In una città fantasma, I Mineros lottano per non sparire.
Il sole, alto nel cielo, brucia gli occhi socchiusi. La sabbia, spazzata dal vento notturno, lascia il posto a una terra dura e brulla, spaccata in superficie una siccità che qui assume forme e colori quasi marziani. Nella zona Nord del Chile, protetto dalla Cordigliera delle Ande, per 105 mila chilometri quadrati si estende il luogo più arido del pianeta: il deserto di Atacama.
Questa zona dimenticata da Dio è però tanto inospitale in superficie quanto ricca e prospera nelle viscere. Nelle profondità della terra, ricchi giacimenti di rame e la più grande riserva di nitrato di sodio al mondo hanno reso la Regione oggetto delle brame dei Paesi che vi si affacciano, con la conseguenza di un sanguinoso conflitto armato: la Guerra del Pacifico. Tra il 1879 e il 1884 lo scontro coinvolse Bolivia, Perù e il Chile stesso per il possesso, di fatto, dei giacimenti.
Affermata la sovranità del Chile nel deserto di Atacama, la gestione dello sfruttamento minerario è diventata la priorità ricorrente dei governi locali che tuttavia hanno spesso demandato le concessioni di sfruttamento ad attrezzate imprese di estrazione nordamericana, depauperando il Paese dai benefici collettivi – potenzialmente esponenziali – delle risorse naturali, ma ingrassando i propri conti delle generose mazzette elargite.
E così, a metà del secolo scorso, la massiva estrazione del rame nella Mina Vieja, dalle parti di Postrellos, ben presto finì per esaurire la materia prima: fu un autentico dramma per la popolazione, del tutto dipendente dal giacimento, che temette non solo per le proprie finanze ma per la vita stessa. Si rivelò pertanto decisiva la scoperta di un giacimento poco distante, nel 1956, che determinò un contingente flusso migratorio di minatori in questa zona. Era arrivato il momento di fondare la città che avrebbe dato loro una nuova speranza: El Salvador, non a caso.
Poco dopo la sua instaurazione, il regime autoritario di Augusto Pinochet intuì i malumori crescenti di questi centri, abitati quasi esclusivamente da minatori: essi erano costretti durante il giorno a vivere nelle viscere della terra, e durante la notte a riposare in una città senza attrazioni né svaghi. Così, per evitare moti di protesta drammatici per un Paese che proprio dallo sfruttamento di quelle miniere riceveva i maggiori introiti, costituì con fondi governativi due società di calcio.
Il Cobreloa, nel 1978, squadra della città di Calama nella regione di Antofagasta e nel 1979 a El Salvador, nella regione di Atacama, il Cobresal. Il calcio, fino a quel momento appannaggio quasi esclusivo della capitale Santiago, rappresentava così per i lavoratori una valvola di sfogo fondamentale in una città altrimenti fantasma, e per il governo il più classico instrumentum regni per smorzare o meglio prevenire eventuali proteste sociali.
Tornando al “campo”, il nome della squadra di El Salvador tradisce in modo evidente le origini legate alla sua essenza: cobre è infatti il termine castigliano per identificare il rame, e sal richiama il nitrato di sodio estratto nella regione – chiamato appunto anche sale di sodio –, oltre che l’abbreviazione della città stessa. Gli esordi del Cobresal furono da subito piuttosto felici: in poco tempo conquistò la massima serie del campionato cileno, affermandosi come una consolidata realtà del calcio professionistico nazionale.
Nonostante le rose allestite negli anni dai Mineros non fossero all’altezza delle squadre capitoline, gli Albinaranjas, dati sempre per spacciati anzitempo, riuscirono per diverse stagioni a strappare con le unghie e con i denti salvezze improbabili agli ultimi respiri del campionato, così da guadagnarsi il soprannome di Inmortales.
Nella vita da comprimario del Cobresal, contrassegnata più da sacrifici e sofferenze che da gioie, la stagione mitica fu quella del 1987: allora, trascinata da un idolo non solo dei Mineros ma di tutto il popolo cileno, Iván Zamorano, la squadra conquistò la prima e tuttora unica Coppa Nazionale cilena, lanciando Bam Bam nel calcio europeo.
Ivan Zamorano, con la maglia del Cobre all’inizio della sua carriera. Il felling con il gol non è mai mancato.
Ma il Cobre, proprio come un minatore che incide inesorabilmente la roccia, è squadra destinata a distinguersi con la lotta e il sacrifico. Ed è così che la prima partecipazione alla Copa Libertadores nel 1986 – rimasta anche l’unica fino all’edizione del 2016 – fu una campagna storica, non tanto per il risultato (eliminazione piuttosto prevedibile al primo turno), ma perché gli Inmortales furono eliminati senza mai perdere un incontro, conquistando così il curioso record di imbattibilità nella massima competizione sudamericana, interrotta solo 30 anni dopo dal Corinthians.
La qualificazione alla Coppa più prestigiosa d’America, quell’anno, era stata guidata in campo da Franklin Lobos: una vita da mediano in campo e un’esistenza da minatore fuori. Sì perché dopo una buona carriera, spesa quasi interamente giocando per formazioni della zona Nord del Chile, e condita da qualche presenza nella Seleccion Olimpica cilena, il destino di Lobos non fu differente da quello di altri uomini come lui, vissuti nelle viscere del deserto.
