La vicenda dell’indipendentismo catalano tiene banco da diversi giorni. Un’ulteriore testimonianza del periodo storico che stiamo vivendo, dove i popoli, in maniere e forme diverse, decidono di dare segnali forti e decisi. Il leave che conquista il Regno Unito e la conseguente Brexit, il grande successo del Front National in Francia passando per l’elezione di un magnate a presidente degli Stati Uniti. Eventi che non corrono lungo lo stesso filo ma che sicuramente hanno smosso l’opinione pubblica. E per opinione pubblica si intende qualsiasi classe sociale della società, compresa anche quella dello sport. L’importanza della politica all’interno di questo, e viceversa, e quanto entrambi siano insiti l’uno nell’altra non è di certo una scoperta sociologica di cui prendersi i meriti in questa occasione. D’altronde, entrambe queste tematiche sono sempre nella testa (e nella pancia) del popolo. E questo, da bravo, si crea i suoi beniamini in base ai comportamenti in campo. Ma non solo. Prendete il calcio, ad esempio: i giocatori che vengono ricordati sono soprattutto quelli fortemente impegnati al di fuori del rettangolo verde.
Indipendenza della Catalogna, dicevamo. Un simbolo, un’icona di questa rivolta popolare, è stato Gerard Pique, difensore del Barcellona da sempre in prima linea contro la corona di Madrid, sia calcisticamente che politicamente, tanto da accettare l’eventuale decisione di non disputare il prossimo – e quasi sicuramente ultimo per lui – mondiale previsto in Russia nella prossima estate. Le sue lacrime dopo la partita contro il Las Palmas hanno fatto il giro del mondo. Hanno commosso, a loro volta. Ma, sinceramente, sono lacrime abbastanza opportunistiche: arrivato in ritiro ha infatti dichiarato “mi sento catalano ma la nazionale è la mia famiglia” “…un indipendentista può giocare per la nazionale”. Controsensi. Infatti, senza entrare nel merito politico della questione, il baluardo indipendentista Pique, ed insieme a lui tanti altri suoi compagni, praticano esattamente il contrario di quello che dicono. L’appartenenza alla propria terra è un’idea nobile. Ma se così è, ecco che il compito di portarla avanti, questa idea, diventa urgente, vero. Insomma, per farla breve: vincere trofei internazionali che ti hanno aiutato a diventare qualcuno per poi rinnegare quella maglia come se non l’avessi mai indossata, non fa di te un uomo onorevole. Così come alla squadra blaugrana, anch’essa molto attiva sulla vicenda, non ha fatto onore giocare la partita di Liga (prevista proprio il giorno del referendum), perché minacciata di perdere qualche punto in classifica ed essere sanzionata con una multa, nonostante i suoi tifosi si fossero espressi contro lo svolgimento dell’incontro (dopo i drammatici e riprovevoli episodi di violenza tra polizia spagnola e votanti catalani); le critiche alla società non sono ovviamente mancate. Opportunismo politico, diciamo che così possiamo sintetizzare questo atteggiamento. Comportamento che però, è giusto sottolinearlo, non ritroviamo ovunque. Un altro catalano di nascita che ha sempre ribadito la sua voglia di indipendenza è stato Pep Guardiola, che ha fatto sentire il suo Sì contro la Spagna anche oltremanica, dove attualmente si trova, definendosi “indignato di come si sia cercato di impedire a dei cittadini il diritto di voto” e criticando la scelta del suo stesso Barcellona di scendere in campo mentre fuori lo stadio imperversavano gli scontri tra cittadini e polizia. Guardiola da sempre si è schierato a fianco della popolazione, intervenendo anche lo scorso giugno ad una manifestazione pro indipendenza come portavoce delle sigle della società civile indipendentista, Omnium, Ami e Assemblea Nacional Catalana. Dal palco, di fronte a migliaia di cittadini, Pep sostenne che
in quest’ora tanto importante per il nostro paese, la sola risposta possibile è votare, non c’è altra via di uscita.
