La nostalgia, quando si trasforma in nostalgismo, è soltanto un rifugio per chi semplifica il presente e si consola con un presunto passato migliore, età dell’oro ormai perduta. La nostalgia così intesa è un gioco sciocco che non permette di progredire nella conoscenza di un fenomeno, ma che si accontenta di scalfirne appena la superficie. Vale in tutti i campi: dalla politica, alla società, ai costumi, al calcio. È giaciglio rassicurante ma non aggiunge nulla al dibattito, semmai appiattisce le complessità. Sterilizza.
Ma la nostalgia in sé caratterizza l’essere umano. Vocabolario alla mano, nostalgia è uno stato d’animo causato dal desiderio di una persona lontana (o non più in vita) o di una cosa non più posseduta, dal rimpianto di condizioni ormai passate, dall’aspirazione a uno stato diverso dall’attuale che si configura comunque lontano: n. degli amici, dell’affetto materno; n. della giovinezza lontana; n. dei tempi passati. Ben diversa faccenda quindi di quel fenomeno che, ahinoi, conosciamo fin troppo bene in ambito calcistico.
Da questa accezione “linguistica” vogliamo partire per raccontare la figura di Costantino Rozzi e il diritto del popolo ascolano di provare nostalgia per il periodo in cui lui, il Presidentissimo, aveva tra le mani le redini dell’Ascoli. Perché senza retorica ed esagerazione, le quasi tre decadi della sua presidenza sono state il punto più alto della parabola sportiva del club marchigiano. Perché ad Ascoli si giocava a pallone ad alto livello, con una pianificazione e una visione assolutamente contemporanea che ha portato risultati sul campo in ambito nazionale e internazionale. Perché l’utopia di una gestione autarchica avevafunzionato, portando i bianconeri ad aprirsi al calcio estero senza perdere la dimensione locale, provinciale nel senso nobile del termine.
Il principio
Tre decadi iniziate nel giugno del 1968, anno di cambiamento per eccellenza. Costantino Rozzi, però, non era un barricadiero ma un geometra di successo che aveva accettato la proposta di diventare presidente del Del Duca Ascoli, come si chiamava all’epoca la società. Nell’Italia che iniziava a conoscere il fervore delle manifestazione giovanili, Rozzi era preso da altro: doveva far quadrare cubature di cemento, mettere in bolla putrelle, alzare muri di forati. In una parola: edificare.
L’Italia della crescita economica. In mezzo anche qualche stadio: il Del Duca Ascoli e il Via del Mare di Lecce, perché non di sola edilizia privata si vive. Il calcio fino ad allora era unicamente una tangente che aveva toccato il suo lavoro, ma da quell’estate divenne una costante di vita. Una passione che si accese all’improvviso, conquistando in breve il cuore di Rozzi. Questi infatti abitava in prossimità dallo stadio ma, a vedere l’Ascoli, non andava mai: non capiva peraltro perché ci fosse tutta quella gente, ammassata, ad ammirare 22 giocatori che si contendevano una sfera.
Ma come certi amori travolgenti che poi non ti lasciano più, anche quello per l’Ascoli e per il calcio iniziò così all’improvviso. Inaspettato. Un’elezione, un atto formale che fu solo il primo passo verso una storia di successo. D’altra parte, come dirà lo stesso Rozzi in una delle sue dichiarazioni cult:
“L’Ascoli è come una malattia, quando ti si attacca non ti lascia più”.
Una patologia che gli regalerà quasi subito grandi soddisfazioni, come la prima storica Serie B conquistata nella stagione 1971-1972. Fu il coronamento di un triennio di scelte oculate e acquisti azzeccati, come i due attaccanti Renato Campanini – che diventerà recordman di gol con la maglia del Picchio – e Giuliano Bertarelli, ma anche di intuizioni coraggiose come quella di affidare la panchina a un giovane Carlo Mazzone.
L’amicizia e il sodalizio con Carlo Mazzone
Quella di Mazzone non fu solo una scelta tecnica, ponderata, ma soprattutto emotiva. Perché Mazzone era una bandiera dell’Ascoli che fu costretta ad ammainarsi il 3 marzo del 1968, dopo un duro scontro con l’ala Urban in un acceso derby con la Sambenedettese. Frattura della tibia per il difensore bianconero e fine della carriera soltanto posticipata di una manciata di mesi. Per un giocatore di Serie C di quegli anni, terminare anticipatamente la carriera significava dover ricominciare una nuova vita, con tutte le difficoltà economiche del caso.
Mazzone era senza lavoro e con una famiglia sulle spalle da mantenere. Fu a questo punto che entrò in scena il Presidentissimo, che gli offrì intanto la guida della squadra giovanile e poi quella della prima squadra. Come ricorda il tecnico romano in un’intervista rilasciata al Corriere Adriatico nel marzo del 2017, dopo aver ricevuto l’incarico per guidare la prima squadra, e di fronte ai suoi dubbi nel caso l’ avventura fosse andata male, Rozzi gli rispose:
“Carlè, stai tranquillo perché se dovessi lasciare Ascoli ti assumerò nella mia impresa di costruzioni”.
Rozzi era così: animato da sentimenti autentici che lo portavano a esternazioni come questa, ingenuo, in un calcio che lentamente stava cambiando. Sembrava quasi la caricatura di se stesso, come quando negli anni ‘80, ospite quasi fisso al Processo dell’amico Aldo Biscardi, si batteva perché anche le piccole squadre di provincia come il suo Ascoli avessero pari trattamento rispetto alle grandi del calcio italiano.
