Due parole con uno dei maestri della telecronaca (e non solo).
Il primo approccio con Pierluigi Pardo è un messaggio Whatsapp in cui con tono casellante e borghesotto – dando del Lei – gli richiedo se fosse ancora disponibile per l’intervista. Risultato: nessuna risposta. Pier è così, dopo neanche due minuti il livello di agio che la conversazione raggiunge ti fa credere che vi conoscete da anni. Rimani a chiederti come sia possibile mantenere questo grado di spontaneità nella plastica dell’intrattenimento tv e l’unica risposta razionale che puoi darti è che Pardo non sembra porre un filtro tra sé ed il pubblico: vulcanico, istrionico, goliardico, così prendere o lasciare. Un perenne equilibrio tra un completo di Lardini ed un costume da spiaggia, tra il mediterraneo di Ponza e una telecronaca dall’Inghilterra. Una secchiata di vernice colorata nel grigiore della televisione italiana, anche sportiva, che gli ha permesso di diventare una delle voci rappresentative di questa generazione di calciofili.
CC: Pier, ce lo chiedevamo da un po’ e un tuo recente post su Facebook ci ha riacceso la curiosità: quanto forte è stato l’impulso, o il coraggio, di abbandonare la strada borghese del tuo precedente lavoro in una multinazionale come Procter&Gamble per seguire la tua passione?
In realtà non c’è stato nulla di eroico. Sono stato fortunato, ai tempi del mio ingresso in Stream lavoravo già in P&G come Assistant Brand Manager. Avevo uno stipendio da entry level, da pischello, ma era comunque un tempo indeterminato. Stream mi ha assunto tenendo conto di questo, non mi sono trovato di fronte una scelta impossibile o economicamente svantaggiosa. Insomma, non ho avuto la necessità di ricominciare da zero. Poi ovviamente conta la passione, io non ho pensato neanche mezzo minuto alla possibilità di non accettare, perfino il mio capo in Procter conoscendo la passione per il giornalismo era d’accordo. L’unico da convincere era mio padre, che per me pensava a una carriera da commercialista o comunque nell’ambito economico. A lui lasciare una multinazionale sembrava un azzardo. Per ora, fortunatamente, non lo è stato.
Dunque non è stata una scelta prettamente ideologica…
Assolutamente no, rimango affezionato al mondo del marketing, ho molti amici che lavorano in azienda e quando mi capita di fare presentazioni o cose simili ho la sensazione di un ritorno a casa. Il mio lavoro mi piaceva, onestamente a un certo punto avevo anche perso le speranze di diventare giornalista sportivo. Alcune cose le porto ancora con me, ad esempio nella fase di training ci insegnavano l’importanza del prioritysetting (fissazione delle priorità, ndr) che ti portano a selezionare le cose rilevanti in tempo reale, un elemento molto importante per me durante le telecronache, la conduzione di una puntata e più in generale in mille cose della vita.
Più volte hai palesato le tue origini non solo romane ma di un certo quartiere (c.so Trieste, ndr), quanto è importante il tuo retroterra culturale in questo senso? Avverti la sensazione, essendo un personaggio dalla risonanza nazionale e anche internazionale, che queste sfumature non siano sempre colte dal tuo pubblico? E più in generale di senti orgoglioso di essere romano?
Sono tanto romano quanto mille altre cose, poi da quando ho sposato Simona, che è milanese è finito tutto… (ride, ndr). Ho fatto l’Erasmus a Londra da ragazzo, mi sento molto europeo, adoro viaggiare anche se il mio ‘senso di pennica’ mi porterebbe a stare a Ponza tutta la vita, pure d’inverno. Ripeto, non mi sono mai tirato indietro davanti ad un viaggio, non ho una visione ‘raccordo-anulare’-centrica. È chiaro che città come Roma, o Napoli ad esempio, hanno un forte senso identitario. Ti senti parte di qualcosa di unico. Da un punto di vista calcistico mi sento fortunato a non essere mai stato etichettato né come laziale né come romanista, ho sempre potuto tirar fuori la mia romanità a piacimento perché la amo ed è parte di me senza che questo venisse scambiato per tifo calcistico. Ormai sono abituato a una vita divisa quasi a metà tra Milano e Roma e la cosa mi piace.
Pardo nel suo reame
Mi stai dicendo che così facendo hai aiutato a ‘sprovincializzare’ una certa immagine del giornalista sportivo romano?
Non so se il punto sia quello. A me in generale fa molto piacere se Roma, la mia città e i romani che sono la gran parte dei miei amici vengono amati e rispettati da tutti. Mi spiace tantissimo vedere Roma così in difficoltà negli ultimi anni. La differenza di organizzazione con Milano ultimamente è imbarazzante e questo mi fa male. Quanto alle polemiche dentro TikiTaka non sono così frequenti ma quando accadono lasciano il segno.
Questo è anche il bello, una conferma della forza del programma. Poi c’è un aspetto curioso, quasi psicanalitico. Quando qualcuno dichiara qualcosa di forte a Tikitaka, c’è sempre qualcuno che la imputa all’intero programma. Uno strano meccanismo. Se in un talk show politico Salvini o Renzi dice qualcosa, lo ha detto lui, non il conduttore. Nel calcio e in particolar modo nella nostra trasmissione il meccanismo di identificazione è molto più forte. Interessante, no?