«La gente che è qui, viene qui con un solo scopo. Lavorare. Nessuno si trasferisce semplicemente a El Salvador. Vengono qui per lavorare nelle miniere o per giocare a calcio. Niente meno, niente più».
(Juan Silva Riveros, Cobresal General Manager)
Nel 1995, anno del suo ritiro dal calcio giocato, Franklin venne assunto come trasportatore nella Mina San José. Nessuno, nemmeno Lobos, avrebbe immaginato che quindici anni dopo le strutture portanti della miniera avrebbero ceduto provocando il crollo del sito e intrappolando tra le macerie 33 lavoratori, tra cui Franklin.
La vicenda fece trattenere il fiato al Paese intero: le operazioni di soccorso durarono addirittura quattro mesi, durante i quali i 33 operai lottarono con tutte le proprie forze per rimanere aggrappati alla vita. Alla fine, il 14 Ottobre del 2010, Franklin e gli altri minatori tornarono finalmente a essere bruciati dal sole di Atacama, mai così gradito.
I 33 si sono riuniti in occasione di uno spot commerciale patrocinato dal Banco de Chile, per supportare la Roja prima dei mondiali brasiliani del 2014. «No nos importa la muerte! Porquè a la muerte la hemos vencido antes»
A volte il destino però è rivelatore. Nel Clausura 2015 infatti il Cobre, guidato in panchina dalla saggia mano dell’argentino Dalcio Giovagnoli, conquistail suo unico titolo nazionale giocando un torneo memorabile. La squadra, a malapena allestita per assicurarsi la salvezza, interpreta magistralmente un campionato combattuto fino all’ultima giornata, nonostante il dramma di un’alluvione biblica.
Il 25 marzo infatti, a poche partite dal termine della stagione, il fiume Copiapò (rimasto completamente arido per 17 anni) non riesce a drenare l’eccezionale portata d’acqua piovuta dal cielo e riversa il suo corso di fango su El Salvador. Quel giorno muoiono 26 persone e molte altre rimangono senza una casa, compreso lo stesso Cobresal. Lo stadio della città è compromesso, l’impianto idraulico inservibile, l’erba sradicata. Per continuare a coltivare i sogni di gloria, la squadra è costretta ad emigrare per un ritiro forzato di 34 giorni a Santiago.
Durante questo mese eterno, mentre il club è ancora aggrappato alla vetta della classifica, centinaia di volontari ripristinano l’Estadio del Cobre per l’ultima partita stagionale; ma soprattutto, per la conquista del punto necessario alla vittoria del titolo. Ah, il punto da conquistare è il 33° e sapete come vanno queste cose, soprattutto in Sudamerica: 33 sono i Mineros, e quello ormai è un numero mistico per la gente di Atacama. Mistica letteralmente, non retorica.
«Dalcio ci ha sempre detto che dovevamo giocare per tutte le persone che si rovinano i polmoni in miniera pur di poter pagare il biglietto e vederci giocare, persone che si sacrificano e soffrono per assicurare ai figli un futuro migliore.
Ma dopo l’alluvione ci siamo convinti che avremmo dovuto farlo non solo per i minatori, ma per tutti. Per tutti quelli che avevano perso tutto. Abbiamo provato sulla nostra pelle cosa voglia dire e volevamo dare una gioia a queste persone. Una prova che c’è sempre speranza».
(Johan Fuentes, capitano Cobresal 2015)
Oggi El Salvador è una questione politica aperta e complessa. Nel 2005 la miniera riferimento dell’intera zona è stata definitivamente chiusa in quanto il sito ha esaurito il suo giacimento. Durante il secondo mandato la presidente Michelle Bachelet ha assicurato le attività e la prosperità della città fino al 2021, impegnando il governo in una serie di iniziative e interventi di sostentamento per la città.
Ormai però El Salvador è una cittadina senza futuro, ridotta a meno della metà dei suoi abitanti originari: ospita solo 8 mila persone, e non è difficile credere che alla fine di quest’anno l’esodo dal deserto di Atacama sarà pressoché totale, alla ricerca di nuovi impieghi nei siti minerari ancora attivi o addirittura in altre zone del paese andino.
«Come ogni storia, anche questa finirà. Quando muoiono le miniere, qui tutto quanto muore con loro. La città morirà. La squadra morirà».
(Cristian Cortés Avendaño, Cobresal Team Media and Business Manager)
In tutto questo anche il Cobresal sta vivendo una situazione del tutto straordinaria. L’Estadio del Cobre, in cui i Mineros disputano le partite interne, è una vera e propria cattedrale nel deserto: con un’insensata capacità di oltre 20.000 unità potrebbe ospitare quasi tre El Salvador sui suoi spalti; come se non bastasse fa tristemente segnare, con 850 persone, la media di spettatori più bassa di tutta la massima serie cilena, e tra le più basse di tutti i campionati professionistici (e non solo) del Paese.
Gli Inmortales però, fedeli al proprio soprannome, stanno tentando di opporre resistenza al destino: hanno infatti intavolato trattative per fusioni societarie con altre realtà dislocate in zone diverse del Paese, certamente più vive di El Salvador. Alla fine probabilmente le maglie bianche come il sale e arancioni come il rame continueranno a correre su qualche prato cileno, ma sarà tutto diverso. E la leggenda degli Immortali, che lottano eroicamente nella terra di Atacama, rimarrà un lontano miraggio nel deserto.