Parlava di sudditanza psicologica degli arbitri, sosteneva l’importanza del calcio di provincia, si lamentava di un sistema che era basato sulle plusvalenze e sull’ingaggio di calciatori dall’estero, a discapito del gioco e della valorizzazione del patrimonio calcistico nazionale. Lo faceva con con il suo italiano misto che trasudava accento marchigiano e dialetto, con le calze rosse che spuntavano da vestiti eleganti e bucavano gli schermi. Scaramanzia: l’arma in più del suo Davide Ascoli quotidianamente in battaglia contro i Golia del calcio. Le portava anche quella volta che Barbuti si esibì in un eurogol che beffò il Milan a San Siro, al via del campionato 1986-87, facendo uno scherzo a Silvio Berlusconi alla prima da presidente del club. In Serie A.
I successi con l’Ascoli
Con Costantino Rozzi l’Ascoli riuscì infatti a raggiungere la massima serie con una storica promozione a termine del campionato 1973-1974, e con Mazzone in panchina (il quale, evidentemente, non era finito a lavorare nell’impresa Costruzioni di Rozzi Costantino). In A i bianconeri ci giocarono quattordici volte sfiorando l’Europa con il quarto posto del 1979-80, e il sesto posto nell’anno dell’Italia Mundial. Quella degli Ottanta fu l’epoca d’oro del calcio ascolano, che conobbe un solo passo falso: la retrocessione nell’84-85. Una caduta all’inferno che servì però a mettere in bacheca un altro trofeo: il campionato di Serie B ‘85-’86 e il diritto di partecipare alla Coppa Mitropa, portando per la prima volte l’Ascoli alla ribalta europea.
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Minuto 1.41 per i pigri: la magia di Barbuti
Tra il 14 e il 16 novembre 1986, in città, dall’Est Europa arrivarono club dai nomi difficili da pronunciare: Spartak Subotica, Vasas Budapest, Bohemians Praga. Rozzi, da padrone di casa, non poteva incappare in brutte figure: non era dotato di un eloquio forbito, e sembrava un po’ il Luigi Filippo D’Amico interpretato da Alberto Sordi nella celebre commedia Il presidente del Borgorosso Football Club. Ma Rozzi era un presidente serio, che sapeva fare il suo lavoro.
Il torneo venne organizzato in maniera impeccabile tra Ascoli e Porto Sant’Elpido, e a dar lustro alla manifestazione arrivò la vittoria del Picchio. Un gol di Fulvio Bonomi in finale contro il Bohemians regalò il trofeo all’Ascoli e consegnò alla storia lo scatto del Presidentissimo Rozzi con la coppa sotto il braccio nello stadio che lui stesso aveva progettato. Come se tra i 22 in campo ci fosse stato pure lui, con il viso che raccontava la gioia di chi era consapevole di aver dato una vetrina internazionale alla città, nobilitando la provincia.
La vittoria della Mitropa fu il simbolico monumento a un progetto “glocal”, che nasceva tra i monti delle Marche, in una cittadina che fino a quel momento aveva vissuto una dormiente vita di provincia, ma che guardava oltre i confini regionali.
A un paese che si identificava con un mecenate che era riuscito a portare il bianconero della squadra locale, in giro per i templi italiani, a giocarsela con le grandi del calcio nazionale. Inter, Milan, Juventus. Una società che era riuscita a dar valore a tanti giovani nostrani, senza rifiutare in maniera ottusa il fascino che certi colpi del calciomercato potevano generare nel cuore del tifoso. Come gli arrivi sul finire della carriera di giocatori di alto livello: il brasiliano Dirceu, l’asso irlandese Liam Brady o il campione d’Italia Bruno Giordano, e così altri azzeccati affari che giungevano direttamente dall’estero.
Walter Casagrande, strepitoso con il Corinthias e capace di segnare pure con la Seleção, l’impronunciabile Borislav Cvetković che fu soprannominato l’Anguilla di Karlovac, per la sua capacità di sgusciare tra le difese avversarie; in tempi più recenti il tedesco Oliver Bierhoff, abilissimo nei colpi testa e poi grande nel Milan di Zaccheroni. Insomma, la gestione Rozzi fu un mix di localismo – difeso anche nelle TV nazionali – e pulsioni centripete che spingevano emissari del club lontano da Ascoli a cercare buoni prospetti da portare a casa a prezzi ragionevoli. Un equilibrio tecnico e finanziario che fu il cemento in grado di edificare il periodo d’oro dell’Ascoli.
Fu questo il grande merito di Costantino Rozzi: riuscire a difendere in maniera contemporanea le istanze di un club provinciale, portando a casa il massimo che si poteva raggiungere. Senza mai esagerare, senza farsi coinvolgere dalle mode ballerine degli anni ‘80 o tentare il passo più lungo della gamba. Senza mai prendersi troppo sul serio ma divertendosi a migliorare di stagione in stagione, collezionando successi importanti in patria e all’estero.
Sì, ad Ascoli si può praticare la nostalgia, perché il cuore di Rozzi si è fermato troppo presto, il 18 dicembre 1994 con qualche pagina ancora da scrivere. È un diritto dei tifosi del Picchio, dei cittadini ascolani, aver nostalgia di quel trentennio scarso che fu un autentico paradiso calcistico. E che, oggi, appare lontanissimo nel tempo.