Un riassunto di come la Cina, attraverso la diplomazia degli stadi, ha colonizzato sportivamente l'Africa.
Impossibile restare ciechi davanti all’inarrestabile espansionismo cinese nei settori strategici di mezzo mondo; risale a fine novembre 2019 il salvataggio di British Steel da parte del gruppo Jingye, un gigante da quasi 25.000 posti di lavoro e 15 milioni di tonnellate di acciaio prodotto ogni anno. Nonostante la levata di scudi di Eurofer, che ha chiesto fin da subito più chiarezza sulla trattativa, l’affare sembra vicino alla conclusione; in gioco, oltre ai 4.000 lavoratori di British Steel, c’è un piano di risanamento e investimento per oltre un miliardo di sterline nei prossimi dieci anni.
In queste stesse settimane il governo francese sta provando a salvare le filiali francesi di BS dall’acquisto cinese attraverso l’accordo con un diverso compratore. Per la stessa ILVA la soluzione di un acquisto cinese è stata più volte paventata sui media nazionali. Il settore dell’acciaio è ovviamente solo uno delle decine di esempi che si potrebbero fare per illustrare il caso. Non manca, nella lista degli investimenti, anche il settore sportivo.
Nel calcio inglese, nomi cinesi compaiono come proprietari di compagini nelle due serie maggiori; Wolverhampton, Southampton e West Bromwich, Reading, Birmingham; il 13% di CFG (proprietaria, tra le altre, del Manchester City) fa capo all’uomo d’affari Ruigang Li. Nella Liga spagnola ben 16 club hanno legami lucrativi di qualche tipo con società cinesi; ha fatto storia la presenza in campo del mediocre Zhang Chendong fra le file del Rayo Vallecano, presenza dovuta ad una clausola nel contratto fra la squadra e lo sponsor QBAO.
Nella Serie A – per ora – solamente l’Inter parla cinese, con Steven Zhang che figura tra i proprietari di squadre di calcio più ricchi del mondo. È però in Asia, Sud America e soprattutto Africa che questa stessa politica prende altre forme: si tratta, ma non solo, di quella che viene definita “diplomazia degli stadi”.
“L’amicizia fra la Cina e Mozambico durerà per sempre come il cielo e la terra”.
Per quanto riguarda l’Africa, le radici di questo fenomeno risalgono agli anni ’50, ai tempi delle prime donazioni cinesi verso Paesi considerati amici o potenziali tali. Dalle donazioni economiche si è passati ben presto ad altro genere di investimenti: da quasi quarant’anni, in gran parte del Continente nero, è un fiorire di opere edili erette da imprese cinesi che impiegano buona parte di manovalanza locale, colpendo così anche la piaga della disoccupazione.
Nascono infrastrutture, scuole, ospedali, centri commerciali, impianti industriali; e poi piscine, campi d’atletica, palestre e stadi. Spesso a titolo gratuito o quasi. A che pro? Consolidare non soltanto rapporti di amicizia diplomatica e commerciale ma garantirsi un saldo avamposto – nonché una forma di controllo soft ma non troppo – in quello che attualmente è il primo continente per urbanizzazione ed evoluzione, che sta avvenendo a ritmi mai visti prima, e il secondo per crescita economica.
Tenendo il focus sugli impianti sportivi, la prima operazione di questo tipo risale al 1958 con quello che tuttora è il più grande stadio della Mongolia, lo stadio di Ulaanbaatar. Segue un periodo di sovvenzioni e aiuti ai vicini, tra i quali Indonesia e Cambogia; ma già nel 1970 sbarca sul suolo africano il primo stadio marchiato RPC. Si tratta del modesto impianto di Amani, Zanzibar, “solo” 15.000 posti e una costruzione che lascia a desiderare già a partire dall’estetica e dalla funzionalità; nel 2010, viste le pessime condizioni, è stato completamente ristrutturato – da imprese edili cinesi, ça va sans dire.
