Calcio
05 Giugno 2023

Eziolino Capuano contro il mondo moderno

Intervista allo special-one del calcio di provincia.

La sua statura è minuta. Eziolino non è alto, la camminata è molto particolare: passi stretti, rapidi, decisi. A volte sembra esser una persona alla mano, espansiva, istrionica, ma in realtà Capuano è uomo riflessivo, introverso, che ama parlare solo con cognizione di causa. Eppure l’allenatore del Taranto (ha appena firmato un triennale con i rossoblu) è uno che non risparmia bordate pure al suo ambiente, quello del calcio: «Non c’è umiltà né riconoscenza in questo mondo. Vince chi lecca il culo di più, sarà banale ma questa è la verità».

Così (ci) parlò Eziolino Capuano: lo special-one del calcio provinciale, l’uomo dalle imprese impossibili. Ma ancora prima, un contrastiano doc. Classe 1965, nato a Salerno, la carriera in panchina di Capuano inizia da giovanissimo. A 17 anni infatti, dopo un brutto infortunio che lo costringe ad abbandonare la carriera di calciatore, Capuano si mette a studiare per diventare allenatore, iniziando presto a collaborare presto con società blasonate (tra cui l’Avellino di Sibilia ai tempi della Serie A). A 23 anni guida l’Ebolitana in Interregionale e, da quel momento in poi, la sua carriera registra una rapida ascesa.

Lo abbiamo intervistato cercando di impostare una chiacchierata originale, profonda, senza peli sulla lingua; che andasse oltre il campo e parlasse dell’uomo Capuano. La persona, eclettica, intelligente, generosa, a tratti anche ingombrante e scomoda, al di là del personaggio social che – suo malgrado, ci tiene a specificare – è diventato. Il tutto provando a scavare in quel sorriso che Capuano ha sempre stampato sul volto, forse pure a mascherare le tante delusioni avute in carriera: dagli esoneri ingiusti alle tentate estorsioni ricevute mentre allenava.

Avellino – Taranto. Eziolino Capuano. Foto di Mario D’Argenio

Come Eziolino definirebbe Capuano allenatore?

Io mi sento garante del popolo che alleno. Come ho detto tante volte un allenatore interpreta il ruolo del prete, deve avere una vocazione per fare questo mestiere e sopportare ciò che accade all’interno. A prescindere dall’entità della piazza in cui si trova, anche sotto il profilo tecnico/tattico, l’allenatore deve farsi garante delle emozioni di un popolo che vivono in base al risultato. Quindi Capuano lo definirei un garante, un guardiano.

Ha mai pensato di cambiare qualcosa di lei per ambire ad altri palcoscenici?

Non modificherei nulla di me. La dignità non la cambierei mai. Il mio modo di esser schietto e sincero un un mondo pieno di ipocrisie ha limitato sicuramente quello che poteva essere un mio percorso professionale, intimorendo anche qualcuno che doveva fare delle scelte – fermo restando che sono 33 anni che alleno in maniera ininterrotta. Ciò vuol dire che il valore dell’uomo supera di gran lunga il valore dell’allenatore. È ovvio che poi, arrivato ad una certa età, ti rendi conto anche di alcuni errori commessi.

Io ho iniziato a fare l’allenatore che ero un bambino, avevo 20 anni. Quando si è giovani si commettono tanti errori. Rimembrare il passato è inutile, il passato non si modifica ma serve per fare esperienza. Cos’è l’esperienza? È tutto ciò che l’essere umano riesce a trasformare da negativo a positivo. Ma cambiare il carattere è una cosa diversa, non riguarda questo, e sinceramente non sono il tipo. A prescindere dal calcio.

Quanto hanno influito i social nella costruzione del personaggio Capuano? E cosa ne pensa lei del mondo social?

I social? Non ne utilizzo nemmeno uno. Sono inutili. Creano solo confusione e si basa tutto su pillole, estrapolati. Ogni cosa è modificabile e non appartiene al mondo del reale. Anche una dichiarazione. Non conosco nulla del mondo di Facebook, Instagram e cazzate varie. Li conosco perché li usano i miei figli. Sicuramente, però, i social hanno influito tantissimo sulla costruzione del personaggio Capuano a mia insaputa.

Appaio come un personaggio forte, schietto, ma tutto viene amplificato per fare qualche visualizzazione in più, perché Capuano fa notizia quando parla…o no?! Nell’ambito professionale ritengo che un allenatore non può e non deve guardare i social. Non c’è ombra di dubbio. È come se un cardiochirurgo guardasse le operazioni attraverso i film preoccupandosi di ciò che può accadere al paziente in televisione. Se ciò avvenisse si farebbe condizionare non poco. Ecco perché sono contrario ai social e al loro utilizzo nel nostro mestiere.


Con che criterio fa le sue scelte professionali? E quanto sono importanti per lei i soldi in questo tipo di valutazioni?

