Cultura
21 Gennaio 2023

Mario Sconcerti, calcio e modernità

Siamo davvero alla fine della storia?

Nelle ore successive alla straripante vittoria del Napoli contro la Juventus, sui media erano tutti più o meno d’accordo. Al Maradona – un ammiccante Lele Adani lo dichiarava appena finita la partita – aveva vinto la “modernità”. Sulla Gazzetta dello Sport il sacchista Luigi Garlando, nel suo consueto editoriale, individuava nel mero progresso tecnico del pressing la chiave di volta per entrare nel futuro. Essere moderni significherebbe liberarsi definitivamente, senza alcuna possibilità di scelta, delle incrostazioni ideologiche dello speculativo calcio all’italiana. Percepito come qualcosa di vecchio e inadatto ai tempi in cui viviamo. Smunto. Come lo scarnificato viso di Allegri venerdì sera. Ma è davvero così lineare la questione?

Il compianto Mario Sconcerti apparteneva a quel ristretto gruppo di giornalisti sportivi ancora in grado di interrogare la storia per capire il presente. «Nessuno studia il calcio – lamentava il vecchio cronista fiorentino, insoddisfatto tanto delle de-storicizzate analisi degli odierni manuali pedatori quanto della memoria basata sulla pura aneddotica priva di senso – il grande calcio degli anni Cinquanta-Settanta sta scomparendo senza lasciare né un testimone né una traccia. Non resta memoria. Stiamo perdendo tutto.

Nessuno tratta il calcio come scienza, come storia da conservare e da cui attingere».

Mario Sconcerti

E scienza non inteso come matematica, come specializzazione tattica e tecnologica, bensì come metodo. Per questo associare la fondatezza o meno di una idea al suo successo immediato e congiunturale – senza interrogarsi a fondo sulle ragioni e le conseguenze di tale ricezione – quasi mai è una buona idea. Riscoprire le analisi di Sconcerti, vero e proprio teorico del calcio, allievo indipendente di Gianni Brera, costituisce allora uno dei più potenti antidoti di cui disponiamo per contrastare il vuoto progressismo, tecnologico e sentimentale assieme, tipico degli analisti che bazzicano le odierne redazioni dei giornali sportivi.


Discorso sul metodo del gioco all’italiana


«Il calcio all’italiana non è il catenaccio. Questo servì alle piccole squadre per ridistribuire la potenza. È invece sapienza nella gestione della partita, cambiare schemi, cioè compiti, continuamente. Saper preparare soluzioni a sorpresa. Significa avere una visione d’insieme della squadra, del suo punto di equilibrio. La modernità del nostro calcio sta nella capacità di saper coniugare esigenze diverse, anzi opposte. Si deve molto difendersi e molto attaccare, a seconda delle partite, addirittura dei momenti. Necessita di giocatori che sappiano fare tutto e di una squadra che abbia l’equilibrio sufficiente per cambiare rapidamente pelle».



Difficile trovare una definizione più originale e consapevole. Nel suo raffinato “Baggio vorrei che tu Cartesio e io… Il calcio spiegato a mia figlia”, edito nel 1998 e rapidamente fuoriuscito dal commercio editoriale, l’autore smetteva i panni del giornalista per indossare quelli del vero e proprio studioso. Quello del fiorentino – il richiamo a Cartesio nel titolo non era affatto casuale – è  un vero e proprio discorso sul metodo del pallone, volto ad abbattere i falsi miti e gli stereotipi calcistici così diffusi sia nella chiacchiera da bar che in quella specializzata.

Anche se ridotto prevalentemente a mera teoria della conoscenza del gioco, indipendente da qualsiasi finalità etica o morale dello sport, il quadro teorico risulta convincente. Di più: indispensabile per la decostruzione di quella particolare forma di neo-positivismo sportivo, inconsapevole, che sostiene la pretesa di poter identificare un modo definitivo e moderno di giocare a calcio. L’inconsapevolezza, da parte di chi crede di avere in tasca la verità ultima, deriva dal fatto che un certo tipo di progresso tecnico-tattico sia percepito come storicamente ineluttabile e dunque non problematizzato. L’adattamento a questo: necessario. Un modo di pensare, tuttavia pericoloso.

«Io credo che una tattica non finisca mai. Il calcio dipende sempre da chi lo gioca. Quindi tutto il calcio è sempre giocabile». 

Mario Sconcerti

E ancora: «Nel calcio abbiamo sempre tutti ragione e tutti torto. Per questo è importante tenerlo semplice e rispettare le caratteristiche di chi lo gioca. Per questo è importante l’uomo, l’estro del singolo, la capacità di saperlo inventare, di adattarsi alle partite». Moderno è parola vuota che può voler dire tutto e niente. Del restosulla base di una problematica ma sempre possibile definizione calcistica di modernità: qui sta il nocciolo della questione e, come vedremo, la parziale ambiguità del discorso sconcertianosi può essere moderni in modi differenti: differenti sono infatti i percorsi storici dei gruppi umani, siano intesi questi come culture o civiltà. Il ragionamento è valido anche per coloro che s’interessano di calcio.


Critica della ragion pura calcistica


«Credo che, alla domanda se il calcio sia una scienza, anche Kant darebbe parere affermativo. Secondo i suoi criteri il calcio è scienza potendosi basare su giudizi sintetici a priori. La scienza del resto non è verità, ma continua ricerca della verità. E come tutte le scienze, anche il calcio dà spesso risultati inesatti». Sebbene a Sconcerti sfugga la sottile differenza tra l’idealismo di Immanuel Kant e i giochi teorici dei suoi più mediocri epigoni, ciò non inficia il ragionamento del giornalista. A Cartesio e al filosofo di Königsberg il calcio sarebbe forse piaciuto: poste delle categorie trascendentali, può essere studiato con metodo scientifico. Purché si abbia la provvidenziale accortezza di non ridurlo a questo.

