E perché portano (quasi) tutti la maglia numero dieci?
Secondo Pascal, «la verità è così oscurata e la menzogna così affermata che, a meno di amare la verità, non sarebbe possibile conoscerla» (Pensieri, § 739). Quando vediamo per la prima volta in azione un calciatore coi calzettoni abbassati, ci aspettiamo da lui grandi cose. Senza dubbio, pensiamo, sarà un calciatore passionale, emotivo, spontaneo; soprattutto, sarà dotato di una classe sopraffina.
Se questo accade è perché prima ancora di conoscerlo, di misurarne il reale talento, ci sentiamo attratti dalla sua figura. Il calzettone abbassato, come fosse un’icona sacra, ci indica un significante che anticipa – colmandolo – qualsiasi significato. Un po’ come accade col colpo di fulmine in ambito amoroso. Secondo Italo Svevo (La coscienza di Zeno), quando un uomo si innamora di una bella donna ne idealizza anche le qualità intellettuali; accade più o meno lo stesso con chi vede un giocatore coi calzettoni abbassati. Ma il talento che gli attribuiamo è solo ideale?
Intervistato sulla scelta di tenere i calzettoni al livello della caviglia – neanche dello stinco, come accade normalmente –, Omar Sivori rispondeva di preferirli al calzettone portato medio o medio-alto per una semplice questione di comodità. Una risposta semplice e demitizzante. Eppure, c’è un dettaglio che non deve sfuggire: Sivori non portava i parastinchi poiché all’epoca non era obbligatorio. Probabilmente, col passo brevilineo e tutta-tecnica che lo caratterizzava, il calzettone basso era anche più utile alla causa. Certo è che già con Sivori, tanto forte quanto matto, si delinea quello strano legame tra calzettone basso e ribellione interiore.
Quest’ultimo aspetto esce fuori con più prepotenza nel calciatore moderno, più vicino ai riflettori e quindi portatore (più o meno consapevole) di un messaggio extra(meta)-sportivo. È il caso di Gigi Meroni, George Best italiano. In un momento storico in cui vestirsi col pantalone a zampa o stretto alla caviglia può indicare l’appartenenza ad un certo contesto sociale e politico, portare il calzettone basso non è un capriccio legato all’estetica, ma il segno tangibile del proprio essere. Accade d’altra parte anche oggi, ma con altre forme (tatuaggi, capigliature strambe, scarpini fluo) e ben altri messaggi.
Dal punto di vista tecnico, esiste senz’altro un curioso legame tra i calciatori coi calzettoni bassi: sono dotati di una classe sopraffina, sono belli da vedere, a volte indisciplinati, amati dai tifosi. Si pensi a Mario Corso (che si ispira a Sivori) e alla grazia delle sue movenze, oltre all’elegante efficacia delle sue giocate. Si pensi a Juan Sebastian Veron, che accartoccia il calzettone sul parastinco, introducendo una moda che riprenderà, molti anni dopo, Paulo Dybala (altro numero 10 per eccellenza).
E ancora, via con la carrellata dei geni col calzettone basso: Manuel Rui Costa, Francesco Totti (numero 10), Roberto Baggio (altro 10). Icone del calcio mondiale che, in quanto fuoriclasse, vestono fuori dalla norma. I tempi cambiano, il calcio pure, ma la formula del calzettone basso resiste. Pensate a De Paul e Grealish (entrambi numeri 10), o a Insigne e Depay (altro numero 10). Il calzettone abbassato è un marchio riconoscibilissimo. È il tratto distintivo del fantasista, del fenomeno, del giocatore simbolo. In un’epoca ossessionata dal controllo (tra VAR, Expected Goals e rivoluzione nerd), il calciatore coi calzettoni bassi è l’eccezione che fa ballare la regola. E che restituisce al calcio la sua dimensione bucolica.