A quanto pare ci eravamo sbagliati: a svuotare il calcio dei suoi significati simbolici, rituali e persino religiosi non sarebbero stati i fondi qatarioti e sauditi, le spregiudicatezze dei procuratori o i contratti da 30 milioni di euro annui. Non sarebbero stati Calciopoli né la pandemia. A destabilizzare il calcio dall’interno ci avrebbe pensato la mania dicontrolloche divora le nostre società, ossessionante, fino al punto di voler rimuovere completamente il caso e l’imprevisto dalle nostre vite. Il fútbol d’altronde, come scriveva con un po’ di retorica populista-latina Eduardo Galeano in quel capolavoro di Splendori e miserie del gioco del calcio, è diventato un fenomeno globale perché nessuno ha mai potuto governarlo.
«Per quanto i tecnocrati lo programmino perfino nei minimi dettagli, per quanto i potenti lo manipolino, il calcio continua a voler essere l’arte dell’imprevisto. Dove meno te l’aspetti salta fuori l’impossibile, il nano impartisce una lezione al gigante, un nero allampanato e sbilenco fa diventare scemo l’atleta scolpito in Grecia».
È l’imprevedibilità che mette in moto sentimento e mistica; il pallone è rotondo, e così la vita. Per questo il calcio è riuscito ad unire alto e basso, ad incantare il popolo ma anche a sedurre gli intellettuali: «ogni gol è sempre un’invenzione, una sovversione del codice: è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità», scriveva invece Pier Paolo Pasolini giustificando il suo innamoramento poetico. Ecco, oggi il gol – metafora ultima di tutto quanto – è diventato semplicemente un pallone che oltrepassa una linea, quella della porta avversaria: il processo ultimo di tattiche studiate fino alla nausea e schemi ripetuti fino alla sfinimento; è la giusta risoluzione di un esercizio, come se fosse un’equazione algebrica.
Mentre in passato si ricercavano nel pallone epica e imprevedibilità, adesso si pretendono scienza e controllo. Tutto deve essere spiegato, previsto e prevedibile. Così non sono più solo gli addetti ai lavori ma anche giornalisti e tifosi a ricorrere a lavagne tattiche e heat maps; a spiegare i risultati con il grado di realizzazione degli expected goals, ovvero la probabilità che ha un calciatore x di segnare da un punto y tenendo conto (come se fosse possibile) di tutte le variabili, dalla posizione del portiere al rimbalzo del pallone, dall’angolo di tiro agli ostacoli verso la porta. Insomma, da fenomeno popolare il calcio si trasforma in materia da addetti al settore, proprietà intellettuale di nerd e matematici che ne studiano leggi e funzionamenti.
Il mese scorso Julian Nagelsmann, bravissimo allenatore del Bayern Monaco cresciuto però a pane e Football Manager, ha dichiarato: «il football americano è molto più avanzato del calcio. Il quarterback ha un auricolare perascoltare il suo allenatore. È qualcosa di cui avremmo assolutamente bisogno anche noi». In queste parole è riassunto un po’ il pensiero di quegli allenatori che Mehmet School, ex leggenda dello stesso Bayern, avevadefinito“laptoptrainers” (allenatori da portatile). Puro delirio di onnipotenza che si fonda su una grande illusione, quella secondo cui – per citare Walter Sabatini – a vincere le partite sarebbero gli allenatori e non i giocatori.
Nagelsmann si accontenta allora degli odierni giocatori “polli d’allevamento”, cresciuti e gonfiati dall’industria calcistica globale, basta che siano telecomandati. Allievo fedele in ciò del maestro Marcelo Bielsa e della sua massima: «se il football fosse giocato da robot, non perderei mai».
L’obiettivo diventa un calcio scientifico, in grado di eliminare le variabili o quantomeno di ridurle al minimo. Un vicolo cieco sperimentato anche da Guardiola, lo stesso che ai tempi di Barcellona si chiudeva in una specie di scantinato del club per ore, irrintracciabile, a visionare filmati degli avversari prima di avere l’intuizione tattica con cui vincere la partita. Pep è stato il malato di controllo più di successo del calcio contemporaneo, e proprio per questo oggi riusciamo ad empatizzare con lui solo quando perde, riscoprendosi uomo.
Non è un caso che abbia vinto nove campionati nazionali negli ultimi dodici anni ma sia ormai ossessionato dalla (episodica) Champions League: il “suo calcio”, basato sul dominio del gioco, è un calcio probabilistico che alla lunga, sulle 34-38 partite di un torneo a punti, avrà quasi sempre la meglio (poi con i giocatori che si è ritrovato tra Barcellona, Bayern e City è stato tutto più semplice). Ma in Champions League la legge delle probabilità vale fino ad un certo punto: Guardiola passerà sempre i gironi ma poi, per quanto possa studiare, per quanti astrofisici possa assumere, ci saranno le partite ad eliminazione diretta. Lì non potrà mai controllare tutto: lì saranno le variabili a fare la differenza, “i dettagli”, come amano ripetere gli allenatori; e non tutti i dettagli si possono prevedere o allenare.
