Il padre spirituale e tecnico della nazionale iraniana.
Quando l’arbitro Mario Escobar fischia la fine dell’incontro, lo stadio Ahmed bin Ali esplode in un tripudio di grida felici. La panchina iraniana festeggia, tra giocatori che piangono di gioia ed altri che stramazzano al suolo per la stanchezza, con i volti divisi a metà tra la felicità fanciullesca e il dolore pungente dei crampi. Tutti, ma proprio tutti i persiani presenti sul terreno di gioco, guardano e ossequiano un uomo caucasico sulla settantina, dalla pelle olivastra, con ordinati capelli brizzolati e occhi di ghiaccio, di quelli che spaccavano lo schermo dei cinema francesi degli anni sessanta.
Le mani affossate nelle tasche e sul volto un ghigno soddisfatto, ma non sopraffatto dallo stupore. L’uomo, composto ed elegante, è Carlos Manuel Brito Leal de Queiroz, di mestiere fa l’allenatore di calcio; e la sua Nazionale ha appena sconfitto il Galles con due gol dopo lo scoccare del novantottesimo minuto, regalandosi il match point per la qualificazione nel girone B nell’ultima partita contro gli eterni rivali degli Stati Uniti. Un finale da film, proprio come in una sceneggiatura del destino. Ma chi è l’uomo del destino? Chi è Carlos Queiroz?
“Carlos Queiroz è stato brillante. Semplicemente geniale. Eccezionale. Un uomo intelligente e meticoloso. Era buono per me. Era un rottweiler. Era quanto di più vicino si potesse essere all’allenatore del Manchester United senza detenere effettivamente il titolo”.
Sir Alex Ferguson
L’UOMO E LA SUA CARRIERA
Queiroz è un uomo di calcio. Nasce in Mozambico, da genitori portoghesi. Mastica pallone nel Paese africano, giocando come portiere per la squadra della sua città natale, Nampula, e diventando poi allenatore. Torna nel Paese dei genitori dopo la Rivoluzione dei Garofani dell’aprile del 1974 e la seguente dichiarazione di indipendenza del Mozambico, avvenuta l’anno successivo. Qui si avvicina al calcio portoghese, facendosi valere nel mondo delle giovanili: guida la nazionale portoghese under 20 fino alla conquista di due mondiali di categoria, 1989 e 1991, trovandosi ad allenare gente come Luis Figo e Manuel Rui Costa.
Dopo gli ottimi risultati ottiene prestigiose panchine lusitane. La prima è quella della Nazionale, un’esperienza negativa che si conclude con un attacco di Queiroz alla Federcalcio portoghese dopo la mancata qualificazione al mondiale USA ’94. La seconda a Lisbona con lo Sporting Clube, dove perde un campionato, in gran parte condotto, dopo un tremendo tonfo in casa contro la rivale Benfica per 3-6 – con la stampa locale che addebita il fracasso alle sostituzioni troppo offensive e ambiziose del tecnico. Queiroz non è, però, solo un uomo di calcio, è un uomo di mondo. Decide di cambiare aria. Allena i New York MetroStars e diventa uno dei protagonisti del Q-Report: una programmazione a lungo termine per sviluppare il calcio negli USA, che avrebbe dovuto condurre The Stars & Stripes a competere nei mondiali 2010.
Poi Giappone, ai Nagoya Grampus, e le nazionali degli Emirati Arabi e del Sud Africa, con la quale ottiene un’insperata qualificazione ai mondiali del 2002, salvo poi non partecipare per dissidi con la Federazione, a testimonianza dell’attitudine fumantina di Carlos. Nel 2003 siede quindi sulla panchina dorata del Real Madrid dove, dopo un inizio sfavillante, cinque sconfitte nelle ultime cinque partite relegano il Real al quarto posto. Nella capitale madrilena Queiroz non china la testa davanti al “padrone”, Florentino Perez, rigettando le volontà del Presidentissimo di veder schierate tutte le diamantifere frecce dei blancos a sfavore dell’equilibrio tattico: viene esonerato.
