Si gioca troppo, ma davvero troppo. Tutti lo sanno, tutti lo ripetono e nessuno fa nulla. L’ultimo è stato Jürgen Klopp, il quale ha perso la pazienza davanti ai giornalisti poiché, a suo modo di vedere, anche questi ultimi non facevano abbastanza, non capivano (“misunderstand”) fino in fondo il senso del proprio lavoro: non solo quello di assecondare la spettacolarizzazione ma anche quello di battersi per un miglioramento del mondo del calcio, di metterne in evidenza le insostenibili contraddizioni, di analizzarlo criticamente. Klopp ovviamente tira acqua al suo mulino, quello di un allenatore che vorrebbe giocatori più riposati e più tempo per allenarli, ma il suo discorso è sacrosanto sotto molti punti di vista. Anche nella chiosa con cui ammette:
“siamo tutti parte del problema, pure io lo sono”.
Un concetto passato abbastanza sottotraccia nel peso specifico delle altre frasi, eppure fondamentale. Ceferin, in un’intervista rilasciata recentemente alla Gazzetta dello Sport, ha detto sul tema una delle poche cose buone degli ultimi anni: «certo che si gioca troppo, ma i club ne hanno bisogno per pagare stipendi e premi. Però siamo arrivati al limite, oltre non si può più andare (…) Facile attaccare sempre FIFA e UEFA, ma il discorso è semplice: se giochi meno, gli stipendi si riducono», aggiungendo poi con un populismo tanto paraculo quanto nauseante «chi dovrebbe lamentarsi sono gli operai in fabbrica a mille euro al mese». Un po’ stile Infantino, capo della FIFA, il quale affermava che il mondiale in Qatar avrebbe salvato i migranti dalle morti in mare e che bisognava ringraziare la FIFA per aver dato lavoro a così tante persone (poco importa a che condizioni).
Eppure sul punto Ceferin ha ragione, anche quando precisa che spesso sono gli stessi presidenti dei club a non spingere per le riforme (dei campionati a 18 squadre, per esempio); e infatti i presidenti sono gli unici che nicchiano, nelle lamentele generalizzate e disorganizzate di allenatori e giocatori. Tanti calciatori sono usciti allo scoperto negli ultimi tempi, da Courtois a De Bruyne a Modric, tutti sfogandosi per la mole di impegni e tirando in ballo confusamente la FIFA/UEFA sfruttatrici, eppure nessuno avanzando una soluzione; nessuno avendo il coraggio, la consapevolezza o forse la volontà di proporre soluzioni elementari quali quella di ridurre gli stipendi, insieme agli impegni. L’unico che abbiamo sentito affrontare il tema è Carlo Ancelotti, in un’intervista dello scorso anno al Corriere dello Sport:
«Il calcio deve cambiare e deve farlo in fretta. Per prima cosa bisogna ridurre il numero delle partite, si gioca troppo e male, la qualità dello spettacolo è precipitata, i giocatori non ne possono più, alcuni rifiutano la convocazione in nazionale. Stanchezza fisica e mentale, uno sproposito di infortuni, partite che finiscono 10 a 0, è ora di dire basta. Meno partite, lo ripeto, e due finestre per l’attività delle nazionali. Tempo fa ne ho parlato con Wenger. Sono sicuro chei giocatori sarebbero disposti a abbassarsi lo stipendio, se passasse la riduzione del calendario. Gli allenatori farebbero lo stesso. Oggi non siamo più in grado di lavorare e di incidere. Il calcio, così, non sta in piedi».
Inutile dire che, come spesso ci capita con Ancelotti, condividiamo anche le virgole. Ma simili dichiarazioni ce le aspettiamo pure dai giocatori, e non solo per coerenza, ma soprattutto per mettere pressione al “sistema calcio” e porre il tema al centro del dibattito. Pensate quanto rumore farebbe un De Bruyne che aggiungesse alle invettive contro la FIFA la chiosa: “noi saremmo disposti a guadagnare meno per giocare meno”. E immaginate se i giocatori si organizzassero, se lo dicessero insieme. Ecco, forse il punto è che le cose non sono così semplici; magari non tutti i calciatori sono d’accordo, o magari non lo sono i presidenti, gli sponsor o chi per loro.
In un’epoca in cui i media, trasformati in pagine social, plaudono alla “consapevolezza politica” di calciatori-influencer ammaestrati appena questi fanno una banalissima dichiarazione contro le discriminazioni o a favore dell’ambiente, manca qualcuno che davvero porti avanti battaglie “politiche” dall’interno, che abbia un’idea di calcio da avanzare e non solo sfoghi da condividere, che faccia un po’ da sindacalista della sua categoria. Difficile anche questo, soprattutto oggi che i sindacati sono morti, sepolti e con il braccio del potere sulla spalla, come capitato al leader della (fu) CGIL nell’abbraccio mortale di Draghi, ma necessario per non farsi schiacciare da quel potere, per metterlo in discussione non solo a parole, ma con proposte concrete.
