Altri Sport
30 Gennaio 2018

Il ciclismo che si vende (o forse no)

Calendario infinito, corse dalla dubbia utilità e tanti problemi. Il ciclismo è un prodotto?

I paesi che compongono la bizzarra geografia del ciclismo professionistico si possono dividere in tre macrogruppi principali. Con epicentro l’Europa, fanno parte dello scaglione numero uno le terre che per prime hanno concepito, svezzato e permesso al ciclismo agonistico di formarsi ed affermarsi: Belgio, Francia, Italia, Olanda, Spagna. A ruota segue invece un gruppo ibrido. Le nazioni che ne fanno parte non abitano nel mondo dei pedali dallo stesso lasso di tempo ma in compenso sono accomunate da una storia meno brillante e più altalenante rispetto a quella delle cinque grandi nominate sopra. Svizzera, Lussemburgo, Portogallo, Norvegia, Danimarca, Svezia, Germania, Irlanda, Inghilterra, Colombia, USA, Canada, Australia senza dimenticare il blocco dell’est Europa (per il quale servirebbe un’ulteriore e più precisa suddivisione, qui preferiamo generalizzare per una questione di fluidità del pezzo). Nel terzo plotoncino, infine, tutti quei paesi che si sono affacciati nel ciclismo nelle ultimissime stagioni e che sembrano seriamente intenzionati a lasciare un segno. Qui, però, una distinzione va fatta. Perché se da un lato c’è il movimento africano, sempre più interessante e capace di sfornare buoni corridori, dall’altro c’è un tandem formato da Medio ed Estremo Oriente, che fa girare soltanto ingenti flussi di denaro e nulla più. Mica poco, direte voi, ma scenari come l’Alpe d’Huez e lo Zoncolan sono frutto di passione ancor prima che di soldi. La domanda sulla quale verte questa riflessione è: ha senso per il ciclismo uscire spesso e volentieri dall’Europa, e quindi di riflesso sacrificando e svantaggiando la stessa, per gettarsi nelle braccia di nazioni che al di là di capitali monstre non sembrano in grado di poter offrire altro?

Il gruppo, sempre più internazionale e variopinto
                                                               Il gruppo, sempre più internazionale e variopinto.

Tuttavia non è corretto mettere sullo stesso piano Medio ed Estremo Oriente. Prendiamo il Giappone. Organizza annualmente dal 1992 la Japan Cup, corsa di tutto rispetto vinta da corridori come Chiappucci, Simoni, Cunego, Riccò, Dan Martin, Basso, Mollema. Due anni prima della nascita di questa classica di fine stagione, nel 1990 fu la città di Utsunomiya ad avere l’onore di ospitare i campionati del mondo su strada, col Belgio che riuscì a fregare Bugno per una manciata di secondi. Di corridori di spicco se ne vedono pochi, qualche gregario e nulla più, però il Giappone può comunque contare su una solida partnership con la Nippo-Vini Fantini che ogni anno attinge dal bacino giovanile giapponese portando in Europa i talenti più interessanti, senza considerare un’autentica leggenda del pedale come Koichi Nakano, pistard imperioso capace di conquistare il titolo mondiale nella velocità ininterrottamente dal 1977 al 1986. Il pubblico risponde presente e la morfologia del territorio lascia spazio e possibilità per organizzare manifestazioni intriganti.

Quanto detto fino ad ora per il Giappone non lo si può certamente ripetere per nessuna delle realtà che fanno parte del Medio Oriente. Pur con pochissimi rappresentanti in sella, di corse ce ne sono invece diverse (Abu Dhabi Tour, Desert Pearl, Dubai Tour, Tour of Oman, col Tour of Qatar disputato dal 2002 al 2016) anche se si assomigliano tutte, e non è un bene dato che sono interamente pianeggianti e le uniche speranze di assistere ad un qualcosa di diverso dal previsto sono legate ad eventuali cadute, incidenti meccanici e quel vento che minaccia sempre di alzarsi e alla fine non si muove (quasi) mai. Il territorio non permette altrimenti, i tifosi rispondono picche e si fa veramente fatica a considerare queste terre parte attiva, sotto tutti i punti di vista, di un movimento emergente.