«Qualunque tattica va sottomessa alla qualità dei giocatori, che sono unici; dunque nessuna squadra potrà applicare lo stesso schema dell’altra».

Mario Sconcerti

«La tattica – sottolineava lo studioso fiorentino qualche anno fa in un fondamentale articolo apparso su Limes – non può che essere un principio organizzativo di base, mentre ciò che conta veramente è l’equilibrio d’insieme; la funzione di un giocatore è rompere l’equilibrio per cui si è lavorato: l’incertezza del gioco non è tattica, sta nella bravura dei giocatori; la base del gioco va cercata dunque nella tecnica individuale e nella tenuta fisica». Tali sono le regole universali del calcio secondo Sconcerti. Applichiamole a quanto visto in campo venerdì sera, tra Napoli e Juventus, e otterremo una spiegazione della vittoria azzurra meno ideologica e riduttiva di quella dei neomodernisti.



La gabbia d’acciaio del calcio moderno è inossidabile?


«Nel calcio non conta mai la ricerca della verità, conta quanto la verità sia funzionale alla causa. Se non è funzionale, non è verità». Da questo modo di pensare, incline al relativismo scientifico e dunque non disposto a riconoscere alcun valore veritativo alla filosofia, pure solo calcistica, deriva inevitabilmente l’amara e disincantata conclusione del libro di Sconcerti. «In un’epoca in cui non è facile credere in Dio ed è ormai impossibile credere in Marx – qui il giornalista si adagia sull’affollato letto della fine della storia, anche sportiva – non è un peccato riconoscersi dal partito del calcio. Con un po’ di fortuna si può strappare anche uno zero a zero nella vita».



Mario Sconcerti, nato nel 1948, è figlio del “secolo brevissimo” che dal primo dopoguerra giunge alla fine dell’illusione keynesiana di un pacificato benessere, negli anni ’70. Ha visto declinare tragicamente l’umanesimo dei grandi progetti di emancipazione universale, su base laica o religiosa, credendoli persi per sempre. Si sono affermate prepotentemente le ideologie tipiche dell’attuale fase di sviluppo del modo di produzione capitalistico e della sua formazione socio-culturale egemone, quella statunitense: messianismo tecnologico, cosmopolitismo imperiale, apologia del desiderio. L’individuo si è fatto massa: dentro e fuori dal campo.

Così come la sempre più accelerata rotazione di merci e denaro riduce il tempo di valorizzazione del capitale, annullando freneticamente lo spazio geografico attraverso il tempo, così sul terreno di gioco il pressing riduce il tempo a disposizione dei calciatori per pensare. Distinguersi. Creare. Anche i fuoriclasse si somigliano. L’industria mediatica, in accordo con la sua natura di mezzo per la massa, non può che far parlare al calcio l’unico linguaggio a questa comprensibile: quello di un forsennato circo emozionale, tutto velocità e pressing, orgasmi collettivi e gol.

«Trapattoni – scriveva Sconcerti alla fine degli anni ’90 – viene accusato di essere un tecnico troppo attento alla difesa. In realtà le sue squadre hanno sempre due punte fisse più un trequartista in appoggio. Certo è un italianista, ma di sicuro livello europeo. È stato il primo a portare il nostro calcio al di là del guado, a mostrare che c’era il modo di essere moderni e vincenti anche all’interno della nostra cultura». Innovare nel rispetto della propria tradizione è già qualcosa, rispetto alla furia iconoclasta di chi, con quel fare italianissimo di mostrarsi anti-italiano, poco ha appreso dal passato e tutto dimenticato.

Dilettante ma arguto filosofo e storico della scienza calcistica, il giornalista fiorentino poteva picconare facilmente le banalità tecnico-tattiche prive della pur minima sensibilità storica della gran parte dei suoi colleghi.

Tuttavia il suo relativismo sportivo lo costringeva a imboccare una strada apparentemente senza uscita. Comprendere, a differenza di tanti, che il moderno calcio-circo-mediatico possa essere declinato quantomeno in modi differenti è già qualcosa. Oggetto di critica acuta e puntuale, la realtà storico-sportiva secondo Sconcerti resta però di fatto insuperabile. Per andare al di là del muro, occorre invece il senso della dialettica del giovane Gianni Brera. La trasformazione dialettica della realtà spezza gli equilibri: risolve le opposizioni in una nuova e più alta sintesi.

Questo fece Brera attorno alla metà degli anni ’60, in nome del risorgimento di uno stile di gioco nazionale, contribuendo a rivoluzionare forma e sostanza del calcio italiano della sua epoca. Teoria e prassi, scienza e politica, nel giornalista lombardo erano una cosa sola. Laddove invece il raffinato ragionamento di Sconcerti, in cui logica ed etica viaggiano su binari paralleli, si esaurisce nel ruolo dell’analista. Ci si può solo adattare alla cosiddetta modernità; rivendicando, al massimo, la sacrosanta libertà di interpretarla in modi differenti. Dio e Marx d’altronde – rimuginava Sconcerti – sono morti. Come loro anche Freud. Brera e Sconcerti non ci sono più. E noi ci sentiamo sempre meno bene.

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