Insomma, oggi l’indirizzo è tanto chiaro quanto a tratti distopico: eliminare l’elemento umano dallo sport come se fosse un intralcio all’obiettività, al merito. L’arbitro può sbagliare? Non è accettabile, riduciamo al minimo la sua autorità. Il guardalinee può valutare male? Introduciamo il fuorigioco automatico, come ha proposto – e anzi forse svelato – Wenger per i mondiali in Qatar. I giudici di linea nel tennis possono chiamare fuori un servizio a 200 km/h che in realtà ha toccato un millesimo di riga? Mandiamoli in pensione, mettendo al loro posto un occhio di falco live (anche qui, la precisione di Hawk-Eye non è mai del 100%, eppure il verdetto tecnologico sembra sempre più degno di quello umano). E ancora certi procuratori, soprattutto i più potenti, sono uno schiaffo all’etica e al buon senso? Aboliamoli tutti, e facciamo trattare ai calciatori il rinnovo col solo ausilio delle statistiche di rendimento.
Uomini, prima che posti di lavoro, sostituiti dalle macchine; il tutto per garantire “oggettività”, per la nostra patologica e nevrotica mania di controllo.
Ma non è solo l’uomo bensì ogni variabile a dover essere limitata: se le condizioni atmosferiche in Qatar sono insostenibili (anche in inverno) non scegliamo un altro Paese ospitante per i Mondiali, costruiamo invece il primo stadio al mondo con tetto retrattile e sistema di condizionamento ultrainnovativo; se il terreno a tratti è imprevedibile e così il rimbalzo del pallone, con la scusa anche dei costi, passiamo pure al sintetico (la strada intrapresa da sempre più società, soprattutto in Nord Europa); se le perdite di tempo avversarie guastano i piani dei grandi allenatori, introduciamo il “tempo effettivo”. Una proposta condivisa da molti e avanzata per ultimo da Pioli: eppure ci sono molti altri modi, e più efficaci, per aumentare l’intensità del nostro calcio (dal metro arbitrale alle esercitazioni tecniche e fisiche, fino ad arrivare ad una riforma del campionato che lo renda più competitivo).
Senza considerare che questo sarebbe l’ennesimo favore alle grandi squadre, a chi ha investito di più e può schierare in campo giocatori migliori. Ma cosa dovrebbe fare una Salernitana che pareggia a San Siro, giocare a viso aperto solo per spirito cavalleresco e così incassare cinque gol? Passare la palla unicamente avanti, una volta superata la metà campo, per favorire lo spettacolo e condannare se stessa? Si parla di “merito”, ma il merito saràquasi sempre del più forte. Alla piccola non restano che gli stratagemmi per portare a casa qualche punto: la difesa a oltranza, la bandierina del calcio d’angolo, la perdita di tempo fingendo infortuni. Tutte cose ritenute oggi disonorevoli, a tratti inaccettabili, ma che fanno parte dello sport così come della vita.
«Una vittoria senza merito è una vittoria che non vale». Lo dice Sacchi. Ma stiamo scherzando? Io alleno il Bari o il Lecce e devi affrontare il Milan o la Juve: dovrei forse andare a sfidarli giocando a viso aperto? Magari mi prendo degli elogi ma i punti finiscono altrove.
Eugenio Fascetti
Per questo è la parte forte, innanzitutto, a voler evitare gli imprevisti: dagli allenatori – Guardiola, Nagelsmann, in parte anche Pioli – fino ai dirigenti. Pensiamo ad Andrea Agnelli, che nel 2020 si chiedeva addirittura se fosse “giusta” la qualificazione dell’Atalanta in Champions ai danni della Roma, la quale aveva tanto investito «contribuendoamantenere il ranking dell’Italia». Comprensibile per chi pretende che ad investimento (tecnico ed economico) corrisponda risultato. Una logica aziendale di base che spiega anche perché, fino a qualche anno fa, con il calcio non si potevano fare soldi: bastava una pedata fuori posto per mandare a rotoli un business plan, una stagione storta per affogare tra i debiti. Un’imprevedibilità inaccettabile per chi deve rispettare obblighi economici sempre più stringenti.
