Storia della competizione sportiva più antica del mondo.
Nella notte italiana, a ridosso delle prime luci dell’alba, ha avuto inizio l’edizione numero 36 dell’America’s Cup, la competizione sportiva più antica del mondo. A contendersi la Vecchia Brocca, come venne soprannominato il trofeo ad inizio Novecento dal signore del tè Thomas Lipton, sono il Defender Team New Zealand e lo sfidante Luna Rossa, uscito vincitore dalla finale preliminare di Prada Cup contro Britannia dello skipper Ben Ainslie. La serie, per adesso 1-1, sarà al meglio delle 13 regate, quindi per poter coronare il sogno di diventare campioni occorrerà arrivare per primi a 7 vittorie.
Quando parliamo di Coppa America però non ci si può esimere dal porgere ascolto all’eco di battaglie centenarie. Uno scontro in cui il fair play non è di casa, che affonda le radici della sua epopea nell’epoca d’oro dei clipper: vascelli audaci, come il mitico Cutty Sark e il Thermopilae, o i due più piccoli Ariel e Taeping, che dal 1840 al 1890 solcarono indomiti i mari del mondo raggiungendo velocità fino ai venti nodi. Anni di transizione che videro il crepuscolo della navigazione commerciale a vela, con l’inesorabile avanzata delle prime imbarcazioni a vapore, e la conseguente nascita dello yachting moderno che ne conservò il sacro fuoco.
Anni di prime, grandi rivalità sulla stessa rotta. Anni di primi match race: duelli all’ultimo sangue dal sapore medievale tra un difensore e uno sfidante. Il 22 agosto 1851 questi vennero inquadrati per la prima volta nella cornice ufficiale della Coppa delle 100 Ghinee, ribattezzata America dal nome della goletta che prima delle altre tagliò il traguardo della celebre regata attorno all’isola di Wight. Come scrive Nicoletta Salvatori nel suo “Coppa America” edito da Felici Sport:
“È una sfida in cui i campioni, sia che difendano il trofeo sia che lo pretendano per sé, combattono in nome e per conto di circoli esclusivi che li sostengono. Come cavalieri in una giostra medievale hanno dunque dietro i loro lord, ma sono anche espressione delle nazioni la cui bandiera sventolano e degli interessi commerciali che li hanno messi in grado di combattere.”
Dinamiche antiche che caratterizzano ancora oggi i sodalizi in campo. Le barche su cui si regata, oggi come allora, sono strumenti tecnologicamente avanzati che rappresentano il top di gamma dell’industria del proprio tempo. Gli armatori, per la durata della campagna, possono contare sulla fedeltà di atleti che dedicano anima e corpo alla causa del Team. E poi ci sono i danari, tantissimi danari, che servono a saldare i conti delle tecnologie e dei materiali utilizzati oltre a retribuire i protagonisti coinvolti nell’impresa: dai membri dell’equipaggio a quelli dello shore Team, passando per gli avvocati e le spie. Sì, anche avvocati pronti ad appigliarsi al minimo cavillo del regolamento e uomini dediti allo spionaggio degli avversari. Come in ogni grande azienda che si rispetti.
La competizione da sempre è spietata e sconfina i bordi del campo di regata. Un unicum nel mondo della vela. L’immaginario legato alla gara, tra abbordaggi avventurosi e sfide estreme, quasi ci spinge verso lidi pirateschi ma è nell’humus nel quale si muovevano i grandi mercanti di tè, lane e spezie che vanno individuate le origini mitiche della Coppa. Il leitmotiv è ancora lo stesso: “Big guys, big toys”. Oggi come duecento anni fa.
La regata attorno all’isola di Wight del 1851, organizzata dall’élite aristocratica del Royal Yacht Squadron, sancì dunque il principio di una lunghissima storia sportiva. La regata di flotta era aperta a imbarcazioni appartenenti a Yatch Club di tutte le nazioni. Sulla linea di partenza però si presentarono quattordici yacht inglesi e un solo sfidante straniero, più precisamente d’oltreoceano: America. Armatore era il newyorkese John Cox Stevens, commodoro e fondatore del New York Yacht Club. Quella partecipazione rappresentava una ghiotta occasione per poter sfidare a viso aperto l’ex madrepatria nel campo della navigazione, di cui gli inglesi si sentivano padroni indiscussi.
