Calcio
02 Novembre 2018

Antonio Cassano

Il ragazzo che non voleva crescere.

In un sabato sera al San Nicola di Bari, a pochi giorni dal Natale 1999, il calcio italiano assiste alla nascita del suo ultimo talento del Novecento. Per la partita contro l’Inter, un decano della panchina come Eugenio Fascetti schiera tra gli attaccanti i giovanissimi Hugo Enyinnaya e Antonio Cassano, destinati a diventare, rispettivamente, meteora e amor perduto. Un gol a testa, nel 2-1 che affonda i nerazzurri di Marcello Lippi, ma la rete destinata a stamparsi nella memoria dei tifosi baresi, e non solo, arriva a due minuti dal termine, quando il ragazzino con il numero 18 si beve Blanc e Panucci, per realizzare un gol da autentico fuoriclasse. Un gol alla Baggio, il quale è da poco entrato in campo per i nerazzurri, per un cambio di consegne che non avverrà mai.

 

Diciassette anni prima, Antonio premeva per venire al mondo, nella notte dell’11 luglio 1982. L’assenza di medici negli ospedali, perché impegnati a seguire gli azzurri nell’atto finale del Mundial di Spagna, costringeva la madre a prolungare l’attesa del figlio fino alle prime ore del nuovo giorno. Solo pochi anni ancora per vedergli fare quello che vuole con un pallone tra i piedi, con una sola scuola a far crescere il suo talento fenomenale: la strada. Quando si gioca una partitella al castello di Bari, la gente accorre per vederlo giocare e il passaparola si sparge al di là dei margini della città vecchia.

 

Cassano, al Bari, educato da Almeyda alle buone maniere (foto Grazia Neri/ALLSPORT)

 

Oltre ai piedi fatati, allenatori e compagni di gioco dovranno avere a che fare con un carattere per niente facile. E allora ecco scarpe con punte tagliate negli spogliatoi e scherzi vari ad opera dell’irriverente Antonio, che fosse per lui anche la formazione da mandare in campo sarebbe compito suo. Un portento così però, va accettato nella sua totalità, lo sa bene Tonino Rana, il presidente della Pro Inter che mette addosso a Cassano la sua prima divisa, dopo essere rimasto incantato alla visione del Pibe di Bari.

“Spiace ammetterlo, ma la presunzione di Peter era una delle sue doti più affascinanti. Per dirla tutta, non esisteva un bambino più presuntuoso di Peter”. (James Matthew Barrie, Peter Pan)

Il seguente ingresso nelle giovanili dei galletti gli sarebbe valso la consegna immediata della maglia numero dieci, con tanto di fascia di capitano, per arrivare a soli 16 anni ad allenarsi con la prima squadra, guidata da Eugenio Fascetti. Il tecnico di Viareggio, consigliato dal suo vice Catalano, non ci pensa due volte ad arruolare il ragazzino di Bari Vecchia tra i suoi e l’11 dicembre 1999 lo butta nella mischia, nel derby contro il Lecce. La settimana successiva c’è la deflagrazione e lo spartiacque tra un prima e un dopo, in cui tutti chiederanno la Luna a Fantantonio, responsabile di essersi presentato sul palcoscenico attirando tutte le luci su di sé, oscurando tutto il resto, come fanno i fuoriclasse appena partoriti, e pronti a segnare un’intera generazione. Nel post-partita di Bari-Inter, Cassano dichiara, ai microfoni della tv di stato, che rimarrà lo stesso. Una promessa, di cui difficilmente lo si potrà accusare di non aver tenuto fede.

 

Contro Ferrara (foto Grazia Neri/ALLSPORT)

 

Dopo quel gol, tutti gli sono amici, diversamente dall’infanzia, in cui la sua priorità, e quella della madre, era combattere contro la fame, nella zona più povera della città. Con gli occhi addosso dei grandi club è solo questione di tempo perché Antonio lasci La Bari, e papà Fascetti può tenerselo stretto solo per un’altra stagione, prima dell’inevitabile separazione che porterà il ragazzo alla celebrità e l’allenatore agli ultimi anni di carriera prima del pensionamento. Il vecchio Eugenio, detto Neno, specialista in promozioni e imprese disperate, come la salvezza della Lazio dalla serie C, nel 1987, con 9 punti di penalizzazione. Una figura paterna, ma non autoritaria, che forse, nel corso della carriera, avrebbe potuto aiutare Antonio a crescere, a diventare uomo.

 

L’approdo in giallorosso, nel 2001, è un apprendistato alla corte di Fabio Capello, in quella straordinaria rosa, fresca Campione d’Italia. Antonio, in allenamento, ne ha per tutti, come ai tempi della Pro Inter, solo che stavolta i bersagli della sua tracotanza sono il “vecchio” Batistuta o lo “scarso” Damiano Tommasi, che gioca titolare in nazionale. Capello sa che con uno così bisogna usare bastone e carota, ne ha visti tanti, prima o poi crescerà anche Antonio. Il soprannome Peter Pan, affibbiatogli dallo speaker dell’Olimpico Carlo Zampa, è pensato per un’età che precede la maturità, per essere temporaneo. Don Fabio conia invece il neologismo cassanata, che farà l’ingresso nell’enciclopedia Treccani, per indicare un “gesto, comportamento, trovata, tipici del calciatore Antonio Cassano”.