ARTEFICE SILENZIOSO DI GRANDI SUCCESSI
Poco prima e subito dopo l’esperienza madrilena, Carlos Queiroz riceve una chiamata. All’altro capo della cornetta parla una voce calma, dall’inglese marcato e cadenzato: è Sir Alex Ferguson, uno degli allenatori più vincenti e popolari della storia del calcio. Ferguson vuole Queiroz come vice allenatore e gli affida le chiavi della difesa del Manchester United, un’offerta che non si può rifiutare. Così il portoghese, artefice silenzioso, maniacale e stacanovista della retroguardia mancuniana, contribuisce ai trionfi di una squadra che, proprio sulla solidità difensiva, fonda i propri successi. Presto se ne accorge qualche addetto ai lavori, che dietro le quinte dello United si accorge del lavoro tanto essenziale quanto nascosto del vice-allenatore. Così Carlos diventa Master of Defense.
Ferguson addirittura spinge, prima della fine del suo regno, affinché Queiroz divenga il suo successore; la dirigenza United però tituba e il tecnico portoghese non resiste alla nuova convocazione della sua nazion(al)e.
Anche in Inghilterra, dove la stampa tende a sfidare spesso e volentieri gli uomini di maggior interesse mediatico, il temperamento di Carlos Queiroz si impone. Battibecca, al fianco di Sir Alex, con giornalisti e Federazione, definendo ad esempio la conduzione dell’arbitro Atkinson dopo un match di Premier “a disgrace”. Non solo, contribuisce anche ad iniziare uno svecchiamento strutturale della rosa, con il sacrificio di elementi illustri come Beckham, i fratelli Neville e Roy Keane; quest’ultimo di lui dirà “Excellent coach but one of my big regrets is that i probably should have ripped his head off” – ‘coach eccellente, ma uno dei miei grandi rimpianti è di non avergli staccato la testa’.
REPUBBLICA ISLAMICA DELL’IRAN
Nel 2011 l’uomo di mondo e di calcio Carlos Queiroz abbraccia una nuova sfida: la nazionale dell’Iran. Il nuovo incarico inizia tra avversità di ogni genere, tra costanti dissidi con la dirigenza, ma lentamente Queiroz dota il Team Melli di una solida organizzazione e di uno status nazionale ed internazionale. Costruisce una difesa compatta e pulita, battendo sullo spirito combattivo e sull’attitudine al sacrificio tipica del popolo iraniano, forgiata anche dalla guerra quasi decennale con l’Iraq negli anni’80, un conflitto che causerà un milione di morti e in cui l’Iran resisterà ad oltranza contro tutto e tutti (l’Iraq, che si aspettava una guerra lampo, era supportato tra gli altri da USA, URSS, Europa e quasi tutti gli Stati arabi).
Ma Queiroz si scontra anche ferocemente con la Federazione, e decide di convocare i figli della diaspora iraniana, arruolando nella Nazionale tutti i giocatori persiani nati all’estero o cresciuti fuori dai confini nazionali (i primi furono Daniel Davari, nato in Germania, e Steven Beitashour, difensore irano-americano). Quindi deve difendersi dalle accuse, spesso infondate ma rilanciate anche da Mohammad Mayeli Kohan, suo predecessore sulla panchina nazionale, di non trascorrere tempo sufficiente sul suolo iraniano. Carlos non se ne cura e anzi si avvicina sentitamente alla cultura persiana, una cultura che affonda le radici nei millenni, ben più profonda, complessa e aperta di quanto facciano apparire molte ricostruzioni mediatiche.
