L'epopea di Milutinovic e la Costa Rica a Italia 90.
Esiste un filo sottile e impercettibile che collega gli altopiani mesoamericani con un impervio villaggio delle Alpi Dinariche, passando per un paesino dell’Appennino ligure-piemontese. Il suo colore, rosso fuoco, d’improvviso cambia tonalità, trasformandosi in bianco e nero. Magia? Forse sarebbe il caso di chiamarla scaramanzia. È una storia di fine anni Ottanta, che narra di un’impresa di un pugno di underdog che, nel giro di pochi anni, sarebbero passati da simpatici carneadi a presenza fissa alle ultime edizioni dei Mondiali di calcio. Inclusa quella che sta per iniziare. Il Costa Rica.
L’uomo venuto da lontano, come lo canterebbe Paolo Conte, si presenta a San Josè tre mesi prima della Coppa del Mondo del 1990. Avvolto da quell’alone di mistero che solo un personaggio sbucato dalle aspre montagne balcaniche possiede. Si chiama Velibor Milutinovic, ma per tutti è Bora. Nomade del pallone venuto al mondo dove oggi corre un confine pieno di tensioni tra Serbia e Bosnia. Da calciatore è fratello meno celebre dei nazionali Milos e Milorad. Il football lo trascina, come la corrente di un fiume in piena, dai prati di casa sino al Messico.
Qui conosce l’amore e decide di fermarsi, diventando una sorta di mago della panchina.
Spinge la Tricolor a un rigore dalle semifinali del Mundial casalingo nel 1986, poi una comparsata a Udine sembra troncargli la carriera di allenatore. Il destino, in questo racconto, gioca un ruolo decisivo. Fatto di nomi e luoghi che vanno e vengono, spariscono e ritornano d’improvviso. E allora, il Fato decide che l’Italia, terra di grande delusione dopo l’esonero a casa Pozzo, dovrà essere la porta del rilancio per Bora. La patria dell’impresa, talmente grande che, qualche anno prima, il cineasta Miguel Alejandro Gomez le aveva dedicato una pellicola dal titolo tanto scontato quanto evocativo: Italia ‘90.
E il remoto paese degli Appennini? Si chiama Voltaggio, lembo appenninico dell’alessandrino ed entra in scena ancor prima del miracolo Costa Rica. Un passo indietro. Pensare ai ritiri delle nazionali ai giorni d’oggi e paragonarli a quelli di trent’anni fa è pura fantascienza. Hotel blindati, sicurezza da Capi di Stato, allenamenti segreti per tenere fuori “le spie”. In un’epoca così lontana da quella attuale, a un gruppo di uomini col pallone nel sangue nasce l’idea di creare un mini ritiro per una delle selezioni che faranno parte del Girone C. Quello che si disputerà tra Torino e Genova. I soldi sono pochi, ma l’entusiasmo non manca. Si forma un comitato, si cercano gli sponsor e si incrociano le dita per il sorteggio, che recita: Brasile, Svezia, Scozia e Costa Rica.
La Verdeoro di Lazaroni e gli scandinavi di Brolin vengono scartati subito. La stessa Scozia preferisce la riviera ligure e allora tutti gli sforzi si concentrano sui Ticos. In realtà, ci sarebbe Mondovì in prima fila, ma alla fine si riesce a strappare una promessa: sette giorni in alta val Lemme, suggellati da un’amichevole con una squadra di Serie A. Arriva l’Inter del Trap e una vallata di un migliaio di abitanti si ferma per il calcio. I centroamericani vengono accolti come eroi da una comunità che ha sempre vissuto il pallone come un’eco lontana dei grandi squadroni metropolitani. La passione carica i carneadi di San Josè, un gruppo di ragazzi che giocano nel locale campionato e che nessuno conosce. Forse, nemmeno i loro avversari.
Al debutto, a Marassi se ne accorge la Scozia, punita da un lob di Cayasso e dalle parate del portiere Conejo. Al Delle Alpi, per la seconda gara contro il Brasile, ecco entrare in scena l’elemento irrazionale: la logica dello sport contro l’illogico del tifo, misto a credenza popolare. All’ingresso in campo qualcosa non torna. Dov’è finito il rosso dei centroamericani? Eppure quelle maglie, quelle righe, appaiono famigliari a molti, a Torino e dintorni. L’enigma lo svelerà, anni dopo, sempre lui. Questo giramondo delle panchine specializzato nelle missioni impossibili. Fan sfegatato del Partizan e convinto di poter raggiungere gli ottavi solo con i colori bianconeri dei Grobari indosso, mobilita mezza Europa per avere quelle benedette magliette.
Da Belgrado arriva un no secco, ma Giampiero Boniperti, altro romantico del pallone avvezzo ai riti e alle scaramanzie, viene in suo soccorso. Negli spogliatoi arrivano 44 divise della Juve, che vestiranno i costaricensi sia nell’onorevole sconfitta contro i brasiliani che nella storica gara contro la Svezia. A Genova il Ferraris è tutto per loro. I ragazzi, che nei giorni del ritiro giravano tra gelaterie e bar come un’accolita di amici in gita, vengono letteralmente adottati dalla gente del posto. In tanti si recano allo stadio per tifare i nuovi idoli. E Milutinovic, che di pallone ne mastica parecchio, prima di entrare in campo si presenta ai giornalisti sorridendo.
