Se la dimensione sportiva segna la vita del guerrigliero più famoso.
Comprensibilmente, i ricordi del più celebre rivoluzionario del secolo scorso non si soffermano sulla sua dimensione sportiva. Eppure per l’argentino più rappresentativo della storia, con buona pace anche di Maradona – primus inter pares tra i suoi seguaci – lo sport non è certo di scarsa rilevanza nella sua formazione.
Ernesto Guevara de La Serna, prima di imbracciare il Thompson 0.45 e abbracciare la guerriglia nelle foreste latine, ancor prima di diventare El Che, è stato Fuser:uno sportivo appassionato e promettente. A dire il vero, l’esperienza sportiva di Ernesto è stata variegata e ampia. L’amore più grande della sua gioventù è rappresentato dal cuoio ovale. Nato in una famiglia santafesina benestante, l’avvicinamento al rugby, sport d’elezione dell’élite rioplatense, è stata un’attrazione naturale.
Le congenite problematiche di natura polmonare che si manifestano fin da subito – costringendolo sin dalla prima infanzia a convivere con una seria forma di bronchite asmatica – accompagneranno le scorribande del Che tanto sui campi da gioco quanto nelle fitte foreste della giungla. Eppure la famiglia Guevara per cercare di aumentare le capacità polmonari di Ernesto, convinta che fosse salutare per i suoi problemi, acconsentì affinché egli si unisse alla squadra scolastica dell’Estudiantes di Cordoba e corresse a perdifiato oltre le linee di meta avversarie.
Come succederà per molti degli sport praticati dal futuro medico rosarino, era maledettamente bravo. Talmente impetuosa la sua corsa che dallo sport di Sua Maestà trasse il primo soprannome della sua vita: per i compagni di squadra divenne presto El furibondo Serna, contratto semplicemente in Fuser.
In seguito a Buenos Aires entrò a far parte del San Isidro Club, il SIC, squadra che annoverava il padre di Ernesto tra i fondatori e in cui lo zio ricopriva la carica di presidente. Proprio in questi anni, con l’aggravarsi dell’asma di Ernesto, il padre su consiglio dei medici ordinò allo zio di escludere dalla rosa il futuro Che.
Ma è difficile arginare un ribelle, così Ernesto si unì agli avversari storici del San Isidro, l’Atalaya, dove il suo soprannome mutò in El Chancho, il Maiale. Il fatto è che era sempre l’ultimo a mollare e spesso usciva dal campo completamente ricoperto di fango: l’associazione era sin troppo immediata.
Con la potenza del Che a servizio dell’Atalaya sarebbero stati dolori per il SIC. Proprio quell’anno la finale del torneo aveva destinato l’ultimo atto allo scontro tra le due formazioni rivali. La spuntò l’Atalaya, con la meta decisiva da parte di chi aveva l’impresa nel proprio destino.
Come si dice in America Latina, però: el fútbol nos aúna (il calcio ci unisce). Da buon argentino anche Guevara era un appassionato dello sport nazionale albiceleste, quello in cui il pallone fa pace con la geometria e diventa sferico. A lungo si è parlato del Che tifoso, anche se le fonti sono decisamente meno generose della leggenda. Ovviamente da rosarino, in una città divisa tra l’amore di due grandi squadre, anche Guevara non poteva sottrarsi al rito dell’elezione.
Sarebbe stato una canalla Ernesto, come raccontano le testimonianze della madre, del fratello e i ricordi di partite del Central seguite nelle trasferte bonaerensi durante gli anni di università. Comprensibilmente, avere dalla propria parte una leggenda è motivo più che sufficiente per gonfiare il petto d’orgoglio: così, non di rado, a Rosario capita di vedere murales con l’effige del Che virata in giallo e blu.
Ma la verità è che Ernesto Guevara è sempre stato uomo d’azione, e la semplice fruizione di uno spettacolo non avrebbe mai saziato un animo famelico e inquieto come il suo. E allora sono proprio quelli di calcio giocato i ricordi più significativi del Che futbolista.
Era portiere. I più cinici se lo spiegano ricordando che, all’età non più adolescenziale alla quale il Che si avvicinò al fútbol, l’asma aveva ormai pregiudicato le sue capacità atletiche e dunque solo tra i pali avrebbe potuto giocare qualche partita. I più romantici ci vedono la naturale propensione alla difesa del bene più importante in gioco, che fosse la porta o la libertà. Certo è che il portiere è ruolo di artisti, matti e sognatori: forse nessun’altra posizione, in campo, sarebbe stata più indicata per Ernesto.