Uscendo fuori dagli schemi che ci portano a sostenere tesi pro o contro l’indipendenza della Catalogna, il calcio si dimostra ancora una volta un elemento sociale importantissimo e del quale bisogna sempre tener conto, perché fa parte del vissuto e come tale gode di risorse fondamentali. Rimanendo sempre nella penisola iberica (che di queste situazioni indipendentiste fa scuola in tutta Europa), un altro caso storico è quello basco. Questa corrente indipendentista fonda le sue origini dal movimentocarlista(un movimento tradizionalista che aveva l’obiettivo di garantire la successione al trono di Spagna dei figli di Carlo Maria Isidoro di Borbone), con all’interno anche idee provenienti dal Romanticismo. Nel 1895 venne fondato il Partito Nazionalista Basco e con lui vennero portate ancora più in alto le idee che innalzavano questo popolo a razza superiore agli spagnoli, fino ad opporsi alla loro immigrazione nei territori baschi. Passando al campo da gioco, chi ha cercato di riflettere le ideologie politiche è stato sicuramente l’Athletic Club (ma non l’unica, vedi la Real Sociedad), squadra storica della città di Bilbao. L’Athletic Kluba (come lo chiamano da quelle parti) ha una tradizione centenaria contraddistinta dalla volontà di non comprare giocatori che provenissero fuori dall’area geografica intesa come Euskal Herria (che comprende anche i paesi baschi francesi e la Navarra). Le ragioni di questa progettazione non c’entrano nulla, però, con la politica, o almeno non ufficialmente. L’Athletic si è sempre scagliato contro le idee del calcio moderno, salvo poi negli ultimi anni cedere a qualche compromesso (due esempi possono essere l’acquisto nel 2015 di Raùl Garcia, un non basco, e lo sponsor comparso sulla maglia), ma questa sua presa di posizione ha creato un connubio indistruttibile con la città e la sua terra. I tifosi, sostanzialmente, rivedono nel calcio quello che loro pensano riguardo la politica: è come se questa terra al confine con la Francia dovesse andare perennemente controcorrente, fiera di questa caratteristica che la contraddistingue dalle masse, seppur non con risultati eclatanti. D’altronde il calcio è un gioco semplice e se la squadra rispetta i suoi tifosi diventa anche più bello.
Chiudiamo il capitolo spagnolo spostandoci dall’altra parte del continente, ad est. Dopo la morte di Tito la Jugoslavia, o meglio l’ex Jugoslavia, è stata teatro di guerra durante tutti gli anni novanta. Idee politiche e religiose contrastanti, nazionalismi ed interessi economici esterni hanno creato una vera e propria guerra civile che ha coinvolto paesi quali la Serbia, la Croazia, la Bosnia ed anche la Slovenia. Proprio dalla Serbia viene un altro esempio di come calcio e politica, spesso e volentieri, si “vengono a trovare” sullo stesso piano. Durante un’intervista rilasciata quando allenava il Bologna, Sinisa Mihajlovic ha ripercorso le tappe della sua vita e di quel periodo storico, che lo ha formato come uomo. Non conforme all’idea pubblica, come sempre, l’allenatore del Torino ha voluto rimarcare da una parte come il nazionalismo non sia sempre un’accezione negativa (“sono più comunista di tanti altri”) e dall’altra ha ribadito il suo profondo dissenso verso le operazioni militari dell’ONU, che hanno portato al bombardamento della sua terra durante la guerra del Kosovo. Quando parla, è come se volesse difendere centimetro per centimetro la sua patria, un po’ come faceva in campo, perché anche se è consapevole che il suo popolo ha litigato per decenni su tutto, questo, appunto, rimane sempre il suo popolo. E non rinnega né si pente di nulla: dal necrologio dedicato ad Arkan (“un amico ed eroe per il popolo serbo”) fino alla nostalgia della Serbia che ha vissuto, quella del maresciallo Tito, dove “slavi, cattolici, ortodossi e musulmani vivevano insieme”, e “ti insegnavano a studiare, a migliorarti”. Un personaggio carismatico, che al di là delle grandi doti calcistiche ha sempre voluto fare chiarezza riguardo a quella che è stata, ed è, la situazione politica nel suo paese. Una frase che colpisce, si fa per dire, la possiamo trovare nell’intervista rilasciata a Guido De Carolis per Il Corriere di Bologna, dove interrogato su quale fosse il ricordo peggiore della guerra vissuta, rispose:
Giocavo alla Lazio. Apro il giornale e vedo una foto con due cadaveri. La didascalia diceva: due croati uccisi dai cecchini serbi. Uno aveva una pallottola in fronte. Era un mio caro amico, serbo. Lì ho capito: su di noi hanno raccontato tante cose, troppe non vere.