Doha 2016, un'edizione del mondiale che (purtroppo) ricorderemo a lungo
                                          Doha 2016, un’edizione del mondiale che (purtroppo) ricorderemo a lungo.

Ribadiamo qualche concetto. Stiamo parlando di ciclismo inteso come sport professionistico e non di cultura ciclistica o bicicletta come mezzo di trasporto, anche perché in questo caso sarebbe l’Italia a dover imparare dal resto del mondo. Tokyo, Montréal e Copenaghen sono tre esempi di grandi realtà che col ciclismo professionistico hanno un rapporto flebile o altalenante ma dalle quali in quanto a cultura del pedale possiamo soltanto prendere spunto. Queste precisazioni sono importanti da fare altrimenti si rischia di far passare e circolare un’idea sbagliata, ovvero che questo sport debba a tutti i costi rimanere limitato entro confini conosciuti e ristretti. Niente di tutto questo. La questione è un’altra. Il ciclismo gode di poca considerazione agli occhi dei media più importanti e tendenzialmente essi ne parlano quando si verifica almeno una delle seguenti situazioni: il campione “di casa nostra” vince una grande corsa, possibilmente all’estero (il successo di Nibali al Tour de France 2014 venne celebrato in ogni dove, da chiunque e per diversi giorni); un professionista rimane coinvolto in un grave incidente che spesso finisce per essere mortale; ultimo caso, una positività ad una qualsiasi sostanza, difficilmente si nota la voglia e la competenza di approfondire quindi non c’è da stupirsi nel vedere il salbutamolo trattato alla stregua dell’EPO.

Quando il ciclismo diventa un fatto sociale sulla strada è appagamento visivo, carreggiate e marciapiedi piene di tifosi in visibilio e colori al vento, ma anche emotivo: è la storia di questo sport che ogni anno si ripete sempre uguale e sempre diversa. Quando invece lo diventa per un qualsiasi altro motivo, nove volte su dieci è un male. Siamo veramente sicuri che il ciclismo sia un “prodotto” adatto all’esportazione su scala globale? Per quanto sia effettivamente semplice ed essenziale nei gesti, nelle tattiche, nelle strategie, è altrettanto complicato da apprezzare, da capire, da amare nonostante tutto. Corse che possono durare sei, sette ore, con una buona probabilità che non succeda niente, atleti che per indole e storia di questo sport possono essere sì dei personaggi ma non così mediatici come ad esempio i giocatori NBA. Ogni sport ha un suo linguaggio, una sua tecnicità, e molto spesso si finisce per parlare o appassionarsi soltanto della faccia più superficiale di esso ma è innegabile che alcuni siano più esportabili e globali di altri. Basta pensare al calcio o al basket americano, veri e propri spettacoli fruibili e godibili anche da coloro non particolarmente ferrati in materia. E allora perché si sceglie di cercare fortuna in paesi che col ciclismo c’entrano poco o nulla? Principalmente per soldi, ovviamente.

«Gerusalemme è stata scelta per la sua storia», spiega Vegni con l'ormai nota retorica buonista che atrofizza il mondo di oggi
      «Gerusalemme è stata scelta per la sua storia», spiega Vegni con l’ormai nota retorica buonista che atrofizza il mondo di oggi.