Analizza la Iran Pro League fin nel midollo, con l’apporto del suo fedele scudiero Oceano Da Cruz. Affronta con dignità e calma le sanzioni provenienti dalla FIFA per le diatribe politiche, diventando per i suoi calciatori un paterno esempio da seguire. Ma il mite e sussiegoso Queiroz è capace di trasformarsi in breve in guerriero e in istrionico provocatore, come quando qualifica la sua squadra con un’insperata vittoria in terra coreana (del sud), dopo le dichiarazioni al vetriolo dell’allenatore delle Tigri Asiatiche, Choi Kang-Hee, che aveva dichiarato
“I don’t like Iranians, I rather Uzbekistan goes to World Cup instead of Iran go to World Cup!”, e il nostro che aveva risposto: “We will show our power”.
A seguito del trionfo, nel delirio persiano, Queiroz si approssima alla panchina avversaria e agita il pugno davanti al viso, con un ghigno belluino raro. Provoca, divertito e soddisfatto, scatenando un parapiglia tra le due compagini nella quale i suoi giocatori e il suo staff lo proteggono, circondandolo e innalzandolo poi come fosse una divinità vivente. Una fotografia, quella del Team Melli che porta in trionfo Queiroz, iconica, che entra nell’immaginario collettivo persiano come forma d’arte moderna, quantomeno per le appassionate e gli appassionati del gioco, e come simbolo del legame tra l’allenatore e la squadra. Racchiuso anche in queste parole prima del Mondiale 2014:
«Abbiamo lottato per viaggiare, per avere campi di allenamento in giro per il mondo, per trovare avversari disposti a giocare amichevoli. Quale altra Nazionale sarebbe andata al mondiale senza aver giocato un numero sufficiente di amichevoli, o allenandosi spesso su campi di sessanta metri?Partecipiamo a questo Mondiale sotto il patrocinio della FIFA, la quale ha come valore fondante quello di lasciare da parte ogni questione politica. Ciò tuttavia non sta avvenendo, e trovo che sia molto scorretto nei confronti di 23 ragazzi che vogliono solo giocare a calcio, e che hanno dimostrato di meritare lo stesso trattamento riservato agli altri giocatori del mondo. Penso sia mio dovere dire di fronte a tutti voi che è necessario lasciar giocare a calcio i miei ragazzi, che non sono ostili a nessuno e non hanno problemi con nessuno. Questi giocatori meritano un sorriso da parte del resto del mondo».
Queiroz, proprio in terra persiana, svela l’altra parte di sé: non solo il sagace uomo di calcio, fine conoscitore del gioco nella sua accezione più tecnica, tattica e pragmatica, ma anche l’uomo di mondo, quasi psicologo, capace di comprendere il pensiero dei suoi giocatori e modellarlo affinché possa essere utile al collettivo. Non più sergente di ferro dal carattere irascibile ma padre, pronto a difendere fino a perdere la voce i propri figli. L’Iran con Queiroz scala la classifica FIFA, divenendo la prima squadra asiatica. Al mondiale brasiliano ferma la Nigeria sullo 0-0 con una magistrale prova difensiva, cadendo solo a tempo scaduto contro l’Argentina per un capolavoro di Messi (la prestazione del reparto arretrato persiano è pero magistrale, con le due linee di difesa e centrocampo strette sulla propria trequarti a tappare ogni incursione dell’Albiceleste); infine, il Team Melli crolla con la talentuosa Bosnia.
Nel 2018, però, Queiroz va vicino al miracolo sportivo.
All’esordio l’Iran vince allo scadere contro il ben più talentuoso Marocco, guidato da Hervè Renard, altro allenatore eccentrico e molto in voga in questo mondiale 2022 dopo aver sconfitto l’Argentina. Viene quindi sconfitto dalla Spagna per 1-0 dopo una brillante prestazione e pareggia con il Portogallo per 1-1, al gol di Quaresma risponde il rigore magistrale di Ansarifard al 93’, che toglie le ragnatele all’incrocio dei pali. Alla squadra persiana, però, serve una vittoria e l’occasione capita due minuti più tardi sul piede più educato di tutto il Team Melli: quello di Mehdi Taremi.
