Editoriali
14 Dicembre 2023

La crisi della Formula 1 è quella di un'epoca

Problemi (irrisolvibili?) di uno sport specchio di una cultura.

Tra uno sbadiglio ed una camomilla in formato televisivo, lo scorso 26 novembre si è concluso l’ultimo Gran Premio della stagione 2023 di Formula 1, con le palpebre stremate, segnate dagli sforzi per non cedere agli attacchi portati senza sosta dalle milizie della noia nel corso delle 22 gare disputate. Abbiamo anche dovuto registrare, come consolidate abitudini da troppi anni a questa parte, le ennesime défaillance della regia televisiva, parsa sempre più inadatta ad intercettare i fatti di pista ed onorare l’incarico di guidare l’occhio dello spettatore verso i momenti clou di una gara.

La diabolica ripetizione di quelli che possono essere ritenuti, senza troppi indugi, bias cognitivi (secondo la psicologia: forme di comportamento mentale distorsive che conducono a errori di valutazione e mancanza di giudizio), con stacchi d’immagine inopportuni nei rari – rarissimi– momenti decisivi della corsa a favore di inquadrature su azioni irrilevanti o l’estenuante riproposizione di replay che piombano puntuali nei pochi attimi in cui la pista si accende, segna ormai senza soluzione di continuità la stragrande maggioranza dei Gran Premi, permettendo, al contempo, di sollevare una fondamentale questione che sposterebbe il risultato dell’interpretazione dalla semplice svista-défaillance ad una grave crisi di sistema. Possiamo introdurci alla questione che intendiamo affrontare ponendo, dunque, il seguente interrogativo: siamo/sono ancora in grado di leggere le corse di automobili?



Risponderemo solo alla fine. Non volendo arretrare eccessivamente l’indice storico della nostra breve indagine e concentrandoci sull’ultima ‘era’ segnata dall’introduzione del nuovo regolamento tecnico entrato in vigore nel 2022, possiamo affermare, senza aver paura di incorrere in obiezioni, che uno spettacolo in cui la percentuale di punti raccolti dal vincitore del Campionato è stata del 76,17% nel 2022 e del 92,07% nel 2023 (record assoluto), quella delle vittorie del 68,18% nel 2022 (15 su 22) e dell’86,36% nel 2023 (19 su 22, e arrivederci, anche qui, al vecchio record di Ascari nel 1952) completando in testa 1003 dei 1325 giri totali (incluse Sprint Race), rappresenti un palese ammazza-interesse anche per i più accaniti appassionati.

Al fine di scongiurare l’ipotesi di scomparire del tutto dai radar d’attenzione del pubblico e dalla visibilità cara agli sponsor, si è fatta ancor più urgente di quanto non lo fosse stata durante l’epopea Mercedes risalente al decennio precedente, la necessità di condire questo scarno spettacolo costruendo narrazioni nel migliore dei casi parallele, nel peggiore – e sono la maggioranza – fittizie ed esageratamente enfatiche, al limite del farsesco (vedi ‘Drive to Survive’).

Avanziamo qui una tesi probabilmente contro-intuitiva che tenterà di chiarirsi cammin facendo: l’annata di grandissima popolarità registrata nel 2022 da record ha evidenziato, in realtà, con maggior franchezza lo stato di crisi della Formula 1.

La strategia comunicativo-narrativa adottata, a questo punto, per arginarne l’intensificarsi è risultata chiara: in una condizione di noiosa e regolarissima ripetizione dei medesimi fatti e risultati, all’analisi, allo studio, all’approfondimento realistico o ‘visionario’ di questi ultimi, si è dovuta anteporre l’esaltazione esagerata degli stessi e di tutto quel contorno nel quale ci si è ingegnati per ricercare elementi che deviassero dal flusso omogeneo.

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Tale rotta avrebbe anche avuto delle potenzialità nascoste se condotta con misura e cognizione di causa, come ad esempio quella di portare a galla aspetti tendenzialmente meno noti o dissotterrare avventure poco conosciute ai più, ma degne di riconoscimento, ampliando così il ‘ventaglio storie’ cui appassionarsi frequentando il motorsport, pure in un’epoca definibile come piatta.

