L'apocalisse dell'Italia calcistica si inscrive in un più generale fallimento culturale, sociale e programmatico.
No, gli italiani sono da tempo vaccinati contro la sindrome del Maracanazo, quella che si manifestò sanguinosamente nel vero senso della parola, in Brasile quando la Seleçao perse il Mondiale, nel 1950, contro l’Uruguay di Ghiggia, Schiaffino e Obdulio Varela, intrepido capitano della Celeste. Non ci saranno scene di isteria collettiva anche perché tutti, tifosi e semplici distratti italiani, se lo aspettavano da tempo, ad essere sinceri, che il lungo ciclo dell’Italia calcistica, protagonista nel bene e nel male, sui campi di tutto il Pianeta, era alla fine. Il sigillo della Svezia è stato meno traumatico di quanto ci si poteva attendere perché all’evento eravamo andati preparandoci. Dopo la sconfitta di Madrid contro la Spagna nel settembre scorso, la nazionale di Giampiero Ventura aveva perso quel poco di lucidità che, sia pur senza speranza, era arrivata al Bernabeu carica di retorica e di paure. Poi la catastrofe si è manifestata pienamente. Contro Albania e Israele, l’Italia è stata inguardabile. A Solna non ha praticamente giocato subendo le sportellate degli svedesi; a San Siro è apparsa come una compagine di dilettanti allo sbaraglio, incapace di mettere insieme due idee terra-terra per tentare di scardinare il catenaccio non irresistibile degli avversari. La peggiore formazione mai vista, insomma, è uscita dal Mondiale per come meritava. Incapace, confusa, disposta in campo approssimativamente, guidata da un Commissario tecnico che ha mostrato limiti imbarazzanti sia nella scelta degli uomini che nella tattica modellata su un livello tecnico dei singoli che non osiamo neppure definire. I pochi che avrebbero potuto forse evitare la disfatta sono stati tenuti ai margini o neppure chiamati a dare il loro contributo che sarebbe stato comunque modesto. E così, sessant’anni dopo la prima non qualificazione, al Mondiale giocato in Svezia (guarda caso!) – dove si rivelò al mondo, sotto le sembianze di un ragazzino brasiliano che sarebbe diventato una leggenda, anzi la leggenda del calcio, Edson Arantes do Nascimento, detto Pelé – abbiamo salutato il calcio che conta per incanaglirci nelle nostre meschinità.
Neppure nel 1962 in Cile giocammo così male, uscendo dal torneo al primo turno, e nemmeno l’eliminazione nella fase finale in Inghilterra nel 1966 ad opera della Corea del Nord del dentista dell’esercito Pak Doo Ik – che con un gol affondò una nazionale di veri campioni, purtroppo sfortunata – le nostre prestazioni furono così ignobili. Intanto c’eravamo, tranne che in Svezia dove non arrivammo per mano i degli irlandesi. E poi giocavamo un calcio dignitoso che si poteva anche contestare, ma i campioni in campo proprio no: erano tra i migliori del mondo, alcuni autentici fuoriclasse. Quello che si è manifestato negli ultimi undici anni, dopo il Mondiale tedesco vinto dai Cannavaro, Buffon, Totti, Toni, Del Piero, è stato poca cosa. Decadente e degradante. Ecco, adesso, quel che resta. Un movimento calcistico nazionale a pezzi, dominato da club che fanno i loro interessi e vedono la maglia azzurra come un incubo. Il loro campionato dei mercenari se lo godranno adesso fino in fondo, senza più il fastidio dei ritiri, degli stage, delle interruzioni che l’attività della nazionale fastidiosamente imponeva.
Riuscirà a ripensarsi il calcio italiano? In tempi brevi certamente no. E’ una questione politica e culturale, non soltanto sportiva. E rientra nella crisi più generale del football la cui miseria è sotto gli occhi di tutti. Nella geopolitica calcistica, infatti, c’è sempre meno spazio per le forti e coese squadre-comunità; la fantasia, l’inventiva, la libertà di gioco – come è stato chiaro nel Mondiale brasiliano e come si confermerà in quello russo – sono imbrigliate dalla paura perché gli interessi in campo non ruotano intorno ad un pallone da far girare, ma piuttosto ad un pallone da far sparire; nel senso che se per i tifosi ciò che vale è il gioco, nei sottoscala degli stadi sono ben altri gli interessi intorno ai quali si disputano le partite. Negli ultimi decenni il football è sensibilmente peggiorato soprattutto nella qualità. Uno spirito evanescente connota i grandi tornei nazionali e internazionali, campionati e coppe perdono appeal, i calciatori difficilmente si affezionano alle maglie che indossano e, sentendosi alcuni di loro elementi di uno star system da parvenu, guardano più al portafogli che al resto.