“Ci vediamo a Bari tra qualche giorno”.
Al San Nicola sono in programma gli ottavi di finale. Bisogna battere gli svedesi e questa Juventus mesoamericana non tradisce le attese. Flores pareggia la rete di Ekstrom, poi entra l’uomo degli ultimi minuti, Hernan Medford. Spacca la partita, segna la rete decisiva e qualifica i suoi. Al fischio finale è un tripudio ma Bora, che in cuor suo ha capito che la festa termina quella sera, ammette. «Senza Conejo (il portiere titolare infortunatosi) non passeremo». Ha ragione anche stavolta. La Cecoslovacchia segna 4 gol e li rimanda a casa.
Trascorrono dodici anni di buio, dove la parola mondiale resta tabù. Di fronte a Messico e Stati Uniti sembra impossibile competere, eppure nel 2002 rientrano nel tabellone principale. Il ritorno tra le finaliste in Estremo Oriente è merito, leggere alla voce “destino”, di uno dei ragazzi del ‘90. Brasiliano di nascita, trapiantato in Centroamerica. Alexandre Guimaraes. È il CT che li guida in Asia, qualificandosi dopo aver battuto i messicani a casa loro, in quello che, nei dintorni dello Zòcalo, hanno ribattezzato Aztecazo. E siccome le coincidenze sono il nodo conduttore di questa storia, nel gruppo, insieme alla Turchia e a Ronaldo e soci, trovano la Cina. Alla prima partecipazione e allenata da Milutinovic.
Il serbo, questa volta, non può compiere un’altra impresa, ma ostruisce la strada per gli ottavi alla sua vecchia squadra. I rossi di San Josè, infatti, escono dal Mondiale a causa della differenza reti: colpa di quel gol del turco Umit a una manciata di minuti dalla fine dell’ultima gara contro i cinesi. Rabbia e delusione vanno assorbite. Il ritorno di Guimaraes, quattro anni dopo, permette di centrare l’approdo in extremis a Germania 2006. Dove, nonostante la stella di Paulo Wanchope, vengono subito eliminati.
Per il risveglio occorre saltare un giro di giostra, quello mancato in Sudafrica. Nel 2014, i legami con gli eventi italiani ritornano preponderanti. In Brasile, a guidare in campo la squadra che, ancora oggi, ha fatto la storia del calcio locale, c’è Celso Borges. L’uomo con più presenze in nazionale, ma, soprattutto figlio di quel Alexandre Borges Guimaraes che allenava i Ticos negli anni passati e che, con la 9 sulle spalle, stupiva tutti nel mondiale di casa nostra. Italia, ancora Italia. Nel girone, seconda gara. Gruppo della morte, con inglesi e uruguagi. Tre squadre, sette coppe in bacheca. Vane le speranze di proseguire l’avventura. Gli dei del futbòl, però, riservano sempre sorprese. Con il colombiano Pinto come allenatore, Ruiz e Campbell le stelle in campo, i centroamericani si qualificano come primi.
Umiliano l’Uruguay campione continentale e scherzano con gli azzurri dei presuntuosi Cassano e Balotelli. Eguagliano gli eroi di ventiquattro anni prima, ma per oltrepassare le frontiere del Mito ci vuole qualcosa in più. E allora, ecco che il mondo scopre Keylor Navas, portiere rivelazione, che blinda il pari contro la Grecia e, con un uomo in meno, trascina la qualificazione ai rigori. Dove respinge il penalty di Gekas, che significa quarti di finale. Il 5 luglio, a Bahia sono sempre i guantoni di Keylor e la buona sorte a portare l’Olanda ancora ai calci di rigore. Me se Milutinovic era uno sciamano carismatico, allora Louis Van Gaal è il genio che tira fuori dal cilindro la mossa giusta al momento giusto. A pochi secondi dalla fine dei supplementari, manda in campo il secondo portiere Krul. L’azzardo riesce. Ruiz e Umaña si fanno neutralizzare i tiri e il Mundial finisce qui.
La campagna di Russia si rivela una mera comparsata. Un punto in tre partite contro Brasile, Svizzera e Serbia. I miracoli sembrano finiti, la golden generation di un tempo pronta a sparare i suoi ultimi colpi. Ci proverà in Qatar. Girone interessante. Spagna, Germania e Giappone. Con il precedente di otto anni prima, chi ha detto che sono spacciati? E poi, a quasi 35 anni, c’è ancora Borges. L’uomo che riannoda quel filo partito oltre trent’anni fa.
Le notti magiche tra Genova e gli Appennini, il papà in campo a firmare la prima impresa made in Ticos. In panchina, uno stravagante gitano con la passione per gli scacchi. In questi giorni, tra le dune che si affacciano sul Golfo Persico, il cerchio si chiuderà. E a benedire un’altra impresa impossibile potrebbe esserci anche lui. Il vecchio ct serbo. Nominato consulente per la Coppa del Mondo ‘22, ha trascorso gli ultimi anni facendo la spola tra Messico e Medio Oriente. Le primavere passano e immaginarlo sugli spalti degli ultramoderni impianti emiratini resta un mistero. Uno dei tanti della sua romanzesca vita. Peccato, perché come scrisse The Guardian anni fa “it just won’t be the same without Bora”.