A proposito di Tiki Taka: con questo programma hai fritto i cervelli degli autori TV, ex post sembra quasi un esperimento sociologico. Sei riuscito a commistionare il mondo dello spettacolo con quello della cultura, del cinema, della politica con la presenza continua di quelle che una volta erano definite ‘vallette’, e hai creato una corte intorno a tutto ciò, un format a suo modo geniale.
Non credo che dietro Tiki Taka ci sia chissà quale format, ovviamente mi fa piacere che venga percepito come un programma innovativo, contemporaneo, contaminato. La verità è che la mescolanza tra cose diverse io ce l’ho dentro la testa. Posso parlare di calcio a cena con Carlo Ancelotti, di politica con Enrico Mentana o di televisione con Carlo Freccero e scoprire che ognuno di loro ha passione e interesse anche per gli altri argomenti. Non mi piacciono i recinti. Sono felice di aver creato un programma ‘plurale’, non esclusivo, quasi senza rete. Tiki Taka potrebbe essere trasmesso sulla Rai, su La7 o La8 e per questa libertà e freschezza devo ringraziare la mia azienda e il mio direttore Claudio Brachino. E’ un programma di calcio “largo” che ovviamente deve tenere conto degli obiettivi di ascolto. Questo a volte toglie un po’ di spazio alle realtà più piccole e un po’ mi dispiace ma è fisiologico. Tiki è uno show del lunedì sera che deve fare ascolti e parlare perciò a un pubblico vasto. Da quindici anni nella TV generalista non c’era un programma di calcio parlato su una tv generalista capace di andare così bene e durare nel tempo (siamo pronti per la quinta stagione) tra l’altro con un rapporto costi-risultati molto efficiente.
In passato c’era il mitico Processo di Biscardi che fu una grande novità ma andava in onda venti o trent’anni quando le partite non andavano in onda a qualsiasi ora come oggi e quindi era più facile, c’era più fame di calcio parlato anche al lunedì sera.
Ti fa onore aver recuperato questi aspetti della ‘narrazione sportiva’ all’italiana, da nessun’altra parte del mondo si parla di calcio come da noi. In Francia o in Inghilterra sarebbe impensabile un Mughini…
È una narrazione non troppo lontana da quella delle radio spagnole, la trovi lì e un po’ in Portogallo. Mughini è stato il primo opinionista fisso a cui ho pensato quando ho cominciato. Il programma piace agli ospiti, in tanti fortunatamente vogliono venire perché sanno che si divertiranno. Ovviamente ci sono quelli in promozione che è più facile agganciare e la cosa bella è che entrano subito nel meccanismo e si divertono a giocare con noi.
Una volta stimolavo Rocco Papaleo sul suo film in uscita ma lui irremovibile voleva parlare solo di Totti. Tiki si porta avanti questo tipo di atmosfera, siamo una gang di gente abbastanza simpatica. Da noi sono passati personaggi leggendari. Presidenti del consiglio, star internazionali come Andrea Bocelli, campioni incredibili del nostro sport, attori, cantanti, intellettuali. Poi magari, soprattutto sul web, passa il concetto che sia soprattutto un programma pieno di belle donne, e ti dico la verità la cosa non mi dà affatto fastidio (anche perché amo le belle donne). In realtà penso che Tiki sia il punto di incontro tra un prodotto da pay-tv – che è il mondo da cui provengo, dove ogni dettaglio di stile e creatività fa la differenza – ed un talk-show popolare che ha bisogno di personaggi conosciuti e “caldi”.
Possiamo dire però che questa nuova declinazione del Bar Sport è un tuo personalissimo successo, dovuto al talento di saper gestire tante sensibilità diverse, penso a Controcampo dove ancora avveniva qualcosa di simile ma non a questi livelli.
Se vuoi, dillo pure! (ride,ndr). La verità è che “Controcampo” era bellissimo. In poco tempo mise in difficoltà lo stile paludato e istituzionale della “DS” con un prodotto certamente più irriverente e “caldo”. Quello però era essenzialmente un programma della domenica. Il nostro è più magazine, appuntamento fisso, al bar, il giorno dopo le partite.
Credi invece nella forza della gavetta, e ancor prima nella formazione di giornalista sportivo?
Credo poco, in realtà, ai corsi di giornalismo sportivo. Il problema principale è la quantità di aspiranti rispetto il numero di posti. È brutto dirlo in maniera così cruda ma a mio figlio ad oggi sconsiglierei di intraprendere questa strada. O almeno cercherei di capire quanto forte sia la sua passione per questo mestiere. Ai tanti ragazzi che mi dicono di voler fare questo lavoro chiedo sempre “quanta gavetta sei disposto a fare”? La tua passione è quella di fare le telecronache delle partite, come me, Caressa o Pizzul, o anche per la vita da redazione, fatta di pezzi e di “cucina”, lavoro oscuro e importantissimo? Quello è il vero tema. A chi non piacerebbe fare la telecronaca di una finale di Champions? Ma dietro a tutto questo c’è tanto lavoro meno glamour e spesso purtroppo per molti anche una condizione di sostanziale precariato.