Anche per questo motivo, i vivai languono, l’apprendimento del gioco del calcio è un affare di laboratorio (le famose scuole), l’acquisto di futuri e quasi sempre improbabili talenti inflaziona il mercato calcistico che fa incetta di ragazzini ai quattro angoli del mondo con la speranza da parte di numerosi club (alcuni hanno più squadre in diversi campionati) di allevarli con spese modeste finalizzate a ricavi sontuosi. A quanti ragazzi italiani, soltanto per fare un esempio, si toglie la possibilità di mettersi in evidenza se la politica di importazione impone squadre apolidi, tra le quali spesso non risuona neppure un cognome familiare? Sono compagini “italiane” a tutti gli effetti. E a quale bacino un qualsiasi Commissario tecnico della nazionale dovrebbe attingere? Ventura, insomma, e prima di lui Prandelli e Conte, ha fatto il pane con la farina che aveva. E non era un granché. Il problema della nostra nazionale è sostanzialmente tutto qui, non diversamente (sia pure in misura minore) dalle altre. Nel Campionato di serie A giocano circa 600 calciatori. La metà sono stranieri: più del 50%, dunque, arriva da campionati esteri. Costano poco, si dice. E nella maggior parte dei casi è vero. La Nazionale azzurra può contare al massimo su trenta/quaranta calciatori tra i quali tirar fuori una formazione decente, comprese le riserve, ma poi bisogna amalgamarla, darle un’anima: l’impresa più difficile. I club, come s’è detto, sono disinteressati ai destini della Nazionale. Ogni partita in calendario diventa un dramma per i dirigenti delle società: non si dimostra, insomma, da parte del movimento calcistico italiano quell’entusiasmo che pure in un passato piuttosto lontano c’è stato per la massima rappresentativa. Adesso sarà anche peggio. Partivamo, dopo la disfatta in Brasile, dal tredicesimo posto nel ranking della FIFA dietro Germania, Argentina, Colombia, Olanda, Belgio, Brasile, Uruguay, Spagna, Francia, Svizzera, Portogallo e Cile. Non era esaltante. Soprattutto in considerazione della nostra storia con quattro Mondiali vinti. Adesso dove saremo collocati?
La ricetta tedesca, fondata su una riforma integrale del movimento calcistico nazionale, potrebbe essere la soluzione. Ma a patto che le società riconoscano la priorità della Nazionale e adeguino strutture, impianti, limitino l’accaparramento degli stranieri (ci vorrebbe una disposizione che impedisca di mandarne in campo più di un certo numero, come in altri Paesi europei) e siano disponibili ad assecondare il Commissario tecnico e la Figc nelle naturali esigenze . Una grande Nazionale di calcio non è soltanto un investimento sportivo, ma anche politico-comunitario. E nel football globalizzato vale la stessa verità che viene in evidenza quando si discute di economia e sovranità: gli Stati-nazione sono gli unici antidoti all’indifferenziazione, all’omologazione culturale, alla uniformità. Un calcio differente, espressione di una cultura che ha le sue caratteristiche e i suoi fondamentali, come da tempo riconosciuto, non può sottrarsi a un ripensamento radicale. Se le frontiere sono cadute, non è detto che non si possano valorizzare le risorse che si hanno, senza respingere nessuno ma ovviamente a patto che non si privilegino brocchi che tolgano il posto a possibili campioni italiani, soltanto per convenienza e per rifilare bidoni ai tifosi. La Germania l’ha capito dalle sconfitte subite dopo il trionfo italiano del 1990. Può darsi che l’Italia lo comprenda dopo la catastrofe che ha appena registrato, i cui prodromi sono lontani, ma le conseguenze si faranno sentire su campionati e tornei continentali.
L’Italia calcistica, insomma, non c’è più. Nessuno in Europa si occuperà per molto tempo degli azzurri. E la partita che si è aperta fuori dal rettangolo di gioco rischia di essere ancora più nefasta dei risultati ottenuti in campo. Non ci resta che l’Islanda. Personalmente farò il tifo per questa nazionale di ex-dilettanti la cui storia è la più formidabile ed avvincente del calcio recente. Nessuno può dire dove arriverà. Ma il fatto di essersi qualificata alla fase finale dei Mondiali, dopo un ottimo Europeo, la dice lunga sulle potenzialità di una rappresentativa che nasce nel cuore di una comunità di soli 350.000 abitanti o poco più. Ma nell’Isola nascono a getto continuo stadi (piccoli e splendidi), centri sportivi, campi di calcio coperti e gli allenatori con patentino Uefa, cioè tutti, guadagnano anche qualcosa che gli consente di dedicare le lunghe serate al gioco che hanno scoperto essere il più bello del mondo, com’era considerato una volta in Italia.
Intervista con Giovanni De Carolis, degno rappresentante del vero spirito italiano: umile e talentuoso lavoratore con lo spirito in fiamme ed il sorriso gentile.