I cattivi in un campo di calcio li riconosci subito. Hanno il petto gonfio, lo sguardo fiero e i tacchetti quasi sempre di ferro. Sono ricoperti da tatuaggi in numeri romani e scritte in latino di cui ignorano totalmente il significato. Dominano il campo, così come lo spogliatoio. Se prendono un colpo, l’azione dopo lo restituiscono e se scoppia una rissa vi si gettano con veemenza, magari senza maglia.
Sono eroi che ricercano assiduamente occasioni per dimostrare il proprio valore. E se queste mancano, le creano. Sono intrappolati in quella che Jonathan Gottschall definisce la danza della scimmia, una perversione ossessiva di competizione e dominio che scatena da sempre i conflitti tra gli uomini.
“Gli esseri umani, in particolar modo gli uomini, sono maestri in ciò che io chiamo la danza della scimmia: un’infinita varietà di competizioni ritualizzate e vincolate da regole precise. […] Tutte situazioni che spesso appaiono ridicole e a volte finiscono in tragedia. Ma svolgono una funzione vitale: aiutano gli uomini a elaborare i conflitti e a fissare delle gerarchie.” (Jonathan Gottschall)
I cattivi considerano la guerra una dimensione imprescindibile che li definisce e li esalta. Parliamo di Sergio Ramos, Diego Costa, Vidal, Roy Keane, Stam, Montero: calciatori-guerrieri che, prima di ogni altra cosa, lottano come Achille per conservare il proprio onore.
E noi li amiamo. Forse perché ci piace sperare che la loro incapacità di accettare la sconfitta sia una manifestazione di attaccamento ai nostri colori, una forma di quel senso di appartenenza che nel calcio di oggi è praticamente un’utopia. Forse perché sono gli unici totem che i tempi moderni ci consentono di adorare, l’ultimo segno di simbiosi tra campo e spalti.
I cattivi guidano i compagni e li difendono in ogni occasione perché, parafrasando Gilbert Keith Chesterton, non odiano ciò che hanno di fronte, ma amano ciò che è dietro di loro. E così ci ricordano in qualche modo quanto sia ancora bello appartenere a qualcosa e lottare fino alla morte per difenderlo.
Ma probabilmente non è solo questo. Forse li adoriamo anche perché tirano fuori il meglio e il peggio di noi. D’altra parte, come dice Mark Twain, siamo “un miscuglio assortito di antenati scomparsi”, magari macchiati di sangue. I cattivi del pallone riescono a risvegliare quell’atavica dimensione brutale che in fondo ci appartiene. Le scivolate di Materazzi e le gomitate di Montero ci piacciono perché ci consentono di liberarci dalle convenzioni sociali quotidiane, aprendo così le porte al nostro lato più oscuro.
È un meccanismo inconscio e automatico: ci immedesimiamo in loro e per un momento ci diamo inconsapevolmente il permesso di abbandonarci alla dimensione animalesca che è in noi dalle origini, e che da persone adulte siamo soliti inibire. Quella parte più brutale, ancestrale e primitiva che Pavese chiamava selvaggio.
“Non capisci che l’uomo, ogni uomo, nasce in quella palude di sangue? E che il sacro e il divino accompagnano anche voi, dentro il letto, sul campo, davanti alla fiamma? Ogni gesto che fate ripete un modello divino. Giorno e notte, non avete un istante, nemmeno il più futile, che non sgorghi dal silenzio delle origini.” (Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò)
E da ultimo, forse li adoriamo perché sono meravigliosamente anacronistici. In un calcio fatto di Var e televisioni, i cattivi sono degli strenui difensori di ciò che qualche decennio fa era considerato usuale, quando – come ci dice Jorge Valdano – Daniel Passarella poteva dichiarare con nonchalance di picchiare per puro piacere.
Provare un inconfessabile godimento quando il nostro cattivo entra in scivolata e morde con i tacchetti le caviglie di chi lo ha irriso con un tunnel non significa giustificare e apprezzare la parte peggiore del calcio, ma constatarne una sua componente. Perché – come dice Gottschall – “tutti noi abbiamo dentro un animale selvaggio che nella normalità del quotidiano teniamo chiuso in un recinto”. I cattivi sono destinati a liberarlo. E noi, persone civili che credono nel fair play, a condannarli. Non possiamo assicurare, però, che alla prossima stecca da dietro del nostro cattivo non ci scappi un sorriso.
Sempre più Paesi costruiscono rappresentative impostate su giocatori che non sono nati (nè cresciuti) nei confini nazionali. Convenienza o processo "fisiologico"?