La prima vera svolta arriva negli anni ’80, quando non solo il numero degli interventi si intensifica ma gli architetti cinesi iniziano a lavorare con maggiore criterio e spesso sviluppano interesse per un’integrazione fra le architetture delle loro opere e le peculiarità delle architetture locali. È un esempio di questa nuova metodologia di lavoro l’impianto sportivo polivalente diKasarani in Kenya, il cui sviluppo ha richiesto alla squadra di ingegneri e architetti nove mesi di studio. Non solo si tratta di un’opera di dimensioni considerevoli ma riflette anche il rinnovato impegno da parte delle imprese cinesi a consegnare opere di qualità, pratiche, all’avanguardia e durevoli.
Altro esempio di spessore è lo Stade Léopolde Sédar Senghor di Dakar, Senegal: più che un semplice stadio, un simbolo e un’arena che vede ospitati non solo una miriade di sport oltre al calcio – tra cui la popolare lotta senegalese – ma anche eventi politici. Costato 9 miliardi di Franchi CFA nel 1985, recentemente è stato inserito, insieme ad altri stadi, al centro di un grande progetto di restauri: i consulenti economici e finanziari dell’Ambasciata cinese hanno stanziato 40 miliardi di FCFA, senza richiesta di contropartita.
Nel 2019 un gruppo di ricercatori dell’Università di Hong Kong, guidato dal Professor Charlie Q. L. Xue, ha analizzato l’impatto di questi investimenti nell’edilizia sportiva: se il numero di stadi costruiti in giro per il mondo cresce vertiginosamente già negli anni ’80, l’esplosione si ha soprattutto nell’Africa subsahariana e dal 2000 in poi. Sempre in base a studi recenti, i complessi sportivi costituirebbero il 12% del totale degli edifici costruiti con fondi cinesi: gli stadi emergono senza dubbio all’interno della loro categoria – e non solo – come il genere di costruzione più dispendioso e simbolicamente impressionante.
Se poi l’impatto delle strutture in sé non bastasse, grandi targhe commemorative scritte in lingua locale e in mandarino ricordano al tifoso chi può ringraziare per le gradinate dalle quali tifare la squadra del cuore. All’ingresso dello Estadio do Zimpeto, nella periferia di Maputo, campeggia con enfasi “L’amicizia fra la Cina e Mozambico durerà per sempre come il cielo e la terra”.
Negli ultimi decenni la presenza cinese in Africa sembra spingere per ottenere sempre di più, anche attraverso la frontiera diplomatica dell’edilizia a costo vicino allo zero. Pochi anni fa l’allora Presidente della Confederazione del Calcio Africano, il congolese Issa Hayatou, ebbe candidamente a dichiarare che
“a noi non importa chi sia a costruire gli stadi, quello che conta è che si attengano alle nostre specifiche. Sono i singoli governi nazionali che scelgono chi può costruire”.
E parlava con coscienza di causa: i costi per un singolo stadio, di dimensioni simili ad un moderno stadio europeo, sono generalmente considerati inferiori ai 100 milioni di dollari; lo stadio di Juba in Sud Sudan, 15.000 posti, ha un costo dichiarato di 25 milioni. Progettazione, costruzione e manutenzione sarebbero tuttora improponibili o quantomeno improbabili per le nazioni africane ma per i graditi ospiti orientali rappresentano cifre delle quali sono ben felici di farsi carico in cambio dei privilegi commerciali, minerari e diplomatici che richiedono e ottengono.
Nel 2010 l’agenzia di stampa Xinhua contava52 stadi costruiti da società cinesi e/o con fondi cinesi. Tra questi, due dei quattro stadi utilizzati per la Coppa delle Nazioni Africane 2008, ospitata dal Ghana. Proprio il Ghana, forte di relazioni diplomatiche che risalgono agli anni ‘60, ha recentemente stilato con la Cina un memorandum di intese per l’estrazione della bauxite, accordo raggiunto non senza polemiche: l’estrazione metterebbe a rischio l’ecosistema della foresta pluviale di Atewa e avverrebbe nei pressi dei maggiori fiumi della regione, fonti d’acqua per 5 milioni di persone.