Un lancio lungo, con preghiera annessa, viene spizzicato da un giocatore persiano; la palla finisce nella disponibilità della stella Sardar Azmoun, che tira. Il pallone viene deviato da un difensore lusitano e finisce tra i piedi di Taremi che, davanti a Rui Patricio, con la porta spalancata, sciupa l’opportunità calciando sull’esterno della rete: è la beffa, proprio contro il suo Portogallo. Corsi e ricorsi storici, ancora. Queiroz si ferma ad un passo dall’impresa di condurre l’Iran agli ottavi di finale della massima competizione mondiale, per la prima volta nella sua storia, ma tutto il mondo – e anche la stampa specializzata – rende onore a questa squadra e al suo allenatore.
Infine Queiroz si dimette nel 2019, lo aveva fatto già quattro volte dal 2011 (dimissioni poi ritirate per le preghiere dei calciatori) sempre per “incomprensioni” con la federazione. Dopo fugaci esperienze con Colombia ed Egitto (con finale di Coppa d’Africa persa ai rigori), l’uomo dagli occhi di ghiaccio torna ad occupare la panchina dell’Iran, avvertendo che la pagina più bella della loro storia sarebbe stata ancora da scrivere.
MONDIALE 2022, QATAR
Si arriva al Mondiale 2022, anch’esso intriso di polemiche. Polemiche che però, in questo caso, più che il Qatar riguardano la situazione interna iraniana, e le tumultuose proteste dopo la morte di Mahsa Amini, 22 anni, fermata dalla “polizia morale” di Khamenei per non aver indossato correttamente il velo. Sul Paese soffiano venti di rivolta, spinti soprattutto dalle fasce giovanili della popolazione: non si chiedono più riforme politiche che assicurino elezioni giuste, come nella rivoluzione borghese del 2009, né si avanzano richieste economiche come nella rivolta del 2019 – seppure la situazione economica anche oggi concorra al malcontento. Questa volta si chiede invece, ed è la prima volta con numeri simili, la “fine del regime”.
Tutto ciò coinvolge inevitabilmente la Nazionale, specie se impegnata nella competizione mondiale.
Tra l’incudine dei “ribelli” e il martello del governo, con i giocatori tacciati di essere “traditori” sia da chi anima le proteste – che ha soprannominato la Nazionale Team Mullah anziché Team Melli, accusandola di essere uno strumento del regime, di non aver preso esplicitamente le parti della rivolta e di aver fatto visita al presidente Raisi prima di partire per il Qatar – sia dal maggiore giornale conservatore del Paese, che è ricorso alla stessa etichetta in prima pagina dopo la disfatta con l’Inghilterra: “traditori”. Una situazione a dir poco complessa per i giocatori, che in diversi casi (Azmoun su tutti) hanno espresso la propria solidarietà alle proteste, rischiando in prima persona.
Inevitabili in conferenza stampa le domande di carattere politico a Queiroz, il quale non ha esitato a difendere non solo la sua nazionale, ma anche l’antica cultura iraniana, senza mai citare, però, il governo dell’Iran – probabilmente per tutelarsi e tutelare i suoi uomini, visto anche l’arresto (e poi il rilascio) per “propaganda” dell’ex terzino del Team Melli Vouria Ghafouri: «Perché certe domande non le fai anche ad altri? Perché non chiedi agli inglesi cosa ne pensano dell’Irlanda del Nord? Perché non vai dagli Stati Uniti d’America e chiedi della ritirata delle loro truppe dall’Afghanistan e delle donne di là che stanno sole?».
Queiroz, comandante paterno di una nave nella tempesta, fronteggia le onde più virulente con grande caparbietà, mettendoci sempre la faccia, come in ogni scelta della sua vita. È impassibile anche quando, all’esordio con l’Inghilterra, l’undici titolare non canta l’inno persiano per protesta contro il governo e i loro stessi tifosi li fischiano senza sosta.
