Editoriali
20 Ottobre 2023

Smettiamola con il giustificazionismo

La nostra società non produce più nulla, solo scuse.

Tu non sei il tuo lavoro, non sei la quantità di soldi che hai in banca, non sei la macchina che guidi, né il contenuto del tuo portafogli, non sei i tuoi vestiti di marca. Sei la canticchiante e danzante merda del mondo! Eccoci, signore e signori. Siamo arrivati all’ultimo atto. Tyler Durden lo aveva capito già 24 anni fa: siamo la canticchiante e danzante merda del mondo! Tik Tok o Reel. Ore a scrollare balletti. Canzoni prive di significato che, però, vanno in tendenza. Il like glielo metto ora o dopo? Inetti che ti spiegano come si sta al mondo. Sponsor, adv, influencer, gender fluid, partnership, shooting, trend, binary, mindset, content creator e threesome. Onlyfans e soldi facili. Fentanyl e psicofarmaci. Asterischi e resistenz*.

Dio convocali tutti! Autoflagelli su schiene già martoriate. Progressisti in pubblico. Reazionari dentro casa. Scusi, lei spaccia? Campagne inclusive e antirazzismo. Non importa se muoiono 6.500 operai immigrati sottopagati. Ci sarà sempre un arcobaleno abbastanza grande dietro il quale nascondere tutto. Mi si nota di più se protesto o non protesto? Tanto ambiente e poca natura. Al rogo ideali e famiglia. Non sia mai si offenda qualcuno. Dio è morto? Menomale. Non sia mai si offenda qualcuno. Litanie per orecchie capaci di intendere solo: ‘Produci, consuma, crepa!’.



Questo è oggi l’Occidente. Questo è, in buona parte, la sua gioventù. E quanto raccontato da telegiornali, quotidiani e siti d’informazione in maniera spasmodica – ma mai precisa – negli ultimi giorni riguardo il cosiddetto ‘scandalo calcio scommesse’ non ne è altro che l’ennesima dimostrazione. Giovanissimi calciatori con futuri radiosi e già brillanti passati sono finiti dall’essere il presente della nostra nazionale a un gruppo di ludopatici che scommettono su siti illegali legati alla criminalità organizzata. Possiamo contestualizzare, cambiare le parole per essere più sensibili ma la realtà resta schifosamente la stessa.

Attenzione, però. Non siamo così duri perché vogliamo unirci al coro giustizialista. Per inciso, ci fa abbastanza schifo il come la Figc permetta al menestrello nato a Catania di fare il pubblico informatore. Al contrario, i coinvolti sono vittime e la loro fragilità va curata.

Di salute mentale, giovani e sport ne abbiamo già parlato molte volte. Guardiamo con favore chiunque abbia il coraggio di cercare aiuto. Abbiamo cercato (criticamente) di andare in profondità riguardo le possibili motivazioni che ha avuto Simon Biles quando decise di ritirarsi dalle Olimpiadi. Abbiamo compreso Michael Phelps e il suo It’s okay not to be okay, e trattato dell’abisso di Ian Thorpe. Ci siamo preoccupati della salute mentale dei calciatori dietro quell’insopportabile retorica di per quello che guadagnano…, e abbiamo raccontato anche quanto lo sport e l’attività fisica siano in grado di aiutare chi è vittima di devianze o vive in condizioni spesso disumane, come accade in alcune carceri.



Questa volta, però, è diverso. Questa volta non si tratta più di insicurezza, si tratta di mancanza e fa tutta la differenza del mondo. La nostra società non ha più nulla da raccontare. È finita l’epica, è morta la poesia ma banalmente si è esaurita anche la produzione di contenuti, di narrazioni. L’atto finale che mostra il fallimento di un modello che ha inseguito il benessere e ha trovato il vuoto.

Prendiamo questa vicenda specifica in esame per vari motivi. Da un punto di vista sociale perché i protagonisti sono giovanissimi, professionisti di squadre importanti, con contratti più che notevoli e di buona famiglia. Ragazzi che non hanno nulla da chiedere. Al contrario, qualcuno di loro ha anche indossato la fascia da capitano della squadra del cuore realizzando il sogno che aveva fin da bambino. Inoltre perché, se davvero centra in questa storia la criminalità organizzata, è bene che i ragazzi comprendano fino in fondo – fuori da ogni retorica moralista – cosa hanno contribuito ad alimentare.