Questo dovrebbe essere al centro di quel “tavolo” che ha invocato Jurgen Klopp, con tutti seduti a discutere di possibili soluzioni.
Il problema, ad oggi, è che manca una visione di sistema per riequilibrare il mondo del calcio; e in questo scenario l’impressione è che i giocatori vogliano la botte (e la tasca) piena con la moglie ubriaca. Non basta allora prendersela con gli effetti senza menzionare le cause, senza parlare del come e del perché il pallone si sia trasformato in un allenamento intensivo che tratta i giocatori come polli da batteria. Il problema è che l’industria-calcio si è alimentata sempre di più, è cresciuta a dismisura in una contraddizione strutturale, quella di essere un’industria ad oggi non sostenibile: più non era sostenibile, più rilanciava per cercare di diventarlo. Una bolla che si gonfiava giorno dopo giorno, o anche un treno che andava troppo veloce per potersi fermare e che anzi continuava ad accelerare.
Supporta Contrasti! Fai una donazionee sostienici.Abbiamo bisogno di te.
Ma anche noi abbiamo le nostre responsabilità. Siamo cresciuti in anni in cui, eccezioni a parte, non si giocava durante la settimana. Adesso non solo si gioca tutti i giorni, dal lunedì alla domenica in un ciclo continuo, ma se non abbiamo fatto male i conti da fine agosto in poi, e almeno fino all’inizio del mondiale, in Inghilterra non ci sarà neanche una settimana senza turno infrasettimanale (in Italia dovrebbe essercene una sola, tra competizioni europee e Coppa Italia); poi in Premier si tornerà in campo 8 giorni dopo la fine del Qatar, nel celebre Boxing Day, a riprendere la giostra impazzita. L’unico respiro è dato dalle pause nazionali, che ormai viviamo come traversate del deserto di cui non riusciamo a vedere la fine, due settimane interminabili che mostrano perfettamente il nostro meccanismo di dipendenza, le nostre crisi di astinenza dal pallone e da tutto il suo contorno.
Siamo diventati noi stessi dei tossici del calcio, drogati che non sanno gestire i tempi morti e vogliono sempre un’altra dose, sempre un’altra partita. Ci abbuffiamo di calcio, senza sosta, ancora e ancora, fino a dilatare i confini della sazietà. Ecco perché, forse, quest’estate il calcio non ci è mancatoper nulla: perché ne avevamo fatto indigestione. Ci siamo ripresi i nostri spazi, siamo usciti e siamo tornati a vivere, liberandoci per un po’ dalla dipendenza. Ora però è già tutto ricominciato, dal 5-6 agosto in Inghilterra, Germania e Francia e dal 12-13 in Spagna e Italia, il tutto a causa della kermesse qatariota. E non è neanche più una questione etica o morale, non serve scomodare le condizioni dei lavoratori e i morti nei cantieri per sottolineare la totale e manifesta assurdità di un Mondiale invernale organizzato in Qatar.
Qua ci si concentra sulla situazione dei diritti civili, in Occidente siamo abituati a farlo a targhe alterne, e si fanno polemiche sulle bandiere arcobaleno – l’unica cosa buona di questo mondiale è che ci verranno risparmiate. Ma ci rendiamo conto che si gioca una Coppa del Mondo in Qatar, a novembre, con l’aria condizionata?
Dovrebbe bastare questo a chiudere il discorso in un mondo normale. Eppure lo abbiamo accettato, ci sta bene, in fondo è anche un po’ esotico il mondiale invernale: al tè freddo sostituiremo una bella cioccolata calda e alla birra… beh comunque la birra. Per questo il tema riguarda tutti, in parte anche noi, e un mondo del calcio che “non fa abbastanza”: i media aggrappati al treno in corsa, i consumatori assuefatti alla dose quotidiana, i presidenti costretti a racimolare quanti più soldi possibile e i giocatori affezionati ai loro conti in banca a sei zeri. In questo contesto, per paradosso, il sistema è strutturalmente insostenibile ma la coperta è corta.
Non ci aspettiamo allora che gli allenatori, capipopolo tanto improvvisati quanto interessati, avanzino proposte articolate per sanare le contraddizioni strutturali del sistema-calcio, non è il loro compito. Benché meno lo pretendiamo dai giocatori, le cui teste spesso sono buone solo per portare cappello, come si vocifera dicesse Boskov. Ma ci aspettiamo almeno che si impari, anche qui, la lezione ancelottiana: “riduciamo il calendario e ritocchiamo gli stipendi”. Nessuna teoria complessa, niente massimi sistemi: una proposta concreta e di buon senso, ma decisamente più efficace delle solite e stucchevoli lamentele.