«E al Dio degli inglesi non credere mai», sussurrava Faber in Coda di lupo. Bisogna però distinguere nel Simposio di onnipotenti a basettoni: della divinità ordinaria che conta gli anni a Elisabetta, è meglio non fidarsi; di quella straordinaria, conosciuta sul fondo di una Samuel Smith Oatmel Stout come Eupalla, ci si può fidare, come di un’amante.
Giorgio Coluccia, giovane giornalista professionista di origini salentine, che collabora con «Il Giornale» e «Il Foglio», dopo aver bagnato la sua penna nei calamai della «Gazzetta dello Sport» e del «Corriere dello Sport», ha eseguito un peregrinàggio sulle orme del Dio straordinario costituendone un diario. Dal cammino fish and chips sulla terra calpestata da profeti del calibro di Brian Clough e sir Alex Ferguson e da apostoli come Alan Shearer e Titì Henry – giusto per citarne alcuni –, nasce il libro Città stadio (Edizioni Slam, Roma, 2020).
Il titolo rappresenta un’evoluzione delle “città-stato” protagoniste dell’antichità in Mesopotamia e in Grecia, concretizzatasi poi con l’uomo dell’Ottocento, fondatore in Inghilterra delle città-stadio, in un’epoca dall’acre gusto Peaky Blinders. Dall’incipit dell’opera si evince la genesi dei fedeli del football, che hanno scelto una chiesa alternativa da costruire al centro del villaggio, in grado di aggregare orde di generazioni al richiamo tribale del suono di una pallone calciato:
«Lo stadio. Uno dentro l’altro, da sempre, nell’Inghilterra del football. Due realtà inscindibili, un unico legame, forte e consolidato. Finiscono per fondersi, viaggiando mano nella mano, partita dopo partita, ospitando sulle tribune intere generazioni di tifosi, che a loro volta sono gli abitanti stessi di quel quartiere, di quella città, il cuore pulsante del club. Nella maggior parte dei casi, a fine Ottocento, quando le città erano meno estese e meno sviluppate di oggi, il football ground doveva sorgere in centro, laddove c’era il nucleo della sua esistenza, c’erano le attività principali ed era un punto facile da raggiungere per tutti. Come la chiesa al centro del villaggio, un luogo simbolo che suggella l’identità e crea una comunità perpetua, da tramandare a oltranza».
Tra gli elementi interessanti rilevati dall’autore, si arrampicano delle dicotomie che trasformano lo spazio e il tempo del quartiere, dell’appassionato, dell’almanacco. Una di queste è la modernità contro l’ancien régime nei pensieri dei gunners, costretti a vederetramontare la leggenda di Highbury per fare spazio a un’arena ipertecnologica, l’Emirates, capace di offrire più comodità ai fedeli, ma di non soppiantare l’idea di teatro esclusivo, rivendicata dai più nostalgici.
Ma il capitalismo, anche in questa religione, non se ne frega nulla e si prende tutto quello che gli occorre. La squadra dei record di Arsène Wenger, arrivata a un centimetro dal massimo alloro europeo, ha demolito il tempio del cuore del nord di Londra con la palla della stagione più bella di sempre: per i seguaci, lo staff tecnico, la dirigenza, abbacchiati da un destino baro, fermatosi al gol di Campbell allo Stade de France, Saint Denis, Parigi, in una notte di maggio.
«Nel nord di Londra c’è un punto in cui qualsiasi tifoso dell’Arsenal può fermarsi un attimo e scegliere dove guardare. Verso destra, in direzione di ciò che è stato. Oppure di fronte a sé, dove c’è il presente e senz’altro il futuro. Quel luogo è esattamente all’incrocio tra Avenell Road e Aubert Park. Da un lato, a nemmeno duecento metri, c’è la Clock End, uno dei simboli del vecchio Highbury, che in quel punto si divideva dalla iconica facciata della East Stand, dall’altro lato in fondo alla discesa, a quasi settecento metri, si staglia l’imponente e moderno Emirates Stadium, casa dei Gunners dall’estate del 2006».
La dicotomia però più sorprendente resta quella di Nottingham, città in cui Achille ed Ettore avrebbero scelto di vivere e tifare, tagliata in due come un cervello dagli scrosci argentei del Trent. Al Nottingham Forrest Football Club, due volte padrone del Vecchio Continente nell’ultimo anno dei Settanta e nel primo degli Ottanta – grazie ai rosari dei bomber della middle class Garry Birtles e Trevor Francis –, si contrappone il club pioniere del calcio mondiale, il Notts County, forgiato sul green carpet nel 1862, un anno prima della nascita della Football Association. Società quest’ultima, che ha ispirato coi suoi colori sociali, nell’autunno del 1897, i fratelli Enrico ed Eugenio Canfari, studenti del liceo classico D’Azelio di Torino, a fondare su una panchina divenuta reliquia la Vecchia Signora, la Juventus. Ma torniamo a Nottingham, laddove i templi delle due squadre rivali ribollono uno dinanzi all’altro:
«C’è un tratto in cui London Road incrocia i binari della ferrovia. E la strada s’impenna quel tanto che basta per un’illusione ottica. Da lontano scorgi due stadi, che sembrano affiancati, quasi si sovrappongono. Su una tribuna leggi The Brian Clough Stand, roccaforte del Forest, sull’altra Notts County Football Club, pioniere del calcio professionistico inglese. Succede solo a Nottingham, da nessun’altra parte in tutta l’Inghilterra ci sono due football ground così vicini. Appena 275 metri di distanza, uno avverte il respiro dell’altro. E viceversa. Poi ti avvicini e non si affiancano mai per davvero. Si guardano negli occhi da oltre un secolo, separati dal passaggio del fiume Trent, il terzo corso d’acqua più lungo di tutto il Regno Unito, dopo il Severn e Tamigi, che da sempre traccia un confine immaginario tra il Nord dell’Inghilterra e le Midlands».
Se devi credere al Dio degli inglesi, credi in Eupalla. Il diario di viaggio di Giorgio Coluccia esalta la sadica bontà di una divinità violentata dalla perpetua ricerca della ricchezza materiale da parte dei suoi protagonisti, trasformatisi spesso in novelli Giuda, cantati da Paul McCartney svogliatamente. Un sogno doloroso tra allibratori insaziabili e padri e figli protetti nella loro gioia dalla polizia a cavallo. Per scoprire l’autentico messaggio del rito laico più frequentato del pianeta, basta calpestare i templi di Inghilterra, ascoltando le parole che il Dio straordinario ha fatto pronunciare a Richard Rodgers e Oscar Hammerstein II a Brodway, durante l’annata 1945, nel musical Carousel:
Quando cammini nel bel mezzo di una tempesta
tieni la testa bene in alto
e non avere paura del buio
alla fine della tempesta
c’è un cielo dorato
e la dolce canzone d’argento cantata dall’allodola
cammina nel vento
cammina nella pioggia
anche se i tuoi sogni saranno sconvolti e spazzati…