Da zimbello del villaggio a presidente della Lazio è un attimo. Claudio Lotito, d’altra parte, non è mai cambiato. Cresciuto tra Marino e Amatrice, porta i segni di un palato ben viziato sin dall’infanzia. L’imberbe Claudio è il migliore della classe. Al Liceo Classico può studiare, e con enorme successo, le tante voci del passato che si diletta ad incarnare, oggi, davanti alle telecamere. Rivela alla Rosea – che non gli crede – di essere, all’epoca, tra i 100 studenti più bravi d’Italia. L’immagine è chiarissima: Lotito è il primo della classe perché per lui, a differenza degli altri, tagliare il traguardo è una questione di vita o di morte. Ogni frase è ponderata. Ogni gesto, anche se mosso da una goffa elettricità, è pensato. È proprio in questo continuo esame, in questo equilibrio squilibrato, in questo Io-Io! non egocentrico ma egologico, che si gioca il Lotito-corpo. Il Lotito-pensiero non ne è che il prolungamento.
La sua scalata al successo è inarrestabile. Dalla (ormai) celebre impresa di pulizie al matrimonio “politico” con la figlia di Mezzaroma, Lotito costruisce, mattone dopo mattone, la sua polis ideale. Quando parliamo di polis, intendiamo proprio la polis greca:
«Abbiamo una forte responsabilità, l’obbligo di promuovere un’azione di insegnamento civile. E di liquidare il paradigma negativo, il dispendio dei soldi, l’edonismo. Lo sport dev’essere un elemento catartico com’era in Grecia».
Se una frase del genere l’avesse detta Mussolini, nessuno si sarebbe accigliato. Fisico tarchiato, d’altra parte, chiama volontà d’elevazione. Chi aspira alle stelle – ma non può vederle – vive in punta di piedi.
L’ingresso in politica è solo rimandato, per Lotito. Claudio sa che il momento è maturo quando gli altri non se lo aspettano. Come quando, nel 2004, preleva le azioni di maggioranza della SS Lazio, all’epoca in pieno crack finanziario – è il crack della Cirio e soprattutto di Cragnotti –, e dilata il debito spalmandolo su 23 anni, fino al 2028. Per uno che è abituato ad essere lo zimbello del villaggio, questa, lungi dall’essere una follia, è un’enorme opportunità. Il riscatto, per Lotito, non è il superamento di uno scacco ma l’occasione di uno smacco – in faccia ai nemici; e di nemici, Lotito, ne ha molti, reali e immaginari.
È il Lotito-corpo. Quattro telefonini, uno per la Lazio, uno per la famiglia, due per le aziende. Due braccia e una mente d’acciaio.
Lotito vuol fare tutto lui. Soprattutto, vuole prendersi i meriti del minimo successo. La storia, ad oggi, gli dà ragione. La sua battaglia con gli Ultras è una vittoria senza precedenti nella storia del tifo romano. Lui ne parla poco, e questo dà la misura del peso che – insieme alla scorta – si porta dietro da anni: «Non accetto posizioni distruttive, combatto i tifosi di professione. Amo gli empatici, sospinti dalla passione. […] Nel lavoro applico dettami morali ed etici. Ma non sono tirchio, è una bufala giornalistica». Quest’ultimo punto è insieme meno serio e più serio del primo. Meno serio, perché Lotito con i tifosi della Lazio ha rischiato la propria pelle, e in più di un’occasione; più serio, perché agli Irriducibili – sparuta minoranza – s’è aggregata negli anni quella “assoluta maggioranza” di tifosi che, stanca di una politica societaria “tirchia”, ha trovato in Lotito la causa di tutti i mali.
Sotto Lotito però, la Lazio ha vinto eccome. Il problema, dicono i contestatori, non è questo. Ma allora, il problema, qual è? Forse alcune affermazioni a dir poco eccessive, come “I tifosi della Lazio me facessero ‘n malloppo de bocchini!“. Il suo autista, un gigante buono che lavora con lui da sedici anni e che lo ama come un fratello, rivela: «Tu lo vedi così, spavaldo. E puoi farti anche un’impressione sbagliata. Ma il presidente è un uomo generoso che subisce da anni un’aggressione vile. Lui si difende. Se la Lazio fosse Alitalia adesso Lotito sarebbe un eroe nazionale. Abbiamo vinto la Coppa Italia (2013, ndr), abbiamo battuto la Roma. Mica una partita qualsiasi. Eppure, mentre si festeggiava la vittoria, allo stadio, ci hanno buttato le monetine addosso». Questo fa riflettere – fa riflettere, e sorridere, anche il riferimento ad Alitalia, sbadatamente profetico.
Da Inzaghi in poi le cose sono cambiate. Soprattutto perché, ad iniziative identitarie – Inzaghi allenatore, Peruzzi dirigente, l’Aquila Olimpia lanciata in volo ad ogni pre-partita –, si lega il successo d’una squadra che, dopo la Juventus, è la più vincente d’Italia da dieci anni a questa parte. Lotito, certo, ha molti difetti. Ma è forse giunta l’ora di schierarsi dalla parte dei suoi difetti per meglio coglierne i pregi. Lotito è l’ultimo presidentissimo del nostro universo pallonaro. L’Italia, sempre più americana e cinese, trova in quest’uomo così buffo l’ultima bandiera issata in Taverna; alla luna ci pensano gli americani: «Mi comporto sempre nella stessa maniera, non guardo in faccia a nessuno. Credo che tutti l’abbiano capito chi sia Lotito. Io sono io. Slegato da qualsiasi centro di potere, fuori dalle mischie, estraneo ai condizionamenti». Così rivendica.