Terzo perché è la rappresentazione plastica del fatto che pure chi non ha nulla da chiedere in più alla propria vita, e anzi forse proprio per questo, è alla disperata ricerca di emozioni fittizie in quanto la realtà circostante non è più sufficiente. Più in generale, perché palesa l’abisso che c’è oggi tra i giovani occidentali e quelli orientali. Da questo lato del mondo, quello considerato giusto per intenderci, la epitetata Gen Z si scopre sempre più dipendente di: social network, alimentazione, droghe e gioco d’azzardo su tutto.

Dipendenze che hanno come minimo comune multiplo la ricerca compulsiva di un neurotrasmettitore chiamato dopamina. Con lo smartphone a fare da ago ipodermico per la nostra dose quotidiana.

Questo avviene attraverso meccanismi studiati da chi crea algoritmi e funzioni, con i social sempre più simili alle slot machine. Due esempi concreti sono il pull-to-refresh e l’infinite scrolling. Aggiornare senza sosta la schermata cercando qualcosa di nuovo. Ripetere all’infinito il gesto fino a quando non si perdono in alcuni casi i soldi e casa, in altri affetti, vita e personalità. Stesse conseguenze che sta avendo lo spopolare di un oppioide chiamato Fentanyl negli USA. Secondo il Washington Post, è la principale causa di morte tra coloro che hanno dai 18 ai 49 anni. Stiamo parlando di oltre 100mila giovani statunitensi. E sarebbe possibile continuare all’infinito con altri esempi.



Noi, però, non ce la prendiamo con chi è dipendente. Sarebbe troppo semplice colpire chi è vittima. Noi ce la prendiamo con chi, da anni, vede la società come un luogo metafisico in cui anziché formare coscienze per reagire alle difficoltà le addormenta continuando a ripetere che andrà tutto bene. Cerca giustificazioni per chi sbaglia, per chi fugge, per chi fallisce. Deresponsabilizza dalle proprie colpe, assolvendo da ogni peccato. Le dichiarazioni degli agenti dei giocatori e della Federazione non sono altro che la riprova di quanto esposto.

Affermazioni come “è sotto choc”, “è spaventato”, “andrà in cura”, “vincerà anche questa partita, la più importante” sono deresponsabilizzanti oltre che esagerate. Si tratta di terminologie belliche o da malattie terminali, e per quanto siamo ben consci dell’abisso oscuro della ludopatia – un abisso alimentato dallo stesso sistema che il betting lo promuove in ogni modo e luogo, simbolico e reale – ci rendiamo anche conto che a qualche migliaio di km di distanza in guerra ci si trova per davvero, a combattere partite e affrontare paure ben diverse.

Come sono limitanti le dichiarazioni del presidente Gravina, preoccupato perché “questi ragazzi stanno diventando carne da macello”, e quelle del CT della nazionale, che già pensa a come riportarli all’interno del giro della maglia azzurra “perché sono calciatori forti”. Non che sia sbagliato riabilitare un qualcuno che cade, tutt’altro, il problema è rappresentato dalle tempistiche di queste parole. Non può passare il messaggio che tutto, alla fine, resta impunito. Soprattutto se è vero che c’è chi ha scommesso sulla squadra con cui era tesserato, o più in generale sul calcio, e ha intrattenuto rapporti con la criminalità organizzata.

Per quanto di base siamo garantisti, per quanta empatia e comprensione possiamo avere per dei ragazzi come noi, vittime del nulla che avanza, dobbiamo tracciare un limite: basta con il giustificazionismo, basta con il vittimismo.

Gli unici che sembrano aver inquadrato il problema sono stati Fabio Caressa e Ivan Zazzaroni sul Corriere dello Sport. Il primo ha spiegato: «Non è un problema di malattia. È un problema culturale e di educazione. C’è una dimensione economica ormai insopportabile perché c’è una quantità di denaro ormai ingestibile e facciamo credere ai giovani che i soldi siano tutto». E ancora, sui giocatori tornati a casa in lacrime, ha affermato: «Ora piangono ma solo perché li hanno beccati». Per poi concludere chiedendosi chi è che segua questi ragazzi, anche all’interno delle società.