«Il calcio in Africa agisce come strumento diplomatico bilaterale destinato a favorire tutte le parti coinvolte»
E ancora: altrettanto emblematici sono gli sviluppi recentissimi nella questione dei diritti televisivi e pubblicitari della Confederazione del Calcio Africano, un affare da un miliardo di dollari con sicuri ulteriori sviluppi nel vicino futuro. Il tribunale de Il Cairo, attraverso una sentenza datata 2017, e la Competition Commission of the Common Market for Eastern and Southern Africa hanno convenuto sull’illegittimità di quello che, a loro parere, sarebbe un vero e proprio monopolio ventennale derivante dal contratto per i diritti media e marketing stipulato fra CAF e Lagardère Sports.
Inizialmente sono stati multati i dirigenti della Confederazione responsabili della stipula del contratto e la situazione è rimasta più o meno silente fino al novembre 2019, quando la CAF ha infine deciso di rescindere il suo contratto con la società francese.
Non solo le arene quindi ma anche i diritti televisivi stanno rapidamente diventando questioni di stretta attualità ed interessi faraonici, esattamente come in Europa.
Lagardère ha proceduto immediatamente per vie legali; una strada che per il momento li vede perdenti. Di fronte alla International Chamber of Commerce sono state rifiutate le misure di emergenza richieste dalla società francese per mantenere in vigore il contratto almeno in attesa dell’arbitrato sul merito. Nella stessa sede, Lagardère è stata inoltre costretta a pagare i costi amministrativi dell’arbitrato oltre ad ulteriori 60.000 $ a titolo di compensazione alla CAF per le spese legali finora sostenute.
Pur scornati, i francesi non si danno per sconfitti e attraverso un comunicato ufficiale sul sito annunciano che il giudizio ricevuto sulle proposte misure di emergenza non inficia in alcuna maniera quello che potrebbe essere il risultato finale dell’arbitrato sul merito.
Comprensibile come la società francese non voglia lasciare la presa facilmente: questo è inoltre già il secondo colpo in un solo anno dopo il mancato rinnovo dei diritti della Asian Football Confederation. Dalla disputa esce – per il momento – vincitore il nuovo Presidente della Confederazione, Ahmad Ahmad. Quest’ultimo, nel giugno 2019, era stato improvvisamente messo in stato di arresto proprio in Francia, con accuse di frode e reati finanziari, salvo poi essere rilasciato senza subire strascichi legali.
Nonostante il momento di stallo sembrano di nuovo spalancate le porte ai concorrenti e tra i candidati più papabili c’è Infront Sports & Media, compagnia svizzera già detentrice dei diritti di molte squadre italiane e proprietà di Wanda Sports, divisione di Dalian Wanda, primo gruppo immobiliare cinese e già coinvolto nell’acquisto di quote importanti dell’Atletico Madrid nonché detentore dei diritti di denominazione del nuovo stadio dei Colchoneros, il Wanda Metropolitano appunto; tout se tient?
Non solo le arene quindi ma anche i diritti televisivi stanno rapidamente diventando questioni di stretta attualità ed interessi faraonici, esattamente come in Europa. E, proprio come in Europa, il calcio africano in via di sviluppo sembra già vicino a vedersi imbrigliato nella medesima matassa, con l’aggiunta spinosa di un ospite tanto generoso quanto poco disinteressato. Non rimane che restare alla finestra a seguire gli sviluppi di una vicenda che potrebbe, nel giro di pochi anni, assumere proporzioni tali da fare impallidire il mondo del calcio del Vecchio Continente.