Quanto dura un secondo? Alle volte, una vita intera. E in quel secondo c’è tutto, tranne la fine. C’è la pioggia, quella che insiste sul cielo plumbeo e si rovescia sulle strade di Dublino, spazzando via quella pesantezza dei peccati che si è fatta afa e che i preti cattolici conoscono così bene. La pioggia che tanta gente aspetta perchè non vuole piangere da sola, che un giovane irlandese sbarbato e brufoloso tenta di schernire inzuppandosi mentre corre verso la palestra, dopo aver finito il lavoro come aspirante idraulico nel quartiere di periferia di Crumlin dove dalle finestre delle case popolari si sentono litigate, telegiornali che nessuno ascolta, odore di uova e pancetta e porte che sbattono.
C’è il pub, quello che alle due di notte odora di malto e candeggina stantia, dove il legno si è consumato sui dolori e le paure e le speranze degli avventori, dove la televisione manda in muto le corse dei cavalli al Paddocks di Sandyford mentre l’ultimo cliente preferisce guardare il fusto di birra che goccia piuttosto che finire il boccale, affrontare la pioggia e rientrare a casa.
E c’è una palestra, fredda e vecchia come l’Irlanda, dove Phil Sutcliffe riduce le differenze tra cattolici e protestanti, tra ulsteriani e repubblicani, tra anglofoni e gaelici all’equità democratica del pugilato, dove le differenze si annullano nella fatica, come la pioggia che fuori sfuma il confine tra le verdi campagne e i grigi palazzoni di Crumlin. E il giovane sbarbatello irlandese è lì, in anticipo, con la logora borsa di tela, le sue bende, i suoi guantoni e in cuore un desiderio di fuga da quella umile quotidianità che, nella sua rispettabilità, non gli appartiene.
Conor McGregor sull’ottagono della palestra di Crumlin, in tempi di gloria
Siete mai entrati in una palestra di pugilato? Non quelle belle sale in ampi centri sportivi che godono del benessere, ma nei sottoscala, nei magazzini in disuso, nelle cantine, negli ex mattatoi, in quei posti dove c’è solo una insegna logora a delineare quel labile confine tra i dolori fuori e i dolori dentro, tra la solitudine e la paralisi. Avete mai attraversato quelle porte per sentire l’inconfondibile l’odore di sudore misto a disinfettante, e in sottofondo il rumore della corda che batte ritmicamente per dare ritmo ad una vita che non ne ha? Quei rumori che sono il fondale di un silenzio più profondo?
Come i sacchi avvolti dal nastro adesivo che ciondolano sotto i colpi, i pesi scrostati da un principio di ruggine che battono a terra, il freddo, i dolori, i crampi e il pensiero al lavoro che domani ti aspetta o che non ti aspetta perché sei disoccupato e vivi degli assegni sociali.
Le vesciche sulle mani, le bende rosate da piccole macchie di sangue, i muri di mattoni rossi coperti dalle foto di Barry McGuigan, Michael Carruth, Jimmy McLarnin, Muhammad Alì, George Foreman, Jake La Motta e l’immancabile tricolore irlandese. E poi i colpi dati, quelli ricevuti, il ronzio della testa chiusa dentro al caschetto dopo un gancio, e quel continuo desiderio di fuga che sostiene il giovane irlandese a colpire ancora e ancora contro la paralisi. E dopo lo sfogo il ritorno sulla via di casa, dove la luce accesa lo accoglie ricordandogli che c’è chi crede nei suoi sogni ed è disposto ad aspettarlo finché non li abbia raggiunti.
Come sua madre, che si massaggia i reni stanchi mentre il figlio finisce di mangiare e le racconta del suo prossimo incontro senza rendersi conto che lei preferirebbe non pensare al rischio di vederlo gonfio e tumefatto. O come Dee, la sua ragazza, conosciuta per caso in un pub qualsiasi durante una serata qualsiasi, senza probabilmente realizzare che non sarebbe stata una compagna qualsiasi ma la sua nuova spina dorsale. O sua sorella minore con la quale come tutti i fratelli maggiori gioca, non solo per lei ma soprattutto per lui, per ricordarsi anche per chi sta facendo tutti quei sacrifici, per chi sta sputando tutto quel sangue, tutta quella rabbia, tutto quel sudore, tutte quelle lacrime.
Dee, Conor e l’Irlanda
E si trascina così, lottando sul quadrato nei fine settimana sperando di non farsi troppo male perché a lavoro chi si presenta con un occhio pesto non fa una bella figura. Ma il lavoro è un mezzo, non il fine. Per il fine ha bisogno di altri mezzi e così due giorni a settimana invece di concentrarsi sulla sua guardia da mancino southpaw, sull’uso della long right hand, sul principio di switch and hit a cui è tanto affezionato Sutcfliffe, decide di studiare la kickboxing e una nuova disciplina, che come tutte le cose nuove non è che riproposizione di cose vecchie, chiamata grappling.