La partita finisce 6-2, l’uomo dagli occhi di ghiaccio subisce la confitta pesante senza remore né scuse. E prepara il suo capolavoro. Si, perché Galles-Iran è l’opera più pregiata di Carlos Queiroz: per la prima volta da quanto è CT del Team Melli l’Iran domina in lungo e largo, soprattutto nel secondo tempo, una partita del mondiale. Le maggiori capacità tecniche della squadra anglo-sassone vengono annichilite da una prestazione coriacea e disciplinata: non solo, non più, difesa ad oltranza e ripartenze veloci ma prestazione solida, con un equilibrio perfetto, interessanti trame di gioco, tanta corsa e attenzione tattica. Con il marchio di fabbrica dell’allenatore, lo spirito al sacrificio.
Pali, traverse, miracoli di Hennessy (poi espulso all’84), fino all’assedio finale alla porta del Galles e il chirurgico tiro di Cheshmi al 98’ (i cui gol in carriera si contano sulle dita di una mano). Chiude la pratica il delizioso pallonetto di Rezaeian, in un’apoteosi e in una commozione collettiva. Epica, etica, etnica, pathos. «Il calcio è un gioco che vive di momenti, non può vivere in base a sconfitte e vittorie. A volte perdi la dignità, l’onore, ma ovviamente dopo la prima partita (Inghilterra, ndr)il nostro orgoglio sanguinava. Questa è stata un’opportunità per rialzarci e abbiamo messo una benda sulla precedente emorragia. Abbiamo giocato in modo brillante e meritavamo di vincere», dichiara Queiroz dopo la vittoria.
Così, questa sera, Carlos Queiroz potrebbe regalare all’Iran il passaggio agli ottavi contro i nemici di sempre: gli USA, che già hanno scaldato la sfida rimuovendo, su Twitter, il simbolo della Repubblica Islamica dalla bandiera dell’Iran, in sostegno alle proteste. Una sfida che ha un sapore particolare, agrodolce, nella consapevolezza che chi vincerà andrà in paradiso, chi perderà sprofonderà all’inferno. E una partita infiammata anche dal botta e risposta tra (ex) tecnici, Queiroz e Klinsmann, con quest’ultimo che aveva criticato il Team Melli e lo stesso suo allenatore per il duro stile di gioco e per “essersi lavorati” la terna arbitrale:
«Questa è la loro cultura e il loro modo di fare, e per questo Queiroz è perfetto per la nazionale iraniana».
Ovviamente Queiroz non se l’è fatto ripetere due volte, rispondendo all’ex CT statunitense: «Caro Jurgen (chiamato per nome come Klinsmann lo aveva chiamato Carlos) pur non conoscendomi, metti in discussione il mio carattere con un tipico giudizio prevenuto di superiorità. Anche dopo queste tue parole, vorremmo invitarti da ospite al nostro National Team Camp per socializzare con i giocatori dell’Iran e imparare da loro sul Paese, il popolo dell’Iran, i poeti e l’arte, l’algebra, tutta la millenaria cultura persiana. E per ascoltare dai nostri giocatori quanto amano e rispettano il calcio. Ti promettiamo che non daremo alcun giudizio sulla tua cultura, radici e background e che sarai sempre il benvenuto nella nostra Famiglia. Allo stesso tempo, vogliamo seguire con la massima attenzione quale sarà la decisione della FIFA in merito alla tua posizione come membro del gruppo dello studio tecnico di Qatar 2022. Perché, ovviamente, ci aspettiamo che tu ti dimetta prima di far visita al nostro campo».
Uno scontro di stili e uno scontro di mondi. Ma a prescindere da come finirà, siamo certi che l’allenatore dagli occhi glaciali guarderà lo svolgimento degli eventi con la solita raffinatezza, nascondendo l’indomabile spirito guerriero che cova dentro sé. Sicuro, tranquillo, orgoglioso. Come solo un uomo di calcio, e di mondo, può fare.