Un tradimento consumato, una storia d'amore finita. Metafora di un calcio ostaggio della scienza.
Quando hai una relazione con qualcuno che ami davvero vivi nel costante terrore dell’abbandono. E il fatto di essere ricambiato non fa che peggiorare le cose, perché sei convinto che la felicità sia necessariamente a termine e che l’idillio possa cessare da un momento all’altro, quasi non lo meritassi. Non è infrequente sentirsi i destinatari del pensiero nietzschiano secondo cui il sentimento più penoso che ci sia è quello di essere presi per qualcosa di superiore a quel che si è. Ma tutta questa consapevolezza si rivela inadeguata quando poi il momento della rottura arriva per davvero. E infatti, benché me lo aspettassi da tempo, la decisione di lasciarmi presa dal calcio ha fatto emergere miseramente tutta la mia impreparazione.
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Soltanto dopo due settimane di smarrimento caratterizzato dalla dissipazione della dignità ho cominciato a realizzare e a comprendere la correttezza della scelta. Financo ad accettare il tradimento. In effetti il calcio era troppo affascinante per me, troppo appetibile. Ed era solo una questione di tempo: prima o poi avrebbe incontrato la scienza e se ne sarebbe perdutamente innamorato. Proprio quello che è successo. Lui, così irrisolto, indefinito, inafferrabile, a un certo punto ha ceduto al fascino della definizione, della spiegazione. Della sistemazione. Stanco di vivere una vita all’insegna delle contraddizioni ha preferito gettarsi tra le braccia dell’analisi. E per quanto possa sembrare strano, non riesco ad avercela con lui.
.Certo, ho enorme nostalgia di quei momenti di puro divertimento travestito da litigio, quando lui diceva una cosa e io un’altra, quando il responso del campo si prestava alle più disparate interpretazioni. In fondo, alla base del nostro amore c’era proprio la varietà delle letture: potevo avere indifferentemente torto o ragione, sbagliare pronostici, prendere delle cantonate assurde, cambiare idea di continuo su giocatori e allenatori, ma non correvo mai il rischio di essere giudicato. E il bello era che qualunque cosa accadesse il calcio non mi serbava rancore, e anzi era subito pronto, per non farmi sentire in colpa, a pareggiare la mia incoerenza e anche a superarla, se necessario. Ma oggi, alla luce di quello che è successo, posso dire che forse era proprio il punto di forza del nostro rapporto a incubare il germe della separazione: cercavo comprensione più di quanta ne ricambiassi. Il mio egoismo prevaricava sull’amore.
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Perché anche il calcio desiderava essere compreso, ne aveva tutto il diritto. Inoltre, assecondare le mie intemperanze lo affaticava, rallentando anche il suo personale percorso di crescita. Il vero problema era che non riuscivamo a completarci del tutto: eravamo troppo simili. Così, a poco a poco il calcio ha iniziato a provare attrazione per gli scienziati. E le menti più sottili, ingolosite dalla prospettiva di dare un’identità precisa a una creatura così innocente, non hanno tardato a ricambiare l’interesse. Mi duole ammetterlo, ma è nata una storia meravigliosa. È vero, ogni telecronaca o approfondimento tattico in cui mi imbattevo equivaleva a una coltellata, tanta era la mia inadeguatezza davanti a ragionamenti scientifici così sottili: quel senso di inclusione incondizionata che avvertivo prima della rottura aveva lasciato il posto a un sentimento di esclusione imbarazzante; ma è altrettanto vero che forse per la prima volta trovavo il calcio più sereno.
Sollevato dal compito di dover pensare agli altri, adesso finalmente aveva a fianco qualcuno in grado di risolvergli problemi esistenziali anziché creargliene di nuovi. Peraltro, nel tempo libero garantitogli dalla frequentazione con la scienza aveva avuto modo di riconsiderare sotto una nuova luce uno dei pochi punti in cui in passato c’eravamo trovati d’accordo, ovvero la condanna delle non esultanze dopo il gol. Con l’avvento della tecnologia Var anche l’immobilismo di giocatori come Mark Bresciano e Mario Balotelli adesso era visto non più come un’offesa all’essenza del gioco, bensì come un virtuoso esempio di lungimiranza rispetto al suo matrimonio con la scienza: questi calciatori avevano la unica colpa di aver colto in anticipo il cambiamento dei tempi proprio mentre il calcio era impantanato con l’esaudimento delle mie richieste ossessive. Invece adesso l’allineamento poteva dirsi completato. Eppure, nonostante fossi davvero felice per questa nuova e definitiva stagione della sua vita, la mia componente egoistica reclamava ancora spazio e mi imponeva di lanciarmi in una disperata opera di riconquista.