 

Dopo il gol contro la Juventus (foto New Press/Getty Images)

 

Degli anni di Cassano alla Roma si può dire tutto e il contrario di tutto, ma l’inventario fatto di litigi con Capello e il ds Baldini, bandierine del corner rotte dopo una rete e insulti rivolti all’arbitro cornuto, è composto anche da classe e fantasia mostrati sul campo. Le istantanee più pregiate di Fantantonio in giallorosso sono un gol di testa, allo scadere, nel derby, che lo proietta a idolo della Curva Sud, ma soprattutto una prestazione superba nel 4-0 contro la Juve, del febbraio 2004. Peter Pan, con una doppietta e un rigore guadagnato, è il migliore in campo insieme a Totti, a coronare un’intesa straordinaria tra i due numeri dieci. Nella notte d’estasi collettiva all’Olimpico, le parole di Zampa fanno da megafono al pensiero di ogni romanista: “Tu, genio del calcio sei, Antonio”.

 

Tutto troppo bello per essere vero e durare a lungo. La stagione si chiude con l’addio di Capello e la fine di un ciclo per la Roma e il giocatore, il quale non si ripeterà ai livelli dell’annata 2003-2004, che gli vale una convocazione per l’europeo in Portogallo, dove con due reti è il migliore azzurro nella selezione eliminata ai gironi, dopo il biscotto scandinavo. L’ulteriore anno e mezzo giallorosso è segnato da una mancata maturità che secca allenatori, compagni e tifosi, ai quali risultano ormai indigeste le cassanate prima tollerate.

 

Dopo il gol al Bari, con la Samp, nel 2010 (foto Giuseppe Bellini/Getty Images)

 

Nel gennaio 2006 c’è la chiamata della vita, uno spartiacque come l’esordio di Bari, per consacrarsi campione vero con la maglia del Real Madrid. Antonio, dopo aver sfoggiato un look coatto di fronte all’istituzione blanca Emilio Butragueño, nella presentazione ufficiale, bagna il debutto con un gol, ma per il resto verrà ricordato come El Gordito per il sovrappeso, per l’esclusione dalla rosa e per l’imitazione di Capello in un prepartita. Da genio del calcio a macchietta, in un’esperienza madridista che consacra sì Cassano, ma ad amor perduto. Toccato il fondo, Fantantonio si mette in discussione, per la prima volta, e riparte da zero. A Genova, sponda blucerchiata, è coccolato da un intero ambiente, che gli permette di far coesistere vizi e virtù, a partire dal presidente Duccio Garrone e da mister Walter Mazzarri, che fissa gli allenamenti solo nel pomeriggio, per non turbare il sonno placido del suo pupillo prima di mezzodì. Così Peter Pan torna a volare, riscoprendosi protagonista e facendo innamorare la Gradinata Sud. Il nuovo Antonio convince anche il ct Donadoni, che lo riporta in azzurro e agli europei, dove la nazionale si fermerà ai quarti, contro una Spagna al principio del suo dominio sul continente e sul mondo.

 

Nella stagione successiva, con l’arrivo di Pazzini, Cassano trova il partner d’attacco ideale, e a Marassi si rivivono le emozioni provate con i gemelli del gol Vialli e Mancini, due decenni prima. La coppia raggiunge il suo apice con Del Neri in panchina e il fantasista regala perle straordinarie, come una rete da oltre 30 metri contro la Juventus, nel marzo 2010. A fine campionato la Samp può festeggiare un insperato quarto posto, ma anche stavolta è una favola troppo bella per durare, perché a ottobre una lite con Garrone rovinerà tutto. Cassano compie il più grande errore della carriera, nei confronti di una figura paterna, come lo era stato Fascetti, che gli aveva sempre riservato carezze.

 

 

A colloquio con David Beckham (foto Denis Doyle/Getty Images)

 

Via da Genova vuol dire fine del ruolo di attore protagonista e dell’amore di una tifoseria che gli avrebbe perdonato tutto. Al Milan, Antonio vince uno scudetto da comprimario e trova un’intesa niente male con Ibrahimovic, ma un’ischemia lo terrà lontano dal campo per cinque mesi, interrompendo l’affinità tra i due. Il rientro ad aprile 2012, gli consente comunque di giocare un altro europeo, in cui l’Italia di Cassano e Balotelli trova ancora la Spagna, al suo apogeo, a sbarrarle la strada verso la vittoria finale. Il volo si sta per concludere e c’è tempo per una parentesi nella Milano nerazzurra, per indossare ancora una volta i colori dell’infanzia barese. Poi l’ultimo acuto nel Parma, trascinato al sesto posto, gli regalerà la sua unica partecipazione a un mondiale. Antonio però, a differenza del torneo continentale, si ritroverà, insieme a Mario, da eroe a capro espiatorio del fallimento azzurro in terra brasiliana. Una sentenza esagerata, che però conferma quanto visto nei precedenti capitoli: Cassano ci ha mostrato troppo poco del suo inestimabile talento.

 

Il resto è un’appendice di carriera forzata, in cui il fisico non consente più a Peter Pan nemmeno di divertirsi, e divertire, con un pallone tra i piedi, come ha saputo fare negli anni della giovinezza. Per chi lo ha visto nascere, in quella notte di dicembre, fa male ricordarlo nei tentativi di allenarsi con Verona ed Entella. In un calcio in cui i numeri dieci sembrano ormai estinti, e in un’epoca in cui la fantasia di strade e cortili ha lasciato posto all’efficienza dei campi sintetici, non puntateci il dito contro se, ogni tanto, sentiremo la mancanza di un amor perduto, nato tra i vicoli di Bari Vecchia.


 

Illustrazione a cura di Tacchettee

 

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