Si sarebbe, cioè, potuto sfruttare un periodo dallo scarso tasso adrenalinico per introdurre lo spettatore in un ambito più intimo delle corse, spesso nascosto quando i cogenti fatti consegnano tra le mani della cronaca il materiale adatto per fungere da principale polo attrattivo. L’indirizzo intrapreso, nostro malgrado, ha invece conciso con un maldestro tentativo di esaltare in maniera strampalata ed isterica l’eterno ritorno del sempre uguale cui l’attualità ci ha sottoposto e gridare ogni volta allo “evento” davanti alla più vacua delle situazioni. Insomma, ingigantire l’insignificante insabbiando quel poco di sostanziale rimasto.

Arriviamo, così, al tema dell’inadeguatezza della regia da cui avevamo preso spunto e tramite il quale possiamo giungere a sfiorare, oltre lo sport, alcune delle tendenze dominanti della nostra società contemporanea. In cosa possiamo rinvenire le cause di questa inadeguatezza? Ad una Formula 1 sempre più depauperata di eventi in cui è messo in gioco il nucleo essenziale delle corse (sorpassi, lotta in condizioni di equilibrio fra avversari di spessore, imprevedibilità degli esiti), segue, inevitabilmente, come si è detto, una narrazione orale e visiva impegnata a mascherare di abiti colorati questo grigiore. Costruendo castelli di carta pesta su piste di nulla, è stato osannato il vano e travestito l’insignificante, con lo scopo di sopravvivere alla critica fase d’epoca, contrabbandata per fase aurea.

Per comprendere più a fondo, possono aiutarci le parole di Carlo Vanzini, telecronista di Sky Sport F1 Italia, pronunciate in occasione di una video-intervista realizzata sul canale YouTube del suo collega Fabio Caressa, in cui la voce italiana della Formula 1 afferma: “Quando già dall’inizio di una stagione c’è uno che domina ti chiedi ‘e adesso cosa gli raccontiamo [al pubblico]?’ L’interpretazione che noi diamo è: godiamoci ogni week-end come se fosse un Mondiale […] Bisogna concentrarsi sul singolo evento, perché vogliamo raccontare il feel di quel week-end lì, perché se ci basiamo troppo sulla distanza, quando c’è uno che domina, poi io dopo nelle altre gare che ti racconto?”.

Tuttavia, il dato da rilevare con mestizia è come la coscienza di tale travestimento delle singole unità, in principio nata da un’esigenza comunicativo-strategica, pare sempre più dissolversi, tanto nei cronisti-narratori, innamorati delle proprie ore di popolarità, quanto nelle generazioni allevate sotto il costume di questa maschera, la cui formazione di cultura sportiva è rimasta completamente succube della decadente attualità, ritrovandosi impossibilitata a sviluppare, con l’aiuto di un insegnamento diretto e indiretto, quella sensibilità per l’essenziale dello sport.

È a partire da uno stato di frantumazione della totalità e, quindi, da un’epoca di travestimento della crisi, che trova origine l’impazzare dei vari slogan da telecronaca nei quali l’apparire del fenomeno narrato – certamente povero – viene completamente fagocitato dalle grida sul vuoto (volendo fare una breve escursione nel mondo del calcio, il ‘fenomeno Adani’ lascia rilevare qualcosa di molto simile, forse aggravata da una iper-accentuata vena di narcisismo, ma forse attenuata dalla competenza del personaggio).



Ed è, sempre a partire da qui, che si può leggere sotto il concetto di alienazione il modus operandi di una regia spaesata, scollegata dalle strutture fondamentali di una gara, diretta dall’esigenza ansiogena di far vedere ‘qualcosa’, qualsiasi cosa essa sia, divenuta incapace di discernere il diverso rango dei fatti e comprendere, per esempio, quanto il sorpasso di una macchina su un’altra macchina di due secondi più lenta ed impegnata in una gara contro altri avversari, sia marginale di fronte, magari, ad un recupero inappariscente, faticoso ma costante, di un pilota sul rivale che lo precede; quanto il tentativo di un giro veloce in determinante circostanze di gara sia più rilevante del rientro dalla sosta-box di un pilota nelle retrovie, inquadrato esclusivamente perché tale immagine consente di mostrare vetture vicine tra loro, ormai implicito sinonimo di ‘spettacolo’ al di là di ogni sensata lettura del contesto in cui l’azione si dà.

