Tirava pugni indietreggiando, come se riflettesse sul suo passato mentre scagliava i ganci che gli avrebbero aperto le porte del futuro. La strada che ha portato Carlos Monzòn non è tortuosa come si dice di qualunque sportivo di successo. In realtà le strade sono le uniche ad aver ospitato Monzòn per tanto tempo, quelle polverose e sterrate di San Javier. Il piccolo pueblo nella provincia di Santa Fe è lo specchio dell’Argentina rurale di metà novecento, dove il terriccio assume spesso il colore del sangue.
Ne vede scorrere tanto, lui, sestogenito di dodici figli condannato ad arrabattare qualche spicciolo come lustra scarpe. Il mix fra la tempra di un morovì, etnia sudamericana dallo spirito combattivo, e la necessità di sopravvivenza, esplode in Monzòn già dall’adolescenza. Il tragitto dall’osteria al commissariato lo conosce bene, dimenarsi in qualche rissa da bar è l’unico modo che ha per non pensare. La confusione regna sovrana nella sua vita e sull’intero paese, dilaniato da una serie di golpe ai danni peraltro dell’esule Peron.
L’indio fa della tempra la sua caratteristica principale, e nel 1964 si rende conto che forse, per la prima volta, la vita gli sta sorridendo.
Ma proprio in questo scenario el boxeo argentino si affaccia alla vetrina internazionale, senza curarsi troppo del lecito. Le scommesse sportive legalmente non sono mai esistite in Argentina, tantomeno il calcio, fonte sacrale, difficilmente è stato profanato dal gioco nero. La boxe invece vive di questo lucro oscuro, creando un doppio ring su cui contemporaneamente lottano l’atleta e il suo “promotor”. Ed è la reale motivazione che porta Monzòn nella palestra dell’allenatore Amilcar Brusa; la bramosia di fama. Malnutrito e dalle falangi fragili, l’indio fa della tempra la sua caratteristica principale, e nel 1964 si rende conto che forse, per la prima volta, la vita gli sta sorridendo.
Lo stadio Estanislao Lopez, dimora del Colòn di Santa Fe, il 10 maggio di tale annata accoglieva il Santos guidato da Pelè per un’amichevole, alla presenza anche del tifosissimo Carlos Monzòn. Probabilmente, quel giorno, il pugile si rese conto che anche un povero santafesino avrebbe potuto sconfiggere i giganti, perché il Sabalero s’ impose per 2 a 1 sui brasiliani con un gol di Demetrio Gomez. Da quel momento lo stadio fu ribattezzato il Cimitero degli Elefanti, dove le grandi squadre “muoiono” inaspettatamente, e ciò stuzzica l’ambizione sconfinata del lottatore.
Il suo camposanto lo costruirà al Palazzetto dello Sport di Roma, l’animale in questione è invece Nino Benvenuti. Sotto l’occhio avido e navigato dell’impresario Tito Lectoure, Monzòn divenne un atleta tecnicamente disciplinato, e soprattutto una macchina invincibile sul palcoscenico locale, pronta per i riflettori. Davide contro Golia è divenuto un riferimento oramai fin troppo abusato, ma i fautori di quell’incontro lo rappresentano alla perfezione.
Il nostro Nino, figlio d’esuli istriani, è un volto del cinema nonché campione del mondo dei pesi medi, abbastanza coinvolto negli ambienti neri romani, tanto da aderire al Movimento Sociale Italiano. Lo sfidante è cresciuto mangiando serpenti nella foresta, e le mani parzialmente fratturate diventano foglie alla vista dello spavaldo Benvenuti. Eppure, in dieci logoranti round, Monzòn mette KO il contendente, lasciando a bocca aperta l’Italia intera. Il mondo prende coscienza della forza del jab a ritroso di Carlos, metafora di una personalità multipolare e incontrollabile, su cui il successo è piombato come una mannaia.
Gli avvoltoi s’iniziano a fiondare sul suo talento, gettandolo in una perenne confusione contornata da droghe e alcool in quantità.
