E ne stiamo avendo l'ennesima dimostrazione.
Lo avevamo scritto, più volte e in tempi non sospetti, che l’estrema competizione al vertice della Serie A non fosse un segnale di forza bensì di debolezza. Una lotta che in un campionato di buon livello sarebbe per l’Europa, e che invece selezionerà il prossimo Campione d’Italia fra tre squadre incomplete: tecnicamente, il Milan; caratterialmente, l’Inter; ancestralmente, il Napoli. Squadre che, se non ci fosse la regola per cui una alla fine deve spuntarla per forza, troverebbero il modo di perderlo, questo scudetto. Per di più, allenate da tre tecnici tanto bravi quanto disabituati a vincere – nessuno dei tre ha mai conquistato una Serie A, fattore che probabilmente si avverte, e il solo Spalletti ha conquistato un campionato nazionale (in Russia).
Motivi per cui, diciamocelo chiaramente e senza scaramanzie, se la Juventus avesse battuto l’Inter avrebbe probabilmente conquistato lo Scudetto. Per abitudine, mentalità, tradizione (recente).
Quella partita ha rappresentato il vero punto di svolta della stagione, con la Vecchia Signora che ha disputato la migliore gara stagionale (perdendo) e un’Inter che ha invece vinto di corto muso, episodi e fortuna. Le parole di Skriniar al termine dell’incontro sono allora emblematiche, da prendere, incidere e diffondere per far capire come funzioni il calcio ad alti livelli (e nella parte calda della stagione): «Ci voleva questa vittoria, ci dà una grandissima spinta per le prossime partite. Ora conta vincere, non giocare bene. Ora è tutto aperto».
Perché in questo ha ragione Allegri, che ci piaccia o meno: a marzo-aprile si vedono le squadre. Quando il pallone diventa più piccolo e più pesante, i punti hanno un valore diverso, le pressioni aumentano e – soprattutto laddove non c’è una superiorità tecnica incolmabile – il gioco non è più sufficiente. Lo ha dimostrato l’Inter: prima osannata, applaudita e incensata per lo stile di gioco fino a dicembre/gennaio, poi fisicamente e psicologicamente crollata, ora in ripresa non grazie al gioco ritrovato, bensì grazie ai valori della squadra, alla cattiveria, alla voglia di vincere e anche allo scudetto cucito sul petto (che qualcosina, a livello mentale, conta sempre).
Tutti fattori che rendono nuovamente i nerazzurri arbitri del proprio destino – banalmente, se le vincessero tutte sarebbero Campioni d’Italia. Anche qui, diciamolo pure: l’Inter questo campionato, ora come allora (tre mesi fa), poteva e può solo perderlo. Unicamente la sua anima pazza e autolesionista potrebbe intervenire a guastarne i piani iridati, e allontanare così il ventesimo scudetto: uno spettro che non fa ben sperare i tifosi, visti i precedenti e il DNA, ma che non modifica la sostanza di una squadra “strutturalmente” favorita.
Poi c’è il Milan, modellato, trasformato e moltiplicato da Pioli in un vero e proprio miracolo sportivo. Anch’esso però ha dovuto inevitabilmente fare i conti con la legge di gravità, che a certe altezze e in certi momenti si fa sentire. Non a caso i rossoneri, sotto il peso della pressione, hanno rinunciato al sacro gioco dei mesi scorsi per votarsi al santo protettore degli aspiranti campioni: il clean sheet, detto all’italiana la porta inviolata. Nelle ultime 5 di campionato sono 3 i gol fatti dal Milan, addirittura 0 quelli subiti, alla faccia del gioco propositivo, retorica adolescenziale che poi deve fare i conti con il mondo degli adulti – quello appunto di marzo, aprile e maggio.
Perché è vero che i campionati si vincono con le difese, ma davanti si deve pur segnare. I tre gol sono pochi, troppo pochi, ma anche qui riemergono limiti strutturali di una squadra che era stata fenomenale nel nasconderli: che l’attacco sia affidato a un 40enne a mezzo servizio (se va bene) come Ibrahimovic e ad un 35enne che prima del Milan era sul viale del tramonto come Giroud è un fatto, non un’interpretazione. Poi c’è Leao, certo, ma oltre a lui nessun giocatore decisivo in un coacervo di esterni e mezze punte spuntate come Diaz, Messias, Rebic etc.. Con l’aumentare della pressione, inesorabilmente, sono emerse le crepe: di abitudine, per una squadra ormai disabituata a vincere, e soprattutto tecniche.
Ciò non vuol dire che il Milan non possa farcela, anzi: intanto ha blindato la difesa, ma soprattutto ha una convinzione di ferro. Quella rossonera è un’unica volontà, fortissima, collettiva, che trascende le individualità e si esprime in un credo (e in un obiettivo) comune. Prima di mollare, siamo certi che il Milan dia fondo a tutte le sue risorse.
Certezza che invece non ha mai dato il Napoli, sempre un po’ escluso dal favore dei pronostici: forse per il carattere della città, per la mistica, per Maradona e tutto il resto. Di sicuro era un’impressione di fondo comune, e da tempo, a chi sapesse leggere tra le righe (della classifica). Spalletti, bravissimo allenatore di campo, ci ha provato a gestire i tempi e a dosare gli entusiasmi, ma il suo masochismo costitutivo si è saldato con il ventre di Napoli: con la Fiorentina non a caso la squadra ha iniziato benissimo nei primi minuti, salvo poi cadere nella tela e sotto i colpi di Vincenzo Italiano. Un Napoli che è sembrato un po’ quelle squadre serbe o sudamericane che partono fortissimo, spinte dal pubblico di casa e sulle ali dell’entusiasmo, e maturano il dramma sportivo appena la partita inizia ad incartarsi e a perdere il suo carattere istintivo, acquisendone invece uno strategico-razionale.
Insomma, torniamo al punto di partenza: se alla fine la Serie A non dovesse decretare un vincitore, nessuna di queste tre squadre se la aggiudicherebbe. È un gioco a non perdere, anzi a chi perde di meno, e lo si vede nei ritmi e nella qualità delle nostre “eccellenze”. Una scelta al meno peggio, soprattutto se confrontata con gli altri campionati europei. In fondo è sufficiente farsi una domanda: in quale altro Paese europeo, oltre che in Italia, questa sarebbe una lotta per il titolo nazionale? E quindi darsi una risposta, magari onesta.