Graziano Berti
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Graziano Berti
24 Ottobre 2017
Rugby, Francia e territorio
Genesi e apogeo del rugby francese. Il perché di uno sport, il perché di un popolo.
“Non si aspetterà che io le dica che in questa occasione il giocatore è stato più furbo di me che, d’altra parte, non avevo la moviola e, quindi, non ho potuto vedere che era stato commesso il fallo…”: è a La Domenica sportiva del 20 febbraio 1972 che, senza l’utilizzo di forzati acronimi né anglismi ricercati ad ogni costo, Concetto Lo Bello, commentando un rigore non concesso durante Milan – Juve, disse queste parole.
Fu, senza dubbio alcuno, il primo arbitro non solo ad intervenire in una trasmissione televisiva, ma anche ad ammettere un proprio errore. È qui che si coglie lo straordinario anacronismo di una persona come Lo Bello: straordinario perché premonitore, quasi antesignano. Ma è un calcio ben diverso, quello del 1972: è il calcio di Shilton, di Fiore, di Vailati… è il calcio di Gianni Rivera… e come molto spesso accade nella storia, i personaggi delle epoche passate sono più moderni di quelli contemporanei.
Ben prima dell’inaspettato intervento alla moviola di Carlo Sassi ed Heron Vitaletti, Concetto Lo Bello, da alcuni scherzosamente – ma non troppo – ribattezzato “il tiranno di Siracusa”, aveva in più occasioni fatto parlare di sé: a cominciare da quel Caltagirone – Trapani del Campionato Interregionale 1948/1949 in cui un pallone crossato in aria, piombatogli sulla testa, finisce in rete: goal valido.
Si discute oggi (come se fosse un argomento attuale) di stadi senza barriere alla stregua di quanto si vede nei campionati inglesi, senza ricordarsi che, nel campionato di serie A 1957/1958, Lo Bello, le barriere, le abatteva da sé: come quando, in un infuocato Napoli – Juve (4-3) tenutasi all’allora stadio del Vomero, acconsentì (infischiandosene del regolamento) che l’incontro si tenesse nonostante a bordo campo vi fossero circa 6000 spettatori… il che dovrebbe lasciar pensare circa l’involuzione che il tifoso italiano medio (e, con esso, tutto il calcio) ha subito negli ultimi sessant’anni.
È un arbitraggio, quello di Lo Bello, che nel calcio moderno non potrebbe mai avere cittadinanza – anche se, ad onor del vero, è tutto figlio suo. L’arbitraggio odierno è un suo parto, una sua creazione. Così come la paternità di un figlio la si può notare dai tratti somatici del volto, così l’arbitro di oggi affonda il suo retaggio nelle innovazioni di quell’omone siciliano dai modi autoritari ma allo stesso tempo gentili: ancora una volta, l’ingegno italico ha dato il via a un qualcosa di nuovo. In un calcio fermo ad arbitri abituati a dirigere dal cerchio di centro campo, bisognosi più di un seggiolone da arbitro di pallavolo o di tennis che non di un paio di scarpe da calcio, Lo Bello per primo introdusse la concezione dell’arbitro atleta preparato non più solo dal punto di vista tecnico e regolamentare ma anche e soprattutto atletico.
Un’eredità, quella degli arbitri contemporanei, che si ravvisa anche al di fuori del terreno di gioco; a cominciare dalla preparazione psicologica e dall’approccio mentale alla gara, per finire con ciò che all’osservatore per così dire civile (per distinguerlo dall’osservatore arbitrale propriamente detto) sfugge. Basti pensare all’ingresso in campo delle squadre e della terna quale si può vedere nelle partite di Serie A o di Bundesliga e Premier League: la camminata – anziché la corsa – verso il cerchio di centro campo, fu una invenzione, per così dire, tutta lobelliana.
Una personalità tanto carismatica quanto discussa quella dell’arbitro siracusano, che non mancherà di manifestare i propri risvolti anche – e soprattutto – al di fuori del terreno di gioco. Il pensiero potrebbe immediatamente correre a quello Spal-Napoli della 19^ giornata di ritorno del campionato di serie A 1966-1967 (1-4), in cui concesse tre calci di rigore al Napoli suscitando l’ira dell’allora ministro delle finanze Luigi Preti, tifoso della Spal e socialdemocratico, che, per tutta risposta, gli mandò a casa gli ispettori fiscali; o, ancora, a quando rifiutò i cinque milioni di lire che Totò Villardo, presidente del Bari, gli offrì per un pareggio contro il Cosenza.