Passando da ovest ad est, ci siamo dimenticati di parlare di un’altra realtà calcistica – politica, che si trova nel cuore del mediterraneo, esattamente a pochi chilometri da noi. La questione della Corsica è stata più volte dibattuta e ripresa goliardicamente (ma neanche troppo) da italiani e francesi, che si sentono entrambi padroni dell’isola. Ma la storia, come sempre, fa da paciere: nel 1768 la Corsica apparteneva alla Repubblica di Genova, che aveva degli ingenti debiti nei confronti del re di Francia, Luigi XV. Per cercare di prender tempo, Genova offrì alla corona l’isola come garanzia. Ma non essendo in grado di poter pagare i suoi debiti, avendo già dichiarato tra l’altro la bancarotta, i francesi se ne impossessarono. I Corsi, da parte loro, non si sentono né francesi né italiani (parlando questi una loro lingua, molto simile al genovese), rivendicando semmai una maggiore autonomia dell’isola, con la creazione nel 1976 del Front de Libération National de la Corse. Più che di indipendentismo, è necessario parlare in questo caso di nazionalismo corso, che si scontra con la politica francese su questioni di ambito economico, ambientale e culturale. Calcisticamente parlando l’isola ha due squadre che spesso hanno militato nella Ligue1, quali Bastia ed Ajaccio. Ovviamente, soprattutto in un territorio così piccolo, le idee politiche non potevano non influenzare anche le squadre. In questo caso non abbiamo né similitudini con i baschi, né con i catalani, in quanto sono i tifosi i maggiori promotori dell’idea nazionalista. Nel 2015 il Bastia ha avuto di fronte la grande possibilità di poter vincere un trofeo nazionale, arrivando in finale di Coupe de France, disputata a Parigi proprio contro la squadra della capitale. La partita è terminata quattro a zero per i parigini, niente di sorprendente. Quello che ha avuto del clamoroso è stata la decisione del presidente della Lega Calcio francese, Frédéric Thiriez, di non scendere in campo a dare la mano ai corsi per non prendersi i fischi e gli insulti dei tifosi del Bastia. Tifosi che tendono a dimostrare le loro idee in tutti i modi e con atti forti: l’evento culmine, che ha poi causato la decisione di far giocare la squadra biancoblu a porte chiuse fino al termine della stagione, è stata l’aggressione ai giocatori del Lione, anche da parte del responsabile della sicurezza. Anche i componenti della squadra hanno portato sul campo le idee che provengono dalla tribune. Durante la partita Nizza – Bastia (Ottobre del 2014), il portiere Leca ha fatto il giro di campo sventolando la bandiera corsa di fronte a tutto lo stadio. Ovviamente, è diventato l’idolo dei tifosi.
Eccolo, il calcio. Questo sport, più di altri, rappresenta il vero riflesso della società. In questo senso è assai facile comprendere la famosa sentenza churchilliana sul belpaese:
Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio.
Lasciando da parte gli scherzi, almeno per un attimo, torniamo a noi. Più un ambiente è politicamente caldo, più la squadra sente le esigenze della propria tifoseria. Catalani, baschi, serbi o corsi sono soltanto degli esempi europei di quanto la politica influenzi il gioco del pallone. Ogni caso sul quale ci siamo soffermati ritrae una specifica situazione di auto-determinazione (senza stare a soffermarci sulle ragioni delle singole historìe, siano esse giuste o sbagliate). C’è chi sostiene che politica e calcio debbano essere completamente slegate tra di loro. La verità è cheogni squadra ha la sua natura politica, caratterizzata – e caricata – dai propri tifosi. È un processo inevitabile, un circolo vizioso che non è possibile interrompere: il calcio è formato dalla gente, che vive all’interno di una comunità. E tutto, nella società, è politica. Persino la cosa più importante delle cose meno importanti.