Non saper fare niente in un mondo che sa tutto
E non avere un soldo nemmeno per tornare
Volevo cambiare per lui, risolvergli i problemi, mettermi a studiare. Diventare anch’io uno scienziato. Perciò mi misi sotto. Per prima cosa sparii dalla circolazione. Se volevo avere qualche chance di riconquistare il calcio non dovevo guardare il calcio: sostituii quindi le partite con i libri. Poi cercai di eliminare tutte le distrazioni che potessero confondermi le idee. Ad esempio, per cogliere appieno il concetto di densità esclusi dall’alimentazione cioccolata calda, polenta, yogurt e gelato artigianale. E già che c’ero, eliminai anche il tè caldo: è vero che non c’entra con la densità, ma non si sa mai. Queste rinunce alimentari mi portarono anche dei benefici in termini di perdita di peso, che tuttavia non potei sfruttare in campo in quanto per due mesi non andai a giocare a calcetto impegnato com’ero con lo studio: ogni occasione era propizia per aumentare la conoscenza. Fatalmente azzerai completamente il mio tempo libero. Tanto è vero che per recuperare qualche ora utile iniziai a svegliarmi ogni mattina alle 5, per approcciarmi a materie quali matematica, fisica, geometria e statistica. E devo dire che dopo un mese di sacrifici qualcosa iniziava a muoversi.
I progressi tangibili furono essenzialmente due, peraltro connessi tra loro. Innanzitutto cominciai a padroneggiare, con mia grande sorpresa, concetti tipo ampiezza, scappare verso la porta, uscita di palla, transizione, cose che quando stavo con il calcio chiamavo banalmente: allargare il gioco, tornare, disimpegno e contropiede. La seconda conseguenza, ma non meno importante, fu che, acquisito finalmente un linguaggio scientifico, cedetti alla tentazione di utilizzarlo anche nel parlato comune, così provai anch’io la gradevole sensazione di sentirmi superiore all’interlocutore di turno. Infatti, proprio perché tenevo fede alla strategia di non seguire il calcio per non farmi vedere, quando si presentava l’occasione di parlare di lui ricorrevo a queste definizioni di nuovo conio per escludere dalla discussione le persone che erano rimaste al vecchio sistema: pur con tutta la buona volontà, non riuscivano a starmi dietro. Insomma, sentivo di essere sulla strada giusta.
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Sennonché un giorno, dopo circa due mesi di preparazione intensa, mentre studiavo fisica mi imbattei in un concetto che non riuscii proprio a decodificare: ovvero la differenza tra “scalare” e “scivolare”. Non capivo se significassero la medesima cosa o se attenessero a due movimenti diversi. E questo mi fece letteralmente impazzire, anche perché, seppur con una fatica immane, ero riuscito a venirne a capo da situazioni assolutamente proibitive, penso in particolare alla “proattività” e all’”XG”. Stavo davvero male, l’ottimismo era improvvisamente svanito, e al suo posto riemergeva prepotentemente l’inadeguatezza. Ma per mia fortuna non tornò sola. Stavolta portò con sé anche un po’ d’orgoglio raccattato chissà dove, così decisi di non inseguire più il calcio. Mi convinsi che non era giusto verso me stesso annullarmi per riconquistarlo: rischiavo concretamente di impazzire a vivere una vita non mia. Tanto più che ormai il calcio aveva trovato un suo equilibrio, la scienza non gli faceva mancare nulla, e un mio ritorno, ancorché da scienziato, avrebbe comunque potuto destabilizzarlo. Non volevo questo. Per cui gettai la spugna e lo lasciai andare per sempre.
Sempre più Paesi costruiscono rappresentative impostate su giocatori che non sono nati (nè cresciuti) nei confini nazionali. Convenienza o processo "fisiologico"?
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