Limitiamo al minimo l’ipocrisia: nessuno, da queste parti, può permettersi di fare beneficienza. Realtà, ciclisticamente parlando, emergenti come quelle citate tra Medio ed Estremo Oriente possono contare su capitali ad oggi irraggiungibili o quasi per gli standard europei. La scelta di Gerusalemme come sede di partenza del Giro d’Italia 2018 è emblematica a riguardo. Si parla di una cifra compresa tra i quindici e i venti milioni di euro, numeri giganteschi per il mondo del pedale. Lasciando momentaneamente da parte le emozioni, cerchiamo di procedere in maniera asciutta e critica. Diamo a Vegni quel che è di Vegni: dai primi anni duemila, il Giro d’Italia ha fatto notevoli progressi. Le prime edizioni del nuovo millennio vedevano un costante dominio dei corridori italiani (Garzelli, Simoni, Savoldelli, Casagrande, Cunego) che spesso finivano per sciogliersi una volta arrivati sulle strade di Tour, Vuelta o più in generale su palcoscenici internazionali. La presenza di corridori stranieri era limitata a qualche nome di terza o quarta fascia (l’ultimo Tonkov, il primo Popovyč, Gárate, Aitor González, Hončar, Pérez Cuapio). Allo stesso tempo conquistavano piazzamenti di tutto rispetto corridori italiani come Cioni (quarto nel 2004), Noè (quarto nel 2000 e nel 2003) o Figueras (decimo nel 2001), i quali avrebbero fatto molta fatica a riconfermarsi una volta usciti dal contesto della corsa rosa. Alle ultimissime edizioni hanno invece partecipato molti dei migliori uomini stranieri per le corse a tappe: Valverde, Quintana, Contador, Landa, Pinot, Zakarin, Chaves, Domoulin, Jungels. Tornando alla scelta di partire dall’estero, non si può dire che questa non abbia un suo fascino. Gerusalemme è una città bella e intrigante, importantissima nel corso della storia: il problema è che negli ultimi anni si sta abusando di questa forma di organizzazione. Dal 2006 ad oggi, dando per scontato che l’edizione 2018 parta dalla città israeliana, la corsa rosa ha preso il via fuori dai confini italiani per ben sei volte: nel 2006 da Seraing, Belgio; nel 2010 da Amsterdam; nel 2012 da Herning, Danimarca; nel 2014 da Belfast, Irlanda del Nord; nel 2016 da Apeldoorn, Olanda; nel 2018, salvo rivoluzioni (in tutti i sensi), da Gerusalemme. Vegni dice che la scelta è ricaduta sulla contesa città israeliana per dare un segnale di abbattimento delle barriere che dividono il mondo, fino a poche settimane fa c’era chi sosteneva che fosse un tributo a Bartali e per l’aiuto che diede agli ebrei in tempo di guerra. In questo periodo di politically correct non ci si poteva aspettare niente di diverso.

https://youtu.be/ogHsdQkAmPk

Sharjah Tour 2018, tappa n.2. Mareczko vince la volata ad Al Malaiah. Manca qualcosa? Sì. Il pubblico.

La scelta è stata fatta in base ai soldi, è chiaro, e per certi aspetti l’organizzazione della corsa rosa va capita. Il Giro viene disegnato anche e soprattutto grazie alle amministrazioni comunali, provinciali e regionali che decidono di investire una certa somma per ospitare una partenza, un arrivo o addirittura entrambe. Quindi se una zona sembra essere tralasciata dal percorso della corsa non è per disinteresse, distrazione o negligenza ma perché evidentemente le autorità del posto hanno deciso di investire diversamente il denaro a disposizione. Il Tour de France propone un listino prezzi ben definito: ospitare la partenza di una tappa costa sessantacinquemila euro, l’arrivo centodiecimila euro che salgono a centosessantamila nel caso lo stesso comune volesse essere protagonista di un arrivo e una partenza. In Italia, come spesso succede, non c’è praticamente niente che regola questo aspetto e quindi è tutto affidato alla contrattazione privata. Quindi può succedere che per un arrivo di tappa Peschici e Alberobello versino sessantamila euro mentre Biella, per l’arrivo al santuario di Oropa, addirittura centoventimila. Da una parte ci sono le esigenze inderogabili di un ente che deve organizzare un grande evento, dall’altra invece la passione dei tifosi che vedono la corsa più rappresentativa del loro paese partire spesso dall’estero. La scelta di Gerusalemme, per quanto suggestiva, è discutibile in quanto le problematiche della città dividono il mondo da secoli (adesso ci si è messo pure Trump) e anche perché col ciclismo non c’entra praticamente niente. Per quanti significati si possano trovare, una volta che vengono resi noti gli importi investiti tutto passa in secondo piano: Gerusalemme è stata scelta soltanto per una questione economica. Questo porta inevitabilmente a pensare che in futuro le cose non miglioreranno.