E impara a cadere, impara ad alzare il fulcro del baricentro dal bacino al diaframma, impara la transizione rapida tra posizioni di monta e di sottomissione e così ai lividi vanno aggiungendosi le lussazioni, le slogature, le abrasioni, nuove frustrazioni perché tecniche che prima sentivi tue adesso non rispondono più come vorresti. Maquella sete, quel fuoco che alimenta il suo desiderio, il suo sogno, la sua visione, non si disseta mai, non accetta di dissetarsi con qualche sostanza che non sia l’acqua di cui lui ha bisogno.
Poi succede che gli eventi prendono il sopravvento e durante l’ennesimo giorno di pioggia si trasferisce con la famiglia a Lacan, West Dublin, dove viene accolto alla Straight Blast Gym di John Kavanagh, uno di quegli uomini che se fosse nato nel XIX secolo probabilmente avrebbe trascorso la sua vita con pala e piccone a cercare l’oro del Klondike.
Il pioniere lo ha fatto lo stesso, solo nelle arti marziali, quale primo irlandese ad aver portato il Brazilian Jujitsu in terra di pugilato, Guinness e rugby. Ha allenato centinaia di persone, ognuna diversa dall’altra, ognuna con le sue vette e i suoi abissi, ma quel giovane irlandese così curioso che ogni giorno arriva in anticipo per consumarsi le nocche sul sacco gli sembra che non stia lottando contro qualcuno o per qualcuno, combatte per la sopravvivenza, combatte per un sentimento che dev’essere più forte del dolore che prova. E allora decide che si può investire su di lui, che da una forma grezza si possa estrarre marmo lavorato, non freddo ma caldo come un ferro ribattuto all’incudine.
Gli insegna così che un combattimento è come una partita a scacchi, dove non serve essere cinque mosse avanti ma ne basta una: quello che conta è che sia quella giusta. Gli ricorda che l’avversario è un libro da leggere, non un sacco inerte. Lo pungola per imparare a sfruttare l’accelerazione variabile tra distanze diverse, sul mezzo-tempo, ad attaccare da angoli interni quando l’avversario è esterno e da angoli esterni quando l’avversario è interno. E così lo sbarbatello irlandese impara a sfruttare la sua peculiare irish stance, ad apprezzare le sottigliezze di quello che i maestri d’arme italiani del Rinascimento chiamavano il gioco stretto, a visualizzare il proprio avversario colpo su colpo, presa su presa, spazio su spazio, cadenza su cadenza, ritmo su ritmo.
Slow is smooth, smooth is fast. Fino al momento di diventare un professionista, fino al momento di assaporare la paura prima di un combattimento importante e il brivido del successo, in un estenuante succedersi di round dentro e fuori dal quadrato, contro avversari con i guantini e contro un avversario come la vita che non ne ha perché preferisce la vecchia arte della bare nuckle boxing, capace di farti sanguinare non il corpo ma l’animo, di ricordarti che puoi essere Re del mondo ma in un decimo di secondo finire di nuovo con il culo per terra.
Il profilo di un Re del combattimento
E l’irlandese lo sa, mentre si avvolge nella sua bandiera tricolore umida di lacrime e sudore, sa che il combattente davanti a lui non è un nemico, è solo un competitore, un altro ragazzo che come lui forse è guidato più da un sogno che da altre motivazioni; il vero nemico è la paralisi da cui sta cercando la fuga. Una fuga che sembra arrivare quando un imprenditore pelato e grasso come l’avidità che lo contraddistingue ne nota il valore e decide di dargli quell’unica opportunità che darebbe senso a dieci anni di sacrifici.
Dieci anni improvvisamente condensati nel rumore ovattato di una folla esaltata che rimbomba negli spogliatoi, dieci anni che si consolidano nei brevi passi che separano il backstage dall’ottagono, dieci anni che lasciano il posto ad un combattente che fa della propria nazionalità il suo punto di forza, che ormai si sente maturo abbastanza per portare con orgoglio la sua barba rossiccia, dieci anni che evaporano come neve al sole al suo debutto in UFC.
“We’re not just here to take part. We’re here to take over.”
La prima vittoria lo lascia avvolto dalle urla estasiate della folla che ne chiede ancora e ancora e ancora. E allora capisce. Ormai non è più questione di fuggire da Crumlin, non è mai stato Crumlin il problema; la fuga era per sé stesso, per andare oltre la sua paralisi e non quella del mondo in cui ha vissuto. Perché fuggire è stato come conoscersi e conoscere sé stessi è alla base della morale, se non la morale stessa. Ma in quell’ottagono è tutto diverso, non è il mondo scintillante che sembra da fuori, non è la nobile arte che gli insegnava Phil Sutcliffe anni prima: è un universo fatto di pubblicità, di spettacolo.