Nel 1951 poi, in sella alla mitica Poderosa II e in compagnia del sodale Alberto Granado, risaliva le Ande comprendendo profondamente il dramma continentale del Tropico del Capricorno: ciò avrebbe cambiato completamente la sua visione del mondo, e da qui la sua missione sulla terra.
In Chile, dove la Norton 500 M18 esalò i suoi ultimi borbottii vicino a Salitrera de Toco, vennero ‘assoldati’ da una squadra di operai edili come rinforzi per un torneo locale. Il portiere Ernesto e l’attaccante Alberto non riuscirono a condurre la squadra alla vittoria ma, grazie alle loro prestazioni, ottennero vitto, alloggio e soprattutto un passaggio fino a Iquique, dove proseguirono il viaggio sudamericano.
Poco dopo in Perù scoprirono la forza del fútbol come elemento chiave di empatia e coesione, abile a schiudere la diffidenza locale nei confronti di quei due viaggiatori improvvisati. Nei leprosarios di Lima e San Pablo, il gioco e il loro lavoro nelle comunità strapparono il velo alle confessioni più intime di quei popoli, in un vortice di consapevolezza che era ormai un biglietto di sola andata verso il futuro.
Anche sconfinati in Colombia, a Leticia, si unirono a partite di un campionato locale, distinguendosi come giocatori sopraffini dotati di tecnica superiore agli altri. E se Ernesto arrivò a pagare un rigore, furono le giocate di Alberto a lasciare impresso il ricordo negli avversari.
«Alberto era ispirato; con la sua figura in qualche modo simile a Pedernera e i suoi passaggi millimetrici. Ha guadagnato il soprannome di Pedernerita, appunto, e io ho parato un rigore che rimarrà nella storia di Leticia)».
Sono le parole di Ernesto, confluite nelle note di quel viaggio memorabile e immortalate in “Latinoamericana”, talvolta impropriamente ricordato come ‘I diari della motocicletta’.
E se Alfonso Pedernera era stato uno dei massimi esponenti del grande River degli anni ‘40, conosciuto come La Maquina, non potevano immaginare Ernesto e Alberto che di lì a poco avrebbero incontrato il più grande giocatore del pianeta.
Aveva proprio sostituito Pedernera al River Plate, e lo stesso Maestro lo aveva convinto qualche anno dopo a raggiungerlo ai Millonarios di Bogotà: una tappa segnata da una pioggia di gol, prima di conquistare l’Europa con la casacca meregue del Real Madrid. Don Alfredo Di Stefano ha più volte ricordato quell’incontro con Ernesto Guevara, che fu certamente di maggiore impatto per il medico di Rosario che per la stella del calcio argentino:
«Davvero non immaginavo di trovarmi davanti a un mito nascente».
E proprio lo sport, tra il 1954 e il 1955, portò Ernesto Guevara in Messico come fotografo e redattore sportivo per la Agencia Latina. Durante Los Juegos Panamericano de México ebbe l’occasione di incontrare la persona che avrebbe cambiato la sua vita: l’esule marxista Fidel Castro.
Negli anni di guerriglia, oltre alla mai sopita e naturale propensione per il gioco degli scacchi, imparò i segreti dell’alpinismo. Con l’instaurazione del governo rivoluzionario a Cuba occupò la carica di “Ministro de Industria”, e come ufficiale governativo non poteva certo ignorare lo sport nazionale dell’isola caraibica: il beisbol, quello sport di cui il Comandante Camilo Cienfuegos tanto gli aveva parlato durante la vita di campo nella Sierra Maestra.
Inoltre si racconta che scambiasse lunghi rapporti con Felipe Guerras Matos, direttore de la “Dirección Nacional de Deportes”, spingendolo costantemente a incentivare la diffusione del fútbol nell’isola. Insieme a Fidel ogni occasione sarebbe stata buona per sfidarsi, a qualsiasi sport, pur di mettere in gioco lo spirito combattivo che caratterizzava entrambi.
Dell’ultima sfortunata spedizione in Bolivia del Che e della sua tragica fine a La Higuiera rimangono solo pochi frammenti ed eterni misteri di geopolitica. Da ragazzo però, quando l’asma era l’unico avversario in grado di fermarlo, aveva fatto una promessa:
“Sólo dejaré de practicar deportes cuando me muera”. (Smetterò di praticare sport solo quando morirò)
In effetti, tra le varie testimonianze emerse sugli ultimi mesi nella giungla boliviana, pare che prima della partenza El Che si fosse organizzato per bene: tra le scorte da campo bisognava trovare spazio per diverse scacchiere e qualche altraattrezzatura sportiva, da utilizzare nei momenti di stanca del conflitto. In fondo, una promessa è una promessa.
Ringraziamo Matteo Viotto per la realizzazione della copertina.