Episodi sintomatici di una spiccata e assoluta integrità morale che, però, non rendono ragione di quel suo atteggiamento talvolta tacciato di protagonismo e autoritarismo. Ad onor del vero, questo comportava alcuni aspetti assai comici e che, oggi, susciterebbero di sicuro pubblico scandalo. Sarebbe impensabile se non surreale vedere Rizzoli, Brych o Skomina inseguire a suon di calci uno spettatore per consegnarlo alle forze dell’ordine come, invece, fece Lo Bello in Roma – Napoli (1-0) del 1972.
Un uomo di contrasti, capace di allontanare Nereo Rocco reo di averlo applaudito in un Lazio Milan (2-1) del 1973, applaudendolo di rimando; una personalità dai chiaroscuri accentuati come in un quadro di Vermeer o di Caravaggio, per certi versi antinomici ma sempre dotati di una coerenza di fondo. Arbitro non solo in campo ma, almeno nei valori di imparzialità e correttezza, anche al di fuori di esso, seppe mutuare gli insegnamenti che il terreno di gioco e il lato umano del calcio gli avevano trasmesso anche nella vita di prestato alla politica per fini sportivi, come lui stesso amava definirsi.
Un uomo che, per il suo carisma e sintomatico mistero, seppe suscitare le curiosità e le fantasie del mondo della televisione; quest’ultima, in più occasioni, trasse dalla sua caratteristica inflessibilità e rettitudine l’ispirazione per tratteggiarne una caricatura esasperata. Concetto Lo Bello riuscì, per certi versi, a umanizzare una figura, quella del direttore di gara, alla quale prima di allora l’opinione pubblica non si interessava se non in quei novanta minuti in cui diventava arbitro in terra del bene e del male. Ciò che incuriosì Lando Buzzanca, quando nel 1974 interpretò Carmelo Lo Cascio di Acireale (palese parodia di Lo Bello) nel film “L‘arbitro” fu, appunto
“raccontare cosa facessero questi uomini nei restanti giorni della settimana, al di fuori quindi di quell’ora e mezza di popolarità, quando passano da personaggi odiati e fischiati a personaggi comuni”.
Tuttavia Lo Bello un uomo comune non lo era di certo. La popolarità, bisogna ammetterlo, se l’andava cercando, anche se spesso era lei che lo inseguiva col rischio di creare – si fa per dire – delle vere e proprie crisi internazionali in un’epoca che di certo non ne aveva ulteriore bisogno. È il caso dei Mondiali del 1966 (vinti poi dall’Inghilterra di Bobby Charlton) quando venne designato per dirigere la semifinale di Liverpool tra Germania Ovest e URSS (2-1) e in cui l’espulsione di Čislenko suscitò le ire dei sovietici al limite dell’incidente diplomatico.
Ma, anche qui, la serenità di Don Concetto è disarmante, una serenità che solo un uomo libero può avere. A nulla valse lo scandalo che generò quando, sei anni dopo l’episodio di Liverpool, eletto deputato nelle file della Democrazia Cristiana (con cui conidivideva sicuramente gli ideali ma non di certo i modi), decise di non appendere il fischietto al chiodo come chiunque, invece, avrebbe fatto. Chiunque, appunto, ma non Lo Bello, che alle critiche rivoltegli dai suoi detrattori, politici e non, rispose nell’unico modo con cui avrebbe potuto rispondere:
“continuo perché sono un uomo libero“.
Concetto Lo Bello non poteva non essere un arbitro, così come non poteva non essere un deputato. Libero nell’animo, refrattario alle lusinghe che tanti altri prima – e dopo – di lui avevano sedotto, aveva però nel cuore la simpatia nel senso greco del termine, la capacità, cioè, di capire e condividere la “sofferenza” altrui. All’occorrenza ferreo e risoluto nel portamento in campo così come con le squadre, era al contempo dotato di un’indole gentile che non mancava di manifestarsi anche nei confronti dei calciatori. Non era un uomo di grandi pretese, Don Concetto.
Certo, glorificato e messo alla berlina per più di vent’anni di Serie A non si può certo dire che fosse una persona che temeva la popolarità…ma era una popolarità che viveva nel riserbo e nella discrezione: «Gli bastava – come disse Gianni Brera – la stima degli onesti». Concetto Lo Bello racchiudeva in sé questa duplice caratteristica che ha tanto il sapore dei padri di un tempo: severo e adamantino ma, allo stesso tempo, comprensivo. Una commistione di peculiarità che sintetizzano la figura dell’arbitro e, mutatis mutandis, di Lo Bello stesso: per usare anche qui le parole di Gianni Brera – dette, all’epoca, forse con intento velatamente derisorio – un po’ magistrato e un po’ sacerdote.