Allora per vincere non hai più bisogno soltanto delle tue abilità, non ti serve più solo saper fare a pugni ma devi conquistare la folla, i loro umori, i loro bassi desideri, il voyeurismo di alcuni di loro nei confronti della violenza e godere del boato che cresce e si solleva come una tempesta, come se tu fossi Dio. E cosa piace più di un vincente che impone la sua abilità di vincere? Che sfotte, che insulta, che provoca, che ostenta la differenza tra la sua vita di prima fatta di assegni sociali e lavoro usurante e la vita di adesso costellata di soldi, di macchine, di auto, di ville, di sigari e di completi con il panciotto principe di Galles.
“I’m going to the stars and then past them.”
Eppure quando torna a Dublino sotto al braccio c’è sempre lei, Dee, la sua spina dorsale, il suo integratore, il baricentro emozionale. Veste casual e indossa sempre quel logoro irish hat di suo nonno che dice ricordagli l’Irlanda profonda da cui proviene, perché nel profondo sa che per molti anni a venire dovrà camminare sulla merda evitando di affondarci dentro. Sapete quale effetto fa la sbornia dell’adulazione, della vittoria, del sentimento di invincibilità? Potete immaginare il calore dei riflettori, l’occhio della telecamera, centinaia di persone che urlano il tuo nome, che si vestono come te, che ti seguono in ogni aspetto della tua vita perché divenuta una moderna estetica del niente?
No, non possiamo realmente capirlo. È troppo rumore per chi non ha mai provato quella scarica di adrenalina nel momento in cui l’avversario finisce al tappeto e dopo l’attimo di silenzio il fragore esplode come una carica di dinamite. Troppo rumore se non hai sentito la vista annebbiata, la testa che scoppia, il cuore che sembra ti debba esplodere, gli occhi spalancati per la tensione e la paura di quello che potrebbe succedere nei prossimi tre minuti.
“I’m just trying to be myself. I’m not trying to be anyone else.”
L’unico modo allora di fronte al rumore fuori è il silenzio dentro. Lo spettacolo fuori e l’equilibrio dentro, i tatuaggi fuori e la pulizia dentro, piegare lo spettacolo commerciale ad una personale forma di lealtà nei confronti di te stesso e del tuo avversario. Perché in fondo, sotto la pioggia di Crumlin e di Lacan, nella palestra di Sutcliffe e di Kavanagh, quel giovane irlandese non ha mai voluto altro che poter essere sé stesso, potersi esprimere, affrontare uno dopo l’altro gli estenuanti round della propria vita, esattamente come chi gli è di fronte nell’ottagono.
Non è facile alzarsi ogni mattina sapendo che il proprio lavoro, alla fine dei conti, è un intimo rapporto con il dolore; un dolore che è presenza e assenza, fisico e mentale. Può darsi che possa essere catartico, oppure semplicemente dolore. Aspro, feroce, senza pietà, incapace di equità o di empatia, ciononostante dal sapore dolce, perché il dolore ha sempre esasperato il sentimento del sentirsi vivi.
Essere Conor McGregor
Quanto dura allora un secondo? Una vita intera. Oppure solo tredici secondi; quei tredici secondi in cui José Aldo finisce al tappeto con un gancio stretto da un angolo interno e improvvisamente quel giovane sbarbatello irlandese diventa il Campione UFC della Divisione Pesi Piuma. Tutto il suo mondo in quella manciata di secondi, tutto il suo perché in quei decimi di secondo, tutto il sudore, il sangue e lacrime disperse nella pioggia di Dublino insieme al dolore e alla speranza: tutto scomparso. Vi siete mai chiesti, infine, come nascono le leggende? Nascono da eventi veri che la memoria vuole trasfigurare, per non perderli.
Forse allora, tra venti o trent’anni, un adolescente di Belfast o di Galway entrerà in una di quelle vecchie palestre di pugilato dove accanto al tricolore ci sarà la foto sbiadita di un irlandese barbuto e tatuato, con una semplice firma: Notorius. E non ci sarà bisogno di chiedere al proprio allenatore chi fosse, perché quell’adolescente sbarbatello e brufoloso saprà di stare osservando quell’atleta di cui suo padre gli ha sempre parlato; saprà per certo che quella leggenda è Conor Anthony McGregor. Una leggenda che potrebbe nascere oggi e durare per sempre. Ma quanto tempo è per sempre? Alle volte, solo un secondo.