Questi pochi esempi, purtroppo molto frequenti per chi ancora insiste con passione a ricercare emozioni nella Formula 1 formato camomilla-sprint, dimostrano la crisi di un ambiente specifico, e forse di un’umanità storica, che ha smesso di interrogarsi sulla propria realtà e di provare un senso di responsabilità verso l’educazione alla cultura degli appassionati, necessaria per leggere e cogliere momenti e strutture fondamentali dello sport di cui si occupa.

Il problema cui stiamo assistendo, in sintesi, è quello di rimanere intrappolati nella menzogna come strategia di sopravvivenza, finendo per dimenticare la sua origine e la sua natura e scambiandola per l’unica lingua con cui poter parlare di sport. Il travestimento perde i tratti della strategia cosciente e finisce per diventare la cosa stessa del racconto.

Dinanzi a noi si spalanca una drammatica voragine, un enorme vuoto di cultura. Dove per cultura intendiamo qui un patrimonio attivo, condiviso ed unitario di conoscenze – quando personale e slegata, la cultura, scade a mera erudizione – ma soprattutto, se autenticamente interiorizzato, tale patrimonio assume la forma di una spontanea postura di spirito in grado di lasciarci meglio sentire i nuclei essenziali del vivere, ponendoci con giudizio critico dinanzi al mondo. Cultura, quindi, non come fardello, accumulo di nozioni, ma come libera chiave di accesso alla vita, di cui le corse sono espressione.

In questo caso i confini del nostro mondo coincidono con quelli del microcosmo della Formula 1, nel quale sono andati dispersi i prerequisiti indispensabili per poterci orientare al suo interno. Vuoto di cultura sportiva ed incapacità di leggere il fenomeno sportivo sono due problemi intimamente intrecciati che rimbalzano in moto perpetuo dalla realtà alla narrazione. La bussola si è rotta proprio per via di un mondo diventato massimamente ordinato(/prevedibile) – ricordiamo il 77,2% di vittorie conquistate da Max Verstappen negli ultimi due anni – dove per tentare di fuggire la noia in cerca di enfasi posticce, si è raggiunta una lontananza siderale dalle cose.



La specificità di quest’epoca, dunque, assume tinte decadenti non perché, guidati dal pregiudizio, sia necessario rifuggire ogni tipo di trasformazione, bensì perché il passaggio cui stiamo assistendo è quello da un ‘vecchio ordine’ ad un ordine non in grado di fornire alcuna nuova pregnante categoria di senso al motorsport, annichilendone le fondamenta senza crearne di altre che restino, tuttavia, in intima relazione con la natura delle corse. Mancano, in sostanza, modalità di visione profonda, cioè il mezzo per cogliere il centro di questo mondo.

L’aver premuto con tanta boria sull’abbaglio della ‘spettacolarizzazione’, in scia al modello americano, sta già, in tempo record, mostrando la totale miopia di questa strategia. Il drastico calo di ascolti e share registrato dal 2022 al 2023, dopo il grande boom della stagione 2021 di ‘Drive to Survive’, con il numero di telespettatori americani ridotto del 25% durante il GP di Miami 2023 e le voci (attendibili) di prezzi ribassati durante la settimana di accompagnamento al nuovissimo e scintillante GP di Las Vegas per evitare il flop nel week-end tanto desiderato da Liberty Media (alla fine risultato sotto la media stagionale di telespettatori), sono indice di un fenomeno non solo europeo (dove quella del 2023 è stata, su tutti i fronti, la stagione meno seguita di sempre).