I fuochi d’artificio preparati per celebrare l’orgoglio britannico risultarono fatalmente ironici quando vennero accesi dopo la vittoria americana, maturata con un vantaggio incolmabile di ventuno minuti. Uno smacco che brucia ancora oggi ai nipotini di Sua Maestà: la Vecchia Brocca d’argento da allora non è più tornata nel Regno. Stevens non ebbe neppure il tempo di godersi il trionfo, distrutto com’era dal dolore che gli procurò la morte del fratello e della moglie nei mesi successivi. Regalò la Brocca al suo circolo di appartenenza. Come scrive Salvatori:
“Il Deed of Gift, l’Atto di donazione è dell’8 luglio 1857 e oltre al trasferimento stabilì che la Coppa, da allora chiamata America, dovesse essere messa in palio qualora fossero arrivate al Club sfide da parte di analoghi club stranieri. Inoltre fissò le prime regole di quel confronto, in gran parte smaccatamente in favore del difensore. Non stupisce quindi che il Deed of Gift sia stato nel tempo oggetto di acerrime contese.”
Il concetto di fair play non è un valore condiviso in Coppa America. Non lo era allora e non lo è neppure oggi. Si fa di tutto per mettere in difficoltà l’avversario: il fine giustifica i mezzi. Ne sapeva qualcosa il barone inglese Ashbury. Fu lui, dopo la Coppa del 1870, a contestare con veemenza la parzialità delle regole del Deed of Gift. La polemica portò dei piccoli aggiustamenti ma ciò nonostante il Defender avrebbe continuato a dettar legge. Il persistere di questo squilibrio rischiò di far saltare tutto per aria dopo la nona edizione del 1895.
Il brivido dei duelli sul mare fu letteralmente eclissato dalle asprissime polemiche che imperversarono tra i partecipanti, tanto da minare gli stessi rapporti diplomatici tra Stati Uniti e Inghilterra. Lo sfidante, Valkirie III di Lord Dunraven, venne squalificato dopo aver danneggiato in una collisione il paterazzo di Defender, la barca a stelle e strisce in gara. Seguì una dura battaglia legale che finì con una richiesta di scuse, il rifiuto del lord irlandese di porgerle e infine la sua radiazione dal New York Yacht Club.
Proprio quando tutto sembrava presagire la fine, a rivitalizzare lo spirito della Coppa ci pensò un altro irlandese: Sir Thomas Lipton. Attraverso il Royal Ulster Yacht Club lanciò la sua sfida con Shamrock. Se oggi la Coppa America, catalizzando l’attenzione mediatica di tutto il pianeta, è una chance imperdibile per consolidare l’identità di un brand aziendale, lo si deve a lui. Fu proprio il signore del tè, eccezionale imprenditore, a introdurre per primo logiche di marketing nell’universo della Coppa. Partecipò a cinque edizioni: venti regate, solo due vittorie. Nulla poté contro Enterprise di Mike Vanderbilt, sua autentica bestia nera. Ma i prodotti Lipton spopolarono negli Stati Uniti: una consolazione non da poco.
Dopo di lui giunse il momento di un altro miliardario: Thomas Octave Murdoch Sopwith. Appassionato sfidante fino allo scoppio del secondo conflitto mondiale, è Sopwith il primo ad aprire una breccia nel mondo della tradizione in Coppa. L’uomo che fece fortuna con gli aeroplani da guerra riuscì a impiegare nella costruzione delle sue barche il meglio della tecnologia all’avanguardia dell’epoca. Fece disegnare Endeavour, creatura fantastica, dal progettista dei suoi aerei.
Un precursore ante litteram del fenomeno in atto sotto i nostri occhi, che vede i Team di America’s Cup rivolgersi a realtà come Airbus per sviluppare tecnologie aerodinamiche di altissimo profilo.