Nibali, Quintana e Domoulin: il podio finale del Giro d'Italia 2017 è di altissimo livello. Da questo punto di vista, RCS e Vegni hanno fatto un lavoro eccellente
Nibali, Quintana e Domoulin: il podio finale del Giro d’Italia 2017 è di altissimo livello. Da questo punto di vista, RCS e Vegni hanno fatto un lavoro eccellente.

Cerchiamo di trarre qualche conclusione. Nessuno ci tiene a passare da reazionario, passatista o conservatore: ben vengano nuove idee, proposte ed esperimenti ma che siano fatte con giudizio, lungimiranza e tenendo conto della storia e delle radici di questo sport. La tradizione conta fino ad un certo punto. L’importante è che l’Europa mantenga una posizione privilegiata nel ciclismo non tanto perché è sempre stato così, ma per il semplice fatto che l’esperienza, la conoscenza, la competenza, l’amore e la passione che l’Europa ha saputo dare e dà ancora oggi al ciclismo sono decisive per il futuro di questo sport. I campionati del mondo 2016 di Doha si sono chiusi in positivo solo nei bilanci, per il resto la manifestazione si è rivelata un buco nell’acqua che speriamo venga ricordato a lungo e preso come esempio. Sacrificare il panorama europeo (calendari, corse, organizzazioni, enti, squadre, corridori, sponsor) per privilegiare quello mediorientale o asiatico potrebbe rivelarsi una mossa esageratamente azzardata. Ben venga un’estensione della bicicletta come mezzo di trasporto o come cultura e insegnamento ma teniamo distinto questo piano da quello del ciclismo professionistico, che si basa su altre dinamiche ed eventi. I soldi sono fondamentali, ça va sans dire, ma non possono e non devono interamente indirizzare le scelte degli organizzatori. Il tempo ci dirà se questi nuovi investitori (Bahrain, Emirati Arabi, Oman, Qatar, Israele, Cina, Giappone, ma anche Taiwan: la Merida è taiwanese e possiede il 49% di Specialized) sono mossi da vera passione o soltanto da interessi e ritorni di qualsiasi tipo.

D’altra parte, nel 2018 non ha senso pensare ad un mondo, nel nostro caso quello a pedale, con i confini di cinquant’anni fa: sarebbe un atteggiamento deleterio ed ingiustificato. Non dimentichiamoci che questi capitali hanno permesso la nascita e la sopravvivenza di squadre come la Bahrain-Merida e la UAE Emirates, dove tra l’altro corrono diversi rappresentanti del nostro ciclismo. Come sempre dovrà essere la politica (nazionale, europea ma anche ciclistica nelle vesti, su tutti, di UCI e CPA) a tutelare nel miglior modo possibile gli interessi di tutti: da una parte gli sponsor, le squadre, gli organizzatori, gli investitori, i costruttori (ai quali nessuno impedisce comunque di arrivare in ogni angolo di mondo coi loro prodotti); dall’altra i tifosi, gli appassionati, la storia, le radici. Si potrebbe dunque affermare che capitale e passione non vanno di pari passo: l’apporto economico è fondamentale nell’organizzazione e nella divulgazione delle manifestazioni ciclistiche ma non va il passato e il rapporto fortissimo che il ciclismo ha con esso, costruito su valori ed emozioni che il semplice denaro non può replicare. Far coesistere queste due facce della stessa medaglia sarà la sfida più grande del futuro prossimo di questo sport.

 

Gruppo MAGOG

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