Sono sintomo piuttosto di quanto la ‘nuova generazione’ ed i ‘nuovi tifosi’, tutt’altro che inseriti in un processo di crescente avvicinamento alla Formula 1, come avrebbe sognato Stefano Domenicali, riflettano e riservino verso la massima serie dell’automobilismo la stessa intermittenza con cui si rapportano alle tendenze usa e getta del web, condizionati decisamente più delle ‘vecchie generazioni’ dalle oscillazioni di uno sport che, come qualsiasi altra sfera della vita, non è in grado di riprodurre – e menomale – ad ogni sua manifestazione l’istante ‘eccezionale’.

Se accettiamo di considerare il mondo social come parametro per rintracciare tendenze relative ai gusti delle ‘nuove generazioni’ – operazione molto diffusa nelle aziende, ma decisamente semplicistica – allora balza subito all’occhio il brusco arresto nella curva di crescita di nuovi ‘follower’ raggiunti dai social della F1, il 46% in meno rispetto al 2022.

Tratto in cui è possibile ravvisare una disposizione fondamentale dell’antropologia contemporanea, sul più ampio sfondo di relazioni umane permeate dalla precarietà, tale intermittenza, non la si è tentata di re-indirizzare, neppure in un contesto, come quello sportivo, in cui ancora è conservato, nonostante tutte le corruzioni, un margine d’azione per mostrare vie alternative alla forma-mondo vigente quali: la lentezza del rito, la cadenza misurata dei gesti, la lunga attesa per coltivare un prodigio, la traversata nel sacrificio, il sentire comune di un gruppo, l’agonismo ed il riconoscimento dell’altro, l’appartenenza a tradizioni collettive.



Piuttosto la si è inseguita, assumendola come comandamento e confezionando un prodotto perfettamente adatto alla non-cultura dell’highlights power, pronto per essere consumato da una platea di fruitori mordi e fuggi, ‘fan’ che si accendono e si spengono come fari in discoteca. Su questo solco, a riprova dello stato di crisi, si inserisce nel 2023 anche l’introduzione degli iper-compressi week-end formato Sprint, estremizzazione distopica della visione che aveva portato nel 2021 alla sperimentazione della prima Sprint Race in occasione del GP di Silverstone, poi triplicata nel 2022 (Imola, Spielberg, Interlagos) e già evidentemente additata da piloti ed appassionati come depotenziante anteprima del Gran Premio in un contesto di ampissima prevedibilità degli esiti.

Gli estremizzati week-end formato Sprint (sei in questa stagione), con qualifiche al venerdì dopo un solo turno di prove libere ed il sabato dedicato allo Sprint Shootout (valida per definire la griglia della gara breve) e alla Sprint Race, oltre a tradire la tradizionale liturgia di preparazione ed affinamento della performance in vista dell’evento principe, il Gran Premio, non hanno nemmeno avuto il merito di agevolare il tanto agognato ‘spettacolo’ in pista, favorendo quei team le cui monoposto risultano già padrone di un’ottima base di partenza e plafonando le prestazioni di chi avrebbe necessitato di lavoro per migliorare il proprio rendimento. Anziché revitalizzare la dimensione sacra del Gran Premio, se ne è depotenziata l’unicità con la serializzazione.

Al posto di equilibrare le prestazioni, di fatto, sono stati cristallizzati, senza chance di sconvolgimenti, i rapporti di forza in essere. Si è riusciti nella difficile impresa di frammentare in ‘segmenti di show’ (due qualifiche, due partenze, due gare, due traguardi) lo svolgersi di uno “spettacolo” aridamente compatto, privo, cioè, di scarti ed eccezioni autentiche, senza minimamente ridurre, anzi raddoppiando, la dose di sonnifero somministrata agli spettatori in occasione di ogni languida manifestazione.

Anche qui, manca una profonda interrogazione sulle ragioni per cui i regolamenti tecnici della Formula 1, a partire dagli anni 2000, continuano a produrre di volta in volta cicli di macchine invincibili.

Paradigmatico, per cogliere l’estremizzazione del processo, in questo senso, è il mondiale di Jenson Button vinto nel 2009 sulla monoposto progettata dall’ingegner Ross Brawn, durante l’unica stagione in Formula 1 disputata dalla scuderia omonima di cui il britannico era proprietario, in cui per la prima volta un cambio regolamentare decretò, sull’intero ciclo, un vantaggio irrecuperabile a favore di chi per primo lo avesse meglio interpretato, riducendo al lumicino la possibilità delle case costruttrici concorrenti di recuperare terreno se non dopo l’avvento di una nuova rivoluzione tecnico-regolamentare.