Vanderbilt contro Sopwith, ferrovie contro velivoli, Rainbow versus Endeavour: nel 1934 fu scontro totale. E ancora una volta ebbe la meglio il Nuovo Mondo. Sopwith rilanciò il guanto di sfida nel 1937. Quasi non si trattava più di una competizione sportiva: era diventata una questione privata. Un po’ come succederà molto più avanti, nel 2010, tra Bertarelli di Alinghi e Ellison di Oracle. Ranger, l’ultimissimo yacht di Vanderbilt, affondò ogni speranza inglese infliggendo un 4-0 secco all’avversario. Con la fine della loro rivalità calò il sipario anche sul Novecento conosciuto fino a quel momento, una metà di secolo che si apprestava a concludersi tragicamente nel sangue.
Ci fu un prima e un dopo il 1958. In quell’anno la Vecchia Brocca venne rimessa nuovamente in palio. La revisione del Deed of Gift elesse i Dodici Metri Stazza Internazionale quale classe di regata ed eliminò la clausola in base alla quale lo sfidante doveva necessariamente attraversare l’Atlantico per poter competere. La Coppa si aprì al resto del mondo. Se fino a quel momento era stata solo una guerra tra americani e inglesi, da allora le cose cambiarono radicalmente. L’Australia, con l’editore di fama Frank Packer, lanciò la sfida attraverso il Royal Sidney Yacht Squadron. Gli americani accettarono e per la prima volta gli inglesi rimasero fuori. Da lì in poi furono molte altre le nazioni che si cimentarono nell’impresa.
Nel dopoguerra, edizione dopo edizione, le forze in campo iniziarono a equilibrarsi. Un trend che favorì la nascita di un vero e proprio torneo degli sfidanti nel 1970, sponsorizzato da Louis Vuitton a partire dal 1983. Le barche, vicine per disegno e progettazione, diventarono più performanti. Venne introdotta la classe Coppa America, in uso fino alla 32esima edizione. Il fattore umano divenne un elemento chiave nella tortuosa strada verso il successo. In questo senso, con l’edizione del 1980, si assistette alla ribalta del primo grande professionista del circuito: Dennis Conner, campione del San Diego Yacht Club. Dalla penna di Salvatori:
“Si arrivò a dire che con lui stava morendo lo spirito della Coppa. In realtà era la competizione velica che stava cambiando pelle. Le barche erano tutte molto simili ormai e gli uomini e il loro allenamento potevano fare la differenza. Qualcuno parla oggi di un’epoca BC (Before Conner), quando ci si divertiva e di un’era (After Conner) quando ci si allena, ci si allena e ci si allena ancora.”
Conner, che ebbe l’onore di alzare al cielo la Vecchia Brocca per ben quattro volte, reinventò il modo di concepire la vela ad alti livelli aprendo un ciclo di grandi professionisti che nel corso dei decenni hanno infuocato i campi di regata della Coppa: Paul Cayard, Chris Dickson, Peter Blake e Russell Coutts su tutti.
La nostra storia in Coppa America ha invece inizio a partire dal 1981 con l’avventura di Azzurra. Una storia interamente made in Italy che fece innamorare il Paese. Una storia di cui indiscusso protagonista fu il grande Mauro Pelaschier. Poi arrivò il Moro di Venezia targato Raul Gardini: un’esperienza che alzò decisamente il livello generale. La sfida fu poi ripresa da Patrizio Bertelli con Prada Challenge nel 2000. Da quel momento in avanti è stato un continuo crescendo che ci auguriamo possa culminare nella vittoria più bella nella Coppa di quest’anno.
Una sfida, ancora tutta da vivere, che si sta svolgendo a bordo di barche provenienti dal futuro. Parliamo infatti di proiettili che grazie al sistema dei foil volano letteralmente sulla cresta dell’acqua a 50 nodi di velocità. È in corso un cambio epocale di uomini e strumenti nel mondo della vela che nella Coppa America ha il suo palcoscenico più prestigioso. Un mondo rappresentato dalla forza dell’innovazione come tradizione. E allora staremo a vedere fin dove sapranno spingersi questi nuovi eroi.