Ma i soldi per me hanno avuto sempre un valore minimo e ne ho guadagnati tanti in questi lunghi 30 anni di carriera. Io le valutazioni le faccio in base alla piazza e alle motivazioni che quest’ultima mi trasmette. Spesso mi sono fatto condizionare dall’amore viscerale per alcune realtà sportive, in particolare quando le tifoserie mi amavano. Scelte che facevo anche in condizioni critiche e disperate, con società sull’orlo del fallimento.

A volte ho pagato anche a caro prezzo queste scelte. Penso alla follia di Fedeli, che per fortuna nel calcio non c’è più, quando andai alla Sambenedettese. Presi la squadra terzultima e la portai al secondo posto. Lui che fece, mi esonerò senza farmi fare i playoff. Questo per farvi capire cosa ho subito nella mia carriera. Ne ho subite di tutti i colori. Grazie a Dio, comunque, io sono sempre nel calcio, altri sono stati solo delle meteore. Ne ho incontrati tanti di fenomeni da baraccone che poi sono esistiti solo qualche anno, scomparendo dai radar.

A quale realtà sportiva si sente più legato per valori ed esperienza?

Ce ne sono state tante di squadre a cui mi sento legato. In realtà ovunque sono andato ho cercato di lasciare qualcosa, e a volte non ci sono riuscito ovviamente. Quando alleni tanti anni ci sono dei momenti di gloria e momenti di grandi sofferenze. Non sempre le ciambelle escono con il buco. Sicuramente posso dire che ho rincorso alcune piazze come Taranto per 21 anni, prendendomi una rivincita personale, o quanto ho voluto Avellino per farmi perdonare la presunta esultanza post Juve Stabia (ndr il ballo sull’auto con i tifosi).

Avellino è una scommessa che ho stravinto ma alla fine cosa è successo? Dopo un miracolo di quel genere non sono stato confermato. Avevo preso una squadra alla sbando, senza una società presente, con problematiche legali in corso. Riuscii a portali nei playoff e gli ho fatto fare l’unica plusvalenza di rilievo fatta negli 25 anni della storia dell’Avellino, ovvero la vendita di Fabiano Parisi all’Empoli, uno dei migliori calciatori italiani in circolazione. Di cosa parliamo quindi? Non c’è umiltà ne riconoscenza in questo mondo. Vince chi lecca il culo di più e meglio.

L’Italia è un paese fondato sui campanili, sulle identità comunali e territoriali. Crede che il calcio di provincia, di cui si parla sempre troppo poco, abbia anche un valore pedagogico?

Il calcio più bello è quello vero, dove non ci sono giri di soldi e si gioca per il piacere del gioco. È quello sport dove il bambino nasce con un Super Santos. Sento dire parecchie cazzate su sport come il basket, il tennis, la pallavolo, il padel, ma il calcio è lo sport più democratico che ci sia, l’unico sport accessibile a tutti fin dalla tenera età. Serve un pallone e basta, le porte le fai con i sassi, gli zaini. Per gli altri sport servono invece strutture e campi idonei.

Tutti possono permettersi di giocare a calcio, bastano due euro per un pallone. Gli altri hai bisogno del sostegno familiare e di molte più spese. Tornando alla domanda, più scendi di categoria più trovi la vera bontà del calcio, la sua essenza. Più sali e più ci sono interessi. Quindi concordo pienamente nel dire che il calcio più bello è quello che si gioca in piazza o nelle categorie più basse.


Non è un caso che i luoghi poveri del mondo continuino a sfornare calciatori di talento. Non è solo una questione di strutture allora, c’è anche qualcos’altro? In fondo quando l’Italia aveva meno strutture e meno benessere, produceva più campioni…

Concordo. Se vai a vedere le squadre giovanili, in molti casi, hanno 8/11 stranieri in campo. Vedi quest’anno chi è primo nel campionato di Primavera 1 e con quale rosa. Questo per dire che il calcio si sviluppa maggiormente negli ambienti periferici delle città, dove c’è disgraziatamente fame. Non è un caso che in Italia i giocatori più bravi vengono da Scampia, Secondigliano per citare Napoli, ma in realtà vengono da tutti gli ambienti periferici delle città e delle metropoli.

Non ho mai sentito un giocatore uscire dal quartiere Parioli di Roma. Nascono nelle borgate proprio per le difficoltà e la fame che hanno. Stesso discorso per altre zone del mondo. Se andiamo a vedere i dati in Francia e Germania sempre più calciatori sono figli di immigrati, prima o seconda generazione francese o tedesca che vive la periferia.

In questo il fatto che non si giochi più per strada, secondo lei, ha una sua componente?

Io, a volte, mi soffermo a vedere le partite degli immigrati che sono arrivati a Pescopagano, il mio paese. Una volta si mettevano le due porte nella piazza con delle pietre e tutti quanti noi giocavamo, adesso invece esistono solo stupidi divieti che rendono i paesi dei mortori. Con questi ragazzi accolti dalla mia comunità torno a vedere quelle immagini. Io li guardo e mi appassiono.

