Calcio
18 Aprile 2023

L'odio al tempo di Ciro

Esiste ancora un qualsiasi limite?

Il recentissimo episodio dell’incidente stradale occorso all’attaccante della Lazio Ciro Immobile ha riproposto un tema antico nel significato e molto moderno nella modalità: la manifestazione dell’odio, oggi esplicato attraverso i canali social. Per carità, moltissimi messaggi di solidarietà e di affetto ma un quantitativo spropositato di insulti e di offese alla vittima del sinistro. Tonnellate di cinismo squallido e inaspettato. Inaspettato? Parliamone. L’”affaire Immobile” solleva per l’ennesima volta un dibattito aperto: i social generano odio o amplificano l’odio già esistente?


DOMENICA MATTINA


Sono circa le 8,30 di una sonnecchiante domenica mattina, quella del 16 aprile 2023. In una Roma ancora semideserta e stranamente quieta (il potere della domenica mattina), nelle vicinanze dello Stadio Olimpico si scontrano all’improvviso un fuoristrada e un tram, quello della linea 19. Ad avere la peggio è ovviamente il fuoristrada. Parte anteriore distrutta, gli airbag esplosi, l’uomo alla guida è ferito. Arrivano le forze addette e tentano di ricostruire l’accaduto, oltre che a soccorrere chi ne ha bisogno.

Anche il conducente del mezzo pubblico si è fatto abbastanza male ma a differenza dell’altro, non è un personaggio pubblico. Il ferito è Ciro Immobile in persona, bomber della Lazio, all’interno del suo fuoristrada stavano viaggiando anche due dei quattro figli del campione. Le due bambine risultano illese, il papà è stato un po’ meno fortunato. Trauma distorsivo alla colonna vertebrale e frattura composta di una costola. Poteva andare peggio, tornerà in campo al più presto ma non è questo il punto. Neanche un’ora e il fatto è diventato notizia. E che notizia!


IL TAM-TAM


Le agenzie di stampa hanno appena lanciato il primo take e la notizia è già rimbalzata sui canali social: Facebook, Instagram e chi più ne ha più ne metta. A un primo momento di incredulità seguono sciami di commenti, sul veicolo c’erano due bambine piccole ma a molti poco importa. Importa l’identità del guidatore. È l’occasione per esprimere odio, acrimonia, malevolenza sfruttando la cronaca non calcistica. Ciro Immobile e la sua famiglia non sono nuovi a certi trattamenti, sua moglie Jessica ha segnalato più volte un malanimo verso la sua famiglia che non trova una spiegazione razionale e che spesso non si accontenta del sarcasmo, sia pure pesante.



Tra i commenti più sgradevoli ci sono frasi del tipo “Stavolta ha preso il palo”, oppure “L’hanno rivisto al VAR”. Qualcun altro arriva a essere più esplicito: Speravo che morisse e altre espressioni di godimento per l’accaduto. Un mafioso recluso al 41 bis non ha subìto (e non subirebbe) frasi del genere, un assassino condannato in via definitiva godrebbe al 100% di maggior rispetto umano. Nella stessa giornata di domenica si rende nota un’altra notizia, diversa ma non meno atroce e dai toni molto simili alla precedente.

A seguito della partita Milan-Napoli di Champions League e di qualche battibecco in campo (che lì dovrebbe sempre finire, per quanto forte) uno sciame di haters (i ben noti odiatori seriali) augurano al terzino del Milan Theo Hernandez e relativa famiglia una morte lenta e degradante, brutta e sofferta come quella di Gianluca Vialli. Hernandez ha un figlio, Ciro Immobile addirittura quattro, due dei quali hanno appena vissuto un’esperienza scioccante. È troppo, serve una riflessione.


IO SE FOSSI CIRO (O THEO, O MATTIA)


Non che prima non si odiasse, ridicolo pensare che i cattivi sentimenti siano appannaggio esclusivo del terzo millennio. Gli stadi rimbombavano anche in passato di cori pessimi, il muro è sempre stato la carta dei cretini anche in tal senso. Scontri e tensioni, ce n’erano anche più di adesso. Ma almeno l’odio, questo tipo di odio, trovava una barriera sulla soglia della porta di casa. C’erano cose che si potevano pensare ma non dire, la censura era innanzitutto di tipo sociale. Oggi tutto sembra possibile in nome di una malintesa libertà d’espressione.

Chiaramente, i canali social questo rancore così diffuso e generalizzato non lo creano ma di certo lo amplificano in maniera il più delle volte impune. E peggiorano la nostra vita, la qualità dei nostri pensieri. È qualcosa che sta nell’aria, entra dentro casa, che si respira attraverso un telefono cellulare, passa fra le pieghe di un PC neanche fosse un Trojan. E la cosa peggiore è che chi odia non si vergogna di ciò che dice, e infatti lo dice. Esistono norme di netiquette, esistono regole non scritte di rivalità sportiva anche aspra ma da non travalicare mai (perché l’effetto boomerang diventa poi prevedibile).



Le amministrazioni dei social avrebbero poteri praticamente assoluti all’interno della propria area giurisdizionale ma sembrano esercitarli a singhiozzo, per questioni talvolta oziose e molto spesso percepite come perbenistiche. Tutto è terreno di scontro, quando si è sui canali social: la politica, le scelte di vita, le inclinazioni sessuali, perfino i gusti musicali sembrano fare da sfondo agli attacchi dei cosiddetti “leoni da tastiera”. Lo sport, il calcio in particolare, appare il collettore del peggio. Si offende, ci si minaccia, si augura il peggio all’altro. Lo spazio per un dialogo magari duro ma costruttivo sembra ridotto al lumicino.

Il social come un medium senza freni e senza limiti etico-verbali.

Che cos’hanno in comune Ciro Immobile, Theo Hernandez e Mattia Zaccagni oltre al fatto di essere tre calciatori (il primo e il terzo militano peraltro nella stessa squadra)? Sono personaggi pubblici di una certa rilevanza e nello specifico padri di famiglia. Di Zaccagni è stata messa in dubbio perfino la paternità del figlio. Intere frange di tifosi non si sono fatte scrupolo di calpestare la sensibilità delle famiglie di riferimento, arrivando a prendere di mira i bambini in prima persona.

Una volta l’infanzia era un valore sacro, spesso retorico ma messo in pratica. La cultura dei “pupi” era tutt’altro che esente da pecche, oggi si è rotto anche quell’argine di sicurezza. Non risulta che Immobile, Zaccagni e Hernandez (che poi non sono gli unici ad aver subìto qualcosa del genere) abbiano mai sporto denuncia alle autorità competenti. Sarebbe bello e importante se presto lo facessero, così come sarebbe importante se categorie di cittadini potessero costituirsi parte civile. Non per salvaguardare il proprio beniamino ma per tutelare tutti, sé stessi in primis.

Lo stigma sociale potrebbe farsi azione legislativa ma soprattutto parte di una civiltà e di una cultura da recuperare completamente, nella misura in cui ciò sia ancora possibile. Utopia? Forse, ma non è con i semplici divieti che si migliora il mondo o lo si civilizza. L’incivile deve sentirsi tale, e perché tale si senta, deve trovarsi solo. L’unione deve fare la forza e non soltanto per modo di dire. Almeno proviamoci, altrimenti non si salvano né il calcio né la convivenza civile. La guerra parte sempre dalle parole e certe parole sono come spade: non vanno estratte dal fodero, perché poi non si rimettono più dentro.

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