La passione dei ferraristi al GP di Monza del 2011 (foto Wikipedia)

Alle spalle degli anni 2000, infatti, nessun costruttore aveva mai vinto cinque titoli consecutivi, mentre dalla stagione 2000 ad oggi l’impresa è riuscita sia a Ferrari, trionfante nel quinquennio 2000-2004, sia a Mercedes, la quale ha ininterrottamente conquistato le stagioni dal 2014 al 2020. Senza dimenticare il ciclo di quattro mondiali (2010-2011-2012-2013) targati Vettel-Red Bull e l’attuale egemonia sempre firmata dal team di Milton Keynes, al terzo oro filato di un dominio verosimilmente incontrastabile sino al 2025, anno del futuro salto di regolamento.

Tornerà l’ora di ricominciare a porre domande fondamentali circa il destino della Formula 1, intimamente legato al rapporto che intercorre tra scienza ingegneristica e componente artistica di talento umano alla guida, o si continuerà, all’infinito, a mettere pezze con soluzioni approssimative, estemporanee e prive di una reale analisi critica dei processi? E ancora: da quale visione del motorsport si intende partire per configurare, seriamente, i limiti oltre i quali il sapere tecno-scientifico non dovrà trovare applicazione affinché la ‘verità delle corse’ possa manifestarsi nella sua interezza? Oppure, ribaltando il piano, ci siamo arresi all’idea che sia la tecnica (nella sua accezione più ampia) a disvelare per intero la ‘verità delle corse’?

Perché sta qui il punto nodale: o ci si decide sulle fondamenta, oppure si proseguirà, come sta avvenendo, ad essere trainati ed etero-diretti dallo schema di un’epoca in cui, si badi bene, non passerà molto tempo prima che le corse perdano irrimediabilmente ragion d’essere.

Ricongiungendoci all’origine dell’articolo, e dunque alla nostra domanda inaugurale, risulterebbe errato affermare che ‘no, non sappiamo più leggere la Formula 1’. Ma cosa intendiamo, più nello specifico, quando parliamo di lettura di un fenomeno? Potremmo rispondere che nel godere di un fenomeno sportivo pensiamo di esser giunti ad una lettura quando avvertiamo di averne colto gli elementi cardine utili a formare in noi una visione d’insieme più o meno organica, come quando, dopo la lettura di un testo, riusciamo nell’intento di restituirne con linearità e precisione il senso e la trama.


Il problema della tecnica è epocale, non ristretto ad un solo sport.


Il punto, allora, è riconoscere la metamorfosi di una Formula 1 che ad ogni livello ha introiettato dentro sé categorie (storiche) ad essa originariamente estranee, con il risultato di mutare alla radice essenza e natura. La frantumazione è arrivata persino ad erodere quel centro da cogliere cui facevamo riferimento pocanzi.

Il vuoto di cultura è allora la cartina di tornasole per uno sport che ha scelto, nella volontà di omologarsi all’epoca, la via della non-cultura ontologica (legata al proprio essere), dove quelle categorie di sensatezza ed armonia ricercate per leggere ed interpretare le corse come un’opera dai contorni definiti, come fossero, cioè, una totalità organica, si disgregano già all’interno della realtà stessa e cedono il passo alle scollegate ‘unità di spettacolo’ – peraltro poche – prese e digerite come atomi a sé stanti, scissi l’uno dall’altro (ricordiamo l’equazione week-end=mondiale proposta da Carlo Vanzini). È la Formula 1, in questa non-forma culturale ed ontologica, ad essere diventata illeggibile.

Passerà molto prima che una contro-visione risponda alla subalternità con cui le corse di automobili stanno rincorrendo l’epocale processo di alienazione in atto? Probabilmente sì. Perché nella Formula 1, come tutto in questo nostro piccolo tempo dell’imbrunire, anche la crisi ha perduto l’originaria forza rivelativa, immobile com’è nella perenne parvenza di dinamismo.

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