Percepisce la violenza come la propria arma vincente, non riuscendone difatti mai a liberarsene. A soli vent’anni ha già avuto due mogli e quattro figli, che ricorda soltanto dopo le innumerevoli denunce di aggressione domestica, una triste costante che lo accompagnerà fino alla tomba. Così come la rabbia viscerale che gli consentirà di sconfiggere nuovamente Benvenuti nel ’71, appena nove minuti di pura intensità per difendere il titolo e rompere la carriera dell’avversario.
La cornice lussuosa di Montecarlo lo trasporta in un universo a lui estraneo, fatto di notti brave in compagnia di Alain Delon e varie Miss, fra cui la bond girl Ursula Andress. Il campanello d’allarme arriva però da Mercedes Beatriz Garcìa, ai fatti la sua signora, la quale gli spara mandandolo sotto i ferri per sette ore, con vita e carriera a repentaglio. Gli avvoltoi s’iniziano a fiondare sul suo talento, gettandolo in una perenne confusione contornata da droghe e alcool in quantità.
Monzòn si difende dall’attacco di Valdez: sarà il suo glorioso canto del cigno (da boxing.com)
La cintura da campione tanto desiderata si trasforma troppo presto in una zavorra di cui sbarazzarsi, ma non è cosi facile. Significherebbe dire addio alla neonata avventura cinematografica, a una striscia unica di ben 13 vittorie consecutive, e finire nel dimenticatoio oscuro delle leggende. Il 26 giugno del 1976, Carlos Monzòn opta per un’ultima grande performance, niente di personale, ma il popolo argentino che l’ha sempre sostenuto ha bisogno di sorridere. Il generale Videla ha appena destituito Isabel Peròn con il colpo di stato che aprirà la dittatura militare, dando da subito l’impressione di un regime cruento.
La gente ha fame di sorrisi, quelli che soltanto Mario Kempes riesce a strappare sul campo, anticipando il controverso trionfo dell’imminente mondiale. Contro il colombiano Rodrigo Valdez, Monzòn prova la sconosciuta sensazione di finire al tappeto, riuscendo poi grazie al solito fendente stomacale ad aggiudicarsi la sfida ai punti. E’ finita per davvero, forse al momento giusto sportivamente parlando, sebbene l’uomo si avvicini al knockout definitivo. Il ritiro è composto da dubbie amicizie e burrascosi rapporti col gentil sesso, culminati durante il S. Valentino del 1988.
Dal centro del quadrato a dietro le sbarre, l’ epilogo della drammatica parabola di Carlos Monzòn
Alicia Muniz, la più recente delle ex, viene ritrovata in una pozza di sangue nella dimora familiare di Mar del Plata, con al suo fianco proprio Carlos Monzòn. Unico e ovvio sospettato, avrebbe strangolato la modella prima di gettarsi inspiegabilmente con lei dal balcone, una dinamica assurda che infittisce delle indagini psichedeliche. La nazione non sa cosa pensare, i depistaggi avvengono con furti di organi pre autopsia e misteriosi suicidi di figure vicine al caso, eppure Monzòn resta per la maggioranza un femminicida. L’opinione pubblica spinge all’incarcerazione, e sarà l’unica vera giudice nella condanna a undici anni di Carlos.
Nemmeno la reclusione gli dà pace, vivere gli ricorda la consistenza aurea di quella maledetta cintura da campione, e sta per farne a meno. Ottenuta la libertà vigilata, nel ’95 si ribalta a 140 chilometri orari sfrecciando per le vie di Las Flores, in quel troppo che per lui era la normalità. Non cedette mai alla tentazione del ritorno, a fermare il tempo come Muhammad Ali o Michael Schumacher. Tantomeno come Bjorn Borg che accettò milioni per farsi umiliare con un’anacronistica racchetta di legno. Quel rissoso selvaggio dai malsani pensieri fu più lucido degli altri e sopportò che i giornali descrivessero il progressivo tramontare della sua persona.