Mentre il secondo, in un editoriale, ha scritto: «Stiamo assistendo al gioco delle giustificazioni che sconfina nel giustificazionismo. Una persona è quello che è per le scelte che fa ed è responsabile delle proprie decisioni. Il che non vuol dire che non possa sbagliare. Ma per rimediare agli errori commessi bisogna innanzitutto averne la consapevolezza e assumersene la responsabilità. Richiamare un giovane uomo, un calciatore, ad affrontare le conseguenze delle proprie scelte non significa condannarlo a priori, ma – anzi – ricordargli che ad ogni errore c’è rimedio, purché in presenza di consapevolezza e volontà. La solitudine, la noia, le famiglie imperfette non sono un’esclusiva dei calciatori.

Ed è giusto ribadirlo, ma se si omette il richiamo alla responsabilità si rischia di cadere nella retorica dell’antiretorica».

Esattamente quella che in questi giorni stiamo leggendo declinata in troppe forme, più o meno arzigogolate. Nel mentre, sullo sfondo e anzi in primo piano, c’è l’impressione di un mondo – quello del calcio – che sta sprofondando insieme a buona parte della nostra società. Prendiamo in prestito le parole di una scena tanto semplice quanto cruda del film ‘Le Haine’: «È la storia di una società che precipita. E che mentre sta precipitando si ripete per farsi coraggio: fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene. Il problema non è la caduta ma l’atterraggio».

Un atterraggio che ha come scenario un mondo occidentale trasformato in un luogo dove venire a fare shopping e nulla più, il quale ha allevato i suoi figli a latte e andrà tutto bene, a tanti diritti e pochi doveri, a tante giustificazioni e poche responsabilità. Mentre dall’altro lato del mondo c’è una generazione che guida rivolte e scende in guerra. In Cina in migliaia sono andati in piazza a Pechino, Shanghai, Chengdu, Chongqing, Wuhan, Xi’an, Urumqi e molte altre città per protestare contro le politiche “zero Covid” della dittatura cinese. Decine e decine coloro che sono scomparsi.

In Iran da un anno a questa parte avviene lo stesso contro i vertici governativi. Proteste incendiarie che – comunque la si pensi, non è questo il punto – hanno prodotto quasi 5mila manifestazioni, 22mila giovani arrestati e 737 uccisi. Tutto questo li ha fermati? No. Lo stesso accade per i giovani palestinesi, la maggior parte con un’età compresa tra i 14 e i 30 anni, che da inizio 2022 hanno imbracciato le armi e portano avanti la loro lotta contro lo Stato di Israele nei territori occupati. E dall’altra parte con i giovanissimi riservisti israeliani, che stanno tornando in massa da ogni parte del mondo per combattere Hamas.



Noi invece ci troviamo confusi, persi, vuoti, spaventati. La società della grande stanchezza e la generazione fiocco di neve, che appena la tocchi si scioglie. Nulla contro cui ribellarci perché coloro verso i quali dovremmo farlo trovano giustificazioni ai nostri errori. Un mondo piatto dove sono inesistenti i punti di rottura e il conflitto viene esorcizzato. Dove anche chi ha tutto e riesce a realizzare i propri sogni, come i calciatori coinvolti nello scandalo calcio scommesse, vive un continuo senso di insoddisfazione e diventa dipendente perché sente la mancanza di passioni e stimoli.

Il Cristianesimo è morto per compassione, diceva Nietzsche, ed è difficile dargli torto.

Ma il Dio cristiano rappresentava l’Occidente tutto che per compassione, comprensione e grande stanchezza si sta inesorabilmente sciogliendo su se stesso. Si parla dell’esempio da dare in famiglia, l’unico rimasto per chi ha ancora la fortuna di averne una sana alle spalle, ma l‘esempio della società dove è finito? Dove i suoi luoghi, tra parrocchie e sezioni, dove i suoi ideali, i suoi contenuti, le sue morali? Cosa siamo in grado di offrire oggi come società a dei ragazzi, privilegiati o dannati che siano?

Noi allora comprendiamo tutto: il grande vuoto, i telefoni, l’immaginario colonizzato dai social network – che cosa crediate che facciano, in fondo, i calciatori durante le proprie giornate – la mancanza di qualcosa pure quando apparentemente si ha tutto. Lo capiamo, ma non possiamo più giustificare sempre. Perché a forza di scherzare col fuoco stiamo finendo per bruciarci, noi e le nuove generazioni; e a forza di sottovalutare la caduta, non abbiamo ancora capito quanto sarà traumatico l’atterraggio.

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