Ma questo per i gestori del pallone, ripetiamo, è naturale. Purtroppo però, nell’ultimo anno e mezzo, diversi osservatori si sono rallegrati persino dell’assenza del pubblico, l’ultimo e definitivo elemento di disturbo: così sono venuti fuori i veri valori in campo, hanno gongolato gli aspiranti scienziati nel pallone, come se il valore di un giocatore non dipendesse anche dalla gestione dei fattori esterni e della pressione. Eppure sono sempre di più quelli che aspirano ad un calcio matematico, ad una scienza esatta che proprio per questo non deve essere contaminata da interventi e variabili esterne. Persone intimamente convinte che così trionfi il merito, sicure del fatto che l’essenza del football sia racchiusa esclusivamente nei fatti di campo: più riduciamo il peso di arbitri, meteo, uomini, più avremo un risultato obiettivo.
Un’utopia scientista di chi non è più in grado di sostenere contenuti identitari, rituali, simbolici; di chi non sa più come dare vita a narrazioni collettive che vadano oltre i fatti o gli individui.
È d’altronde un problema generale e fisiologico. Le società che perdono epica, come le nostre, diventano inesorabilmente ossessionate dal controllo. In questo senso la deriva tattico-tecnologica è la malattia senile del calcio europeo e “progredito”. Non è un caso che altrove, dove il football ha ancora un valore sociale, culturale, epico e popolare, essa sia prossima allo zero: dal Sudamerica ai Balcani, dall’Africa al Medio Oriente, proprio come capitava da noi fino a qualche anno fa. Oggi allora, in un’epoca e in una geografia in cui l’umano non ne può più di essere umano, non possiamo stupirci se i rappresentanti del calcio non ne possano più del calcio (tradizionale). Semplicemente siamo invecchiati, per giunta molto male, fino a volerci liberare del corpo.
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Non riusciamo più ad accettare i verdetti del fato, ma solo quelli della tecnologia. Crediamo che il linguaggio della tecnica sia neutro, ma così non è: secondo il protocollo ad esempio, il VAR potrebbe intervenire solo quando si tratta di “chiaro ed evidente errore”; ebbene, chi stabilisce quanto quell’errore sia chiaro? Quante volte – anche nelle ultime giornate – siamo stati di fronte a una decisione dubbia in cui l’arbitro ha visto, valutato ma poi è stato richiamato al monitor? Nel momento stesso in cui accettiamo che solo la tecnologia possa darci risposte oggettive, e che l’umano sia invece passibile di errore, lo spazio di valutazione dell’arbitro lo avremo già condannato in partenza.
Il suo giudizio non sarà mai e poi mai obiettivo come quello delle macchine, malgrado poi paradossalmente debba interpretarlo. Anche qui, è ingenuo pensare che il fermo immagine immortalato dalle telecamere sia fedele al 100%: nei casi dubbi c’è anche la dinamica, l’entità dell’intervento, la velocità della corsa e così via.Come possono un frame o una breve sequenza restituirci la gravitàdi un contatto? È in un simile contesto alla “defund the referee”, quindi, che si inscrive l’ultima idea dell’AIA: rendere pubbliche le conversazioni tra direttore di gara e sala VAR, e così farle ascoltare ai telespettatori. Una glasnost‘ in salsa italico-arbitrale, pensata per placare quel coro di “onestà” che si leva alto dal popolo calcistico italiano.
Così siamo noi tutti, non solo i registi del pallone ma anche i suoi spettatori, a chiedere a gran voce che il calcio diventi il Grande Fratello.
È «il popolo che prende a calci in culo il popolo su mandato del popolo», come Carmelo Bene sintetizzava la democrazia. Promessa di sicurezza dopo promessa di sicurezza – la goal line technology, il VAR, il manto erboso perfetto, il fuorigioco automatizzato, il giudice di linea rimosso, l’auricolare ai giocatori – stiamo sacrificando l’umano in nome della verità. Ma come diceva il vecchio e caro Nietzsche, fatalista attivo: «perché la verità? Perché piuttosto la non verità?». Se la verità è garantita dalle telecamere ovunque, persino negli spogliatoi, da dodici schermi che sbirciano ogni angolo del campo, noi preferiamo di gran lunga l’ignoranza: beata!, come dicevano gli antichi, o forse più semplicemente umana.
Questo articolo, nella sua versione originale, è uscito sul Corriere dello Sport del 14/10/2021 (edizione nazionale) con il titolo “Il calcio delle improbabilità”.
Firma nobile del giornalismo italiano (e non solo sportivo), Roberto Beccantini è il giornalista-tifoso più imparziale che conosciamo. Tifoso dai tempi di Sivori, per via dei calzettoni abbassati e del genio fumantino; imparziale, perché – sue parole – sincero col lettore.