Noi come gruppo editoriale siamo partiti da amatori ma è inevitabile doversi confrontare con la realtà…
La cosa bella di quest’epoca è che ci sono molte più opportunità: web radio locali, blog, siti. Mille declinazioni nuove di questo mestiere. Ma il punto rimane. Quanti ragazzi attraverso questi nuovi strumenti riusciranno a diventare giornalisti in grado di vivere bene del proprio lavoro?
Un siparietto ormai cult
È difficile per questa generazione pensare di abbandonare altri percorsi od opportunità, come facesti tu, per gettarsi completamente in questo mondo…
Volevo fare il telecronista sportivo da quando avevo cinque anni, facevo telecronache sempre, pure quando giocavo a Subbuteo o a pallone dentro casa. Ma l’accesso alla professione era un casino anche perché non conoscevo nessun giornalista che potesse consigliarmi o darmi una mano. Allora mi sono laureato in Economia, cercando un “piano B”. Il mio primo articolo lo scrissi per caso, mentre ero in Erasmus scoprii che a Tele+ cercavano stagisti. Inviai un VHS con la telecronaca di Inghilterra Scozia 2-0 di Euro ’96 (con un grandissimo Gascoigne) registrata nel laboratorio della University of Greenwich e fui preso. Oggi una dinamica simile forse è più difficile ma il punto rimane: nella vita bisogna sempre provarci.
Ti sei imposto come personaggio nazionalpopolare, anche sguazzando in un ambiente culturale ed intellettuale, ma allo stesso tempo non hai mai rinunciato a leggerezza, gioia di vivere, goliardia, avverti in tal senso una sorta di responsabilità?
Avverto unicamente la responsabilità di essere me stesso. Sono uno che non ama mai alimentare guerre e polemiche, in generale. Può essere un mio limite ma non ho bisogno del sangue in trasmissione perché la cosa funzioni. Le polemiche mi rompono i coglioni. Quando faccio una telecronaca l’unica cosa per cui tifo è che non ci siano errori arbitrali. Voglio parlare di calcio, non di arbitri. Da questo punto di vista sono un ragazzino, mi diverto col pallone, mi piace andare a cena fuori, a parlar di politica, letteratura, musica, mi piacciono tante cose, traggo stimoli da tanti e diversi aspetti. Non sono solo un calciofilo. Mi diverto molto ad incontrare le persone e fare i selfie, è un rapporto bello, di empatia. Poi però quando mi chiedono ‘le bombe di mercato, chi compra il Milan/l’Inter?’, mi piace meno. Non sono un divoratore di giornali e notizie sportive. Amo soprattutto le telecronache e da sempre mi piace intrattenere le persone.
Quindi il meta-sportivo per te vale tanto? Citi spesso riferimenti musicali di questa generazione ad esempio.
Adoro la musica. Mi piace l’indie ma anche i classici, da Springsteen ai Pink Floyd, i Placebo, la scena grunge americana, il Brit Pop (preferisco gli Oasis ai Blur, complice l’Erasmus a Londra nel 1996) e ovviamente i cantautori italiani (Guccini e De Gregori sono stati i miti della mia adolescenza). Tra poco esce il mio primo romanzo, non so come andrà però a scriverlo mi sono divertito un casino. Parlare solo di calcio dopo un po’ stufa, mentre potrei vedrei partite per ventiquattro ore di fila. Ho bisogno di nutrirmi di tanto altro. Mi piace il calcio giocato più di quello parlato e se proprio bisogna parlarne mi piacciono i punti di vista “laterali”, da Mentana a Cruciani, a Floris, Formigli e tutti gli altri nostri compagni di viaggio.
Ti ci vedi fuori dal calcio?
Non riesco a vedermi fuori dalle telecronache, questo sì. Già in passato ho fatto la scelta di non abbandonarle, perché sono la cosa che mi diverte di più. Le telecronache mi fanno star bene, sono la mia passione più vera, pura e infantile. In futuro uno show di interviste potrebbe piacermi però.
Sei stato al Foglio, dove è garantita la massima libertà di espressione, c’è Radio24, ti piace andare oltre e sentirti libero di poterlo fare?
A Radio 24 con Genta e Capuano ci divertiamo proprio tanto. Scrivere di calcio invece mi piace fino ad un certo punto. Non sento sempre questo bisogno. Non devo dire la mia ogni giorno. Ci sono vicende che vanno oltre, vedi Donnarumma o Totti e mi ispirano, ma sono eccezioni. Mi divertiva molto la rubrica “Jungleland” (ispirata alla mitica canzone del “Boss”) sul “Foglio”. Era nata cazzeggiando una sera a cena con Claudio Cerasa, una roba a schema libero che non so neanche perché ho smesso di fare. Forse faccio troppe cose. E in realtà ho molto sonno.
La nostra intervista a Giuseppe Abbagnale che, dopo aver scritto la storia sportiva italiana con i fratelli, è oggi alla guida della Federazione Italiana di Canottaggio.