La finale di Copa Libertadores cambia sede: ma nel momento in cui il Cile si è fermato, il calcio è un elemento ricorrente negli scontri in strada.
Per il secondo anno consecutivo la finale di Copa Libertadores cambia sede: la CONMEBOL ha appena sancito che la finale si giocherà a Lima, in Perù. A Santiago de Cile non sono state riscontrate le condizioni minime di sicurezza per assicurare l’incolumità delle delegazioni, degli spettatori e del regolare svolgimento della partita. In fondo la decisione era nell’aria già da ottobre.
Da quando la pacifica manifestazione che prendeva le mosse dall’aumento delle tariffe del trasporto pubblico, subito allargata a contestazione generale contro il caro vita, è stata repressa dal presidente Piñera dispiegando, ingiustificatamente, le milizie e portando a un’escalation di violenza preoccupante.
In un clima di terrore che non sembra placarsi, non fa certo rumore la decisione di sospendere le attività sportive del paese, compreso il campionato dominato dalla Universidad Catolica a sei giornate dal termine. Non stupiscono nemmeno le parole del primo cittadino di Santiago che aveva, a tutti gli effetti, posto fine ai dubbi circa la possibilità di disputare la finale continentale in città, dichiarando:
“Se non ci sono le condizioni di sicurezza per far riprendere il campionato, non ci sono nemmeno quelle per far disputare la finale tra Flamengo e River” (Felipe Guevara).
Le luci dei riflettori si spengono sulle Ande per accendersi sul Pacifico: il circo mediatico che traina il calcio, invece di esserne dipendente, può tornare nell’incoscienza ingenua della sua prosa cristallina. La realtà tra le strade di Santiago invece racconta di una rivolta che assume sempre più i tratti di una guerra civile.
Nel linguaggio del presente la parola ‘guerra’ è un termine vietato, relegato perlopiù al passato, dove il sangue e la violenza marca la distanza con la nostra sensibilità. Eppure, è difficile catalogare diversamente gli scontri di Santiago, Valparaíso e le altre città chiave di una rivolta che interessa tutti i 18 milioni di abitanti della preziosa lingua di terra andina.
Una guerra combattuta nel fronte popolare anche dalle barras bravas, le frange più calde – e violente – degli stadi latini. Fianco a fianco per la prima volta Los de Abajo e Garra Blanca (barras bravas rispettivamente di U. de Chile e Colo Colo) combattono sulle barricate azzerando le acerrime rivalità, in nome di una partita che sradica anche lo sport dal suo nido naturale e si riversa nelle strade.
https://youtu.be/MeotmzIWMaU
Fuor di retorica, questo video rappresenta l’essenza profonda del calcio
La sorte poi può essere fatale come nel caso di Alex Núñez Sandoval, meccanico e tifoso del Colo Colo, che sulla strada ha trovato la morte. È una delle cinque vittime delle violenze inflitte dalle forze dell’ordine, in una vera e propria opera di repressione autoritaria imposta dal governo: gettato a terra, picchiato ripetutamente in testa e all’addome, brutalmente colpito a manganellate, è stato trovato privo di sensi e riportato nel letto di casa, da dove non si è mai più risvegliato.
Sono già 3.500 gli arresti nel paese, 1.200 i feriti e i mutilati: molti hanno perso gli occhi, perforati dai proiettili di gomma sparati dalle forze dell’ordine per disperdere la folla. Venti il numero totale dei morti in una guerriglia che mira principalmente ad appianare le iperboliche differenze di classe che connotano tristemente il Cile: unico stato sudamericano ammesso all’OCSE (il ‘club’ dei paesi ricchi) ma anche unico del roster a ripartire nelle mani di meno dell’1% il 30% delle ricchezze del paese.
Le rivoluzioni, come lo sport, sono un elemento endemico del continente latino. Rimbalzano in rete (e non potete evitare un click qui) le immagini rubate di alcuni soldati giocare a pallone con i fronti popolari nelle stanche della rivolta. Un messaggio di distensione e speranza per un paese che oggi deve unirsi, come hanno fatto tanti club, in un solo obiettivo: un Cile migliore, fondato su “diritti sociali e dignità del popolo”.