Le rivoluzioni iniziano sempre a New York. Non è revisionismo storico, ma semplice consuetudine che il mondo del tennis segue ormai da anni. Lo Slam americano è crocevia inevitabile per questo sport: non tanto per il valore sportivo (seppure ragguardevole) di Flushing Meadows, quanto più per le novità che ciclicamente vengono introdotte proprio nel Queens. L’adozione del tie-break nel 1970, il prize money parificato tra uomini e donne nel 1973, le sessioni serali inaugurate nel 1975 sono solo alcune tra le più significative tappe in cui il torneo di New York si è reso pioniere tra gli Slam. Più recentemente, l’evento della USTA è stato anche incubatore di innovazioni tecnologiche: nel 2006 con l’introduzione di Hawk-Eye e nell’edizione 2020, complici anche le misure restrittive indotte dalla pandemia, con la prima partita interamente regolata da ‘occhio di falco’, lasciando orfano il campo dei tradizionali giudici di linea.
Riforme, modifiche, adeguamenti regolamentari che sarebbero poi stati adottati su larga scala da tutto il mondo del tennis. Ecco perché solo La Grande Mela poteva essere il primo Slam a introdurre una delle riforme più chiacchierate di sempre: il coaching. Dopo un’estate di sperimentazione, e una fase di test che si protrarrà per tutto l’anno solare, le indicazioni rivolte dal player’s box ai giocatori saranno finalmente consentite. Certo, il tutto è stato ampiamente regolamentato, in modo analitico e a tratti anche piuttosto buffo, ma più che ammorbarvi sui cavilli tecnici con i quali l’attività è consentita, è il caso piuttosto di soffermarsi sulla portata rivoluzionaria del provvedimento.
Il circuito si è diviso, d’altronde ha sempre mostrato opinioni diametralmente opposte sul tema. Anzi, a dire il vero si è scisso, ma non certo equamente. Si calcola che nei sondaggi preparatori condotti dalla ATP, circa il 90% dei giocatori fosse favorevole all’introduzione del coaching. Una delle motivazioni trainanti sarebbe stata quella della ratifica di un comportamento consuetudinario, ormai consolidato negli anni. Il Guru degli allenatori, il chiacchierone Patrick Mouratoglou (ex-coach storico di Serena, ora a servizio di Simona Halep), da sempre favorevole alla riforma – ci mancherebbe aggiungiamo, Narciso com’è – ha dichiarato:
«Una pratica che esiste da decenni, praticamente in tutte le partite. Tutti gli allenatori riuscivano, in un modo o nell’altro, a essere in contatto con chi è in campo. Si trattava solo di giocareuna partita al gatto e al topo con gli arbitri, che a volte erano loro stessi un po’ seccati nel sanzionare gli allenatori».
Gli hanno fatto eco tra gli altri Marc Barbier, allenatore di Hugo Gaston, Gilles Cervara, coach di Daniil Medvedev, tutti impazienti di poter svolgere in modo più agevole – e autorevole – il ruolo che ricoprono. Una tesi ineccepibile, e opportunisticamente anche condivisibile. Tra le righe si legge il significato nascosto che la norma consegna loro: il riconoscimento ufficiale del ruolo di allenatore da parte dell’ATP. Non che prima mancasse, s’intende, ma ora è chiaro che la dimensione professionale del coach è improvvisamente lievitata e apre nuove strade alle capacità da rinvenire nel proprio allenatore: non più solo evoluzione professionale del ‘maestro’, ma motivatore e stratega, infine autorizzato a fare bella mostra delle proprie capacità.
Dalle panchine al campo, la sostanza si è mostrata poco differente. Stefanos Tsitsipas, uno dei recordman di warning per coaching, è stato l’icona mediatica di questa campagna: «Il coaching dalle tribune avrebbe dovuto essere concesso centinaia di anni fa. È sempre esistito, per tutti i giocatori. Per me non cambia nulla. Almeno però ora non verrò più multato per questo». Insieme a lui molti altri, il numero 1 al mondo Medvedev («in generale, mi va bene, non sono mai stato contrario»), il ‘Peque’Schwartzman («mi sembra assurdo che non sia permesso»), il nostro Lorenzo Musetti («È una delle mie regole preferite»), persino Nole si è espresso, seppure in modo piuttosto cauto, in termini favorevoli («Capisco entrambi gli argomenti (…) ma comprendo la decisione di legalizzare il coaching a certe condizioni»).
Eppure, come spesso accade, sono le voci fuori dal coro a essere più interessanti per formulare riflessioni profonde sul senso di cambiamento che questo provvedimento comporta. A partire dal padrone di casa, il numero uno a stelle e strisce Taylor Fritz: «È una regola stupida perchè il tennis è uno sport individuale, non dovremmo snaturarlo. È uno sport tanto fisico quanto mentale. Trovo ridicolo che uno possa permettersi di essere mentalmente assente». Eccolo il vero snodo, la sostanza della riforma, un’inversione copernicana che stravolge l’essenza stessa del tennis. Lo sport che ha inventato il diavolo, secondo il nostro Adriano Panatta, si consuma proprio in quella angosciante solitudine, carattere identitario ed esclusivo del tennis.