È un calcio sentimentale, più vero, rispetto all’estenuante ricerca della costruzione dal basso che oramai vediamo anche nelle scuole calcio o in partite di prima categoria. Io non amo il calcio da PlayStation, sono ancorato e legato al vecchio calcio, il calcio vero della tecnica intrinseca che ha un calciatore.

Senta ma invece è vero, come dicono alcuni, che i calciatori sono in gran parte delle teste di cazzo?

Il calciatore quando va nello spogliatoio diventa padrone di tutto, poi quando torna a casa, fortunatamente, trova una donna che lo ridimensiona e lo riporta con i piedi a terra. Solitamente pensano di esser i padroni di tutto: nello spogliatoio gettano tutto a terra perché pensano di aver gli schiavi che stanno lì ad occuparsi di loro. Si sentono fenomeni. I calciatori non sono teste di cazzo ma si sentono padroni di ogni cosa. Ecco perché ci vuole bravura nel gestirli e nel ridimensionarli. Ci vuole autorità.

Come li ha visti cambiare i calciatori nei suoi trent’anni di carriera? Antropologicamente ma anche tecnicamente.

Io ho allenato più generazioni di calciatori. Ovviamente il progresso della società porta dei cambiamenti anche all’interno del mondo del calcio. Oggi il giovane è molto piu scostumato rispetto a tanti anni fa. Per assurdo sembra quasi contare nello spogliatoio più il giovane promettente che il senatore, perché si sente tutelato dalla società che su di lui vuole lucrare con qualche plusvalenza. Ti assicuro però che dipende da chi comanda: dall’allenatore passando per il direttore sportivo fino alla società. Dipende da che genere di rapporto instauri e quali regole detti. Spesso i calciatori sono mal guidati.



A proposite di guide, lei crede in Dio?

Io credo molto in Dio anche se a volte faccio tanti peccati. Ad esempio, a volte, bestemmio in maniera stupida. Credo in Dio perché provengo da una famiglia molto legata al mondo ecclesiastico. Un mio zio, il fratello di mia madre, ricopriva una carica apicale presso l’ordine dei Domenicani. Si chiamava Padre Enrico De Cillis. Io sono cresciuto con questa forte influenza religiosa. Da piccolo facevo anche il chierichetto. Non vado spesso in chiesa ma quando ci vado prego. Sono molto devoto a Padre Pio e lì vado spesso a cercare l’illuminazione e la forza per affrontare la vita. Ci vado almeno un paio di volte l’anno a San Giovanni Rotondo.

Cosa trova nella fede?

Io penso che la sofferenza ti aiuta a vedere determinate cose. Quando accarezzi tale sofferenza inizi a vedere le cose in maniera diversa, a dargli anche più valore quando prima le davi per scontate. Io con la fede cerco di sognare, mi auguro che ciò che non sono riuscito a fare io lo facciano i miei figli, che stiano bene per il resto della loro vita. È un sogno continuo in un momento di sofferenza dove ti affidi a Dio per vivere meglio e vedere le cose sotto altre prospettive. Quando sei in una fase della tua vita normale, nell’enfatizzazione della stessa, magari non senti la vicinanza di Dio soprattutto se non abituato al rito religioso.

Passando dal sacro al profano, la politica invece? Se ne interessa?

No, non seguo più la politica. Quando ero molto giovane mi sono sempre considerato un uomo di destra, l’ho detto più volte questo e lo ribadisco. Ma più vado avanti negli anni più sono schifato da questo mondo corrotto, dove l’ideologia non esiste più ma regnano il personalismo e l’egoismo. Non esiste identità politica ma solo la legge del proprio interesse e della convenienza.

Ogni giorno vediamo gente cambiare colore, casacca. Politici o pseudo tali che rinnegano la loro ideologia per il fine del danaro. Non si pensa più alla cosa pubblica. Non c’è etica, non esistono ideali. Ho abbandonato la vita politica da anni. Prima si combatteva, si rischiava la vita. Oggi un giorno sei giallo, un giorno rosso, un giorno bianco. Tutto ciò mi fa schifo.

Torniamo, per chiudere, sul campo. Quale sarà il campanello d’allarme che le indicherà la fine della sua carriera da allenatore?

Io non ho ancora mai pensato di smettere e mi auguro che accada il più tardi possibile. Smetterò quando non sentirò più quella fiamma ardere dentro di me, quel calore che ha permesso di accettare sfide difficili e complicate. Smetterò quando non avrò più la passione di confrontarmi con nuove realtà, quando inizierò a provare digusto per il mio lavoro. Quando non ci sarà più l’adrenalina che mi porterà a dormire tranquillamente la notte prima di una partita. Solo quando sentirò tutto questo capirò che è arrivato il momento di smettere. Al momento, però, ho ancora pagine di sport da scrivere.

Grazie, mister.

Grazie a voi, e fate i bravi!

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