente preferisco far correre veloce il pallone piuttosto che le mie gambe…” urlava contro l’allenatore, Jorge Luís Andrade da Silva, detto dai romanisti er Moviola a lasciar intendere la granitica volontà di rimanere statuario al centro del campo. Lentezza e pallone vogliono dire riflessione ed elaborazione, sinonimo di una mentalizzazione che il più delle volte rispecchia saggezza e fantasia. I giocatori poltroni rappresentano un patrimonio artistico inestimabile, anche in questo calcio isterico, teniamolo a mente.
Quattro squadre in due continenti, disponibilità di capitale immensa, totale mancanza di rispetto nei confronti dei valori di questo sport. Ecco come la Red Bull è entrata nel mondo del pallone.
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