Nessuno sport individuale di lunga durata era così regolamentato; persino il golf, affine per lotta interiore, ammette la condivisione di opinioni con il caddy che rende meno gravose le scelte sui green. Nel tennis invece la battaglia con l’avversario è solo una piccola parte della sfida: il rivale più pericoloso è spesso dalla stessa parte della rete. Una lotta continua con montagne russe emotive fatte di paure, ansie, adrenalina, gioie e delusioni che la mente elabora in modo ininterrotto ed estenuante per le lunghe ore di gioco. Persino chi al tavolo verde contro questi demoni ha perso troppe mani, e forse una carriera, ha però reso onore al gioco:
«Stiamo perdendo una delle specificità del nostro sport. Il giocatore deve trovare le soluzioni da solo, questo è il bello del tennis».
Parole importanti, decisive, perché pronunciate proprio dal bad boy Nick Kyrgios. Ragazzo estroverso, allergico alle regole e all’etichetta, ma evidentemente essere pensante raffinato, molto più di quanto non dimostri in campo. La specificità, cioè ciò che rende unico qualcosa. Ciò che rende unico il tennis è la solitudine. La stessa condizione che atterrisce e ha fatto sprofondare nello sconforto molti giocatori e molte giocatrici negli anni.
Una condizione dura, inevitabilmente connessa però a questo sport; elemento davvero determinante tra successo e sconfitta, molto più dell’abilità tecnica nell’esecuzione dei colpi. Uno come Rafael Nadal, che probabilmente dal punto di vista mentale è uno degli sportivi più grandi di sempre, si è detto contrario, ma sono state le parole del suo coach, il silenzioso ex numero 1 al mondo Carlos Moya, ad aver tuonato il pensiero dello staff del maiorchino: «Non sono molto favorevole al coaching. Ciò che rende il tennis uno sport speciale è che è l’unico sport in cui sei solo contro un altro senza l’aiuto di nessuno. Nel resto degli sport hai qualche tipo di “aiuto”, sia con la presenza del tuo allenatore, attraverso la radio nei motori, con il caddy con il golf, qualunque cosa». Per concludere:
«Lascerei tutto così com’è, il bello del tennis è la battaglia in solitaria con il tuo rivale, che mostra quanto sei intelligente e quanto è bravo ogni singolo individuo».
Il fatto che le indicazioni sul campo siano sempre arrivate, in un modo o nell’altro, non toglie l’elemento solitario del gioco. Un conto è cercare disperatamente un aiuto dalle tribune, sperando che arrivi qualcosa in grado di cambiare l’inerzia del gioco, di trovare una tattica efficace. Un altro è sapere di poterlo trovare in ogni momento. Il rifugio dell’angoscia in una parola, in un gesto, sempre libero e concesso, sgrava di responsabilità il giocatore. Una sottigliezza emotiva che però fa tutta la differenza del mondo.
E consentiteci anche una nota di colore. In uno sport talvolta monotono e di difficile fruizione televisiva, la ricerca di metodi e soluzioni per far pervenire ai giocatori le indicazioni conferiva un tono pittoresco alle dinamiche di campo. Gesti inconsueti, ma preparati, quasi come consumati giocatori di briscola per suggerire nuove soluzioni. Indicazioni gettate al vento in lingue esotiche mascherate da incitamenti, da sempre consentiti. E che dire poi dei sospetti legati ai toilette break e le presunte comunicazioni via telefono che si sarebbero consumate durante il momento intimo della minzione.
Tutti piccoli casi, sterili polemiche, titoli secondari che hanno accompagnato per anni le lunghe stagioni di uno sport che segue il sole, si riempie di numeri, ma difficilmente lascia sfuggire aneddoti e storie.
A Flushing Meadows le palline corrono veloci. Quelle delle donne persino di più, visto che le sono state riservate dagli organizzatori palle da campi in terra e non da cemento, inadatte ma più rapide, per velocizzare il gioco femminile, tra le proteste veementi delle influenti Badosa e Świątek. Corrono verso il futuro, verso il tennis che verrà, che si annuncia forse più imparziale, ma certamente più spoglio di quella carica di dramma interiore che ha segnato il gioco e ci ha fatto appassionare a questa terribile corrida di emozioni.
Chissà, forse così i circuiti, maschile e femminile, riusciranno a trovare finalmente gli eredi dei Big 3 in fase di evidente dismissione e di Serenona, che proprio a New York metterà il punto finale alla sua scintillante carriera. Il rischio concreto è che, in quel momento, si tratterà di un altro sport: non solo di una modifica regolamentare ma di un cambiamento della filosofia, dell’essenza stessa del tennis.