Ad ogni finestra di mercato, il tifoso della Lazio è pienamente consapevole del fallimento di almeno una trattativa su due. Celebri i casi di Pjanic, Yilmaz, Wesley, Bielsa. Storie tutte italiane. Sarà che Lotito, sul centesimo, ci ha costruito i milioni. Questioni di principio, di bilancio e di lungimiranza. Riguardo alle prime – quelle che, da fuori, appaiono nella semplice veste della dea Stupidità –, Lotito ha combattuto per anni: Pandev, Zarate, Lichtsteiner, Petkovic, De Vrij. Per non fare che alcuni nomi.
«Nel calcio la gente pensa di aver trovato sempre qualche fesso da mungere. E spesso i fessi sono i presidenti delle squadre di calcio. Ma io non sono fesso. Non mi faccio mungere. […] Con me pensavano d’aver preso la vacca per le zinne, e invece hanno preso un toro per le palle».
La metafora agreste è di un’efficacia strabiliante. Ecco, Lotito è un toro. Appendersi alle sue palle è come afferrare un cavo elettrico con le mani bagnate. La sua battaglia ai procuratori, che è più che legittima, è – idealmente – la battaglia di ogni vero tifoso italiano: «i procuratori sono come i negrieri, sono degli estorsori autorizzati». E la battaglia ai calciatori? Doppiamente sacrosanta.
Lotito show
Il calcio per Lotito è lo spazio dove, meglio che altrove, si fondono etico ed estetico. Proprio come in Grecia. Proprio come nella Roma del grande Marco Aurelio, anima greca in corpo romano. Più o meno come Lotito, insomma, con le dovute differenze: «Bisognerebbe procedere a una rivoluzione poetica nel mondo del pallone. Il calcio dovrebbe interpretare Manzoni». L’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo. Ecco il Lotito-Manzoni-pensiero. Promessi sposi, Lotito e la Lazio, lo sono da quando Claudio ha cinque anni. Così racconta. Più volte torna il topos del Lotito romanista. La sua fede – religiosa – è invece fuor di questione. Cattolica, s’intende:
«Quel che ho fatto l’ho costruito con le mie mani, ma è stata la divina provvidenza a mettermi sulla strada giusta».
La sua polis continua ad espandersi. È partito dal basso, Lotito. Lo vediamo alla soglia dei trentanni, sudaticcio e in abito da lavoro, spostarsi da un aeroporto all’altro. La sua ventiquattrore di pelle nera usata tradisce l’appartenenza ad uno status sociale che oggi non gli appartiene più. Ma Lotito non è cambiato. È sempre quel ragazzotto paffuto ed elettrico, impacciato ma ordinato, che era il primo della classe essendo l’ultimo della vita. È sempre quello che, anche miliardario, paga il giusto senza lasciar di mancia.
Gli studi umanistici, nella sua mente, sono il miglior strumento per arrivare al successo. Economico e retorico. Diciamo pure demagogico. L’intento è quello di Quintiliano, il risultato è quello di Don Abbondio: «Non nego che il latino e il greco possono essere utilizzati per stordire l’interlocutore. Ma lo sport non può essere disgiunto dalla cultura. Nel calcio ci so’ troppi analfabeti». Come dargli torto. E in fondo chi di noi sgambetterebbe Lotito anziché offrirgli una bevuta – che tanto comunque non offrirebbe? Chi di noi, dovendo scegliere tra una cena con Steven Zhang o Claudio Lotito, esiterebbe nella scelta?
L’Italia è un condominio di piattume e di piattole, rompicoglioni e squallide, insignificanti, esclamava stanco Carmelo Bene al Teatro Parioli di Roma, il 27 giugno del 1994, durante uno speciale Maurizio Costanzo Show. E continuava, CB: «Mi interessa il patologico. Riina e Poggiolini sono due grandi, sommi casi patologici. E in un’epoca che non produce più niente, di umano, essi sono forse i due soli uomini degni della mia attenzione. Patologica attenzione». Ecco. Claudio Lotito ci attrae patologicamente. Spesso, affranti dal presente, ci guardiamo alle spalle, alla ricerca di un’età dell’oro da cui cibarsi e trarre frutti prelibati. Il nostalgismo è il desiderio di chi mira alla costa ma è cullato dal mare. L’epica di Lotito ci obbliga alla terra dell’hic et nunc. Mangiatene tutti.
Questo articolo è il frutto di pensamenti, ripensamenti e auto-antitesi costanti. Mi è qui obbligatorio ringraziare Renato per alcune chicche sul giovane Claudio Lotito, Beppe Di Corrado per uno straordinario articolo sul presidente laziale e Salvatore Merlo per aver ispirato, grazie al suo long-form-intervista su e con Claudio Lotito, questo nostro, in confronto ridicolo, tentativo editoriale.