Una crisi da cui, alle condizioni attuali, sembra difficile uscire.
Per come era iniziato, il derby della Madunina si è chiuso per il Milan con un passivo neanche troppo severo, e con un finale di partita parzialmente incoraggiante. In tanti d’altronde temevano una disfatta simile a quella della Supercoppa, per di più in un momento del genere e dopo una prima frazione di gioco da resa incondizionata. Eppure, tutto ciò non può essere certo di consolazione: per il Milan matura la quarta sconfitta consecutiva, la quinta nelle ultime sette (con due pareggi e zero vittorie) e la seconda in un derby nell’arco di un paio di settimane. Il tutto nell’eliminazione dalla Coppa Italia, nella finale di Supercoppa persa e in un lento scivolamento dal secondo posto di inizio 2023, con l’etichetta di anti-Napoli, al sesto posto odierno.
Soprattutto, in una crisi di certezze che sembra alle condizioni attuali difficilmente reversibile.
Gli uomini di Pioli sono svuotati, senza più energie e risorse, esauriti dopo uno sforzo più grande di loro: è dall’anno scorso, d’altronde, che scriviamo qui come lo scudetto l’abbia perso l’Inter, dotata di una rosa estremamente più profonda e strutturata, e di come il Milan abbia fatto un miracolo sportivo alimentato da entusiasmo, da spirito di gruppo, dalla mano di Pioli, mascherando e soprattutto superando i limiti di un gruppo di buoni giocatori ma che, eccezioni a parte (Leao, Theo Hernandez, Maignan), non sono certo calciatori extra-ordinari.
Per questo oggi, pure per i tifosi, è difficile incolpare qualcuno: certo si accusa Pioli, e ci torneremo, ma più che rabbia c’è molta empatia e altrettanta rassegnazione. Perché qualche ragione ce l’aveva il filosofo Massimo Cacciari, che era intervenuto dopo la sconfitta rossonera (4-0) contro la Lazio parlando di una «squadra debole», seppure poi esagerando sulla conclusione: «ha vinto lo Scudetto quasi per caso lo scorso anno». Con il caso nel calcio si vincono 1-2-3 partite, non certo un campionato, per giunta strameritato sul campo – e straperso dall’Inter, ribadiamo, quella stessa Inter che oggi pure Gazzetta si rende conto che, fra tanti rimpianti, quest’anno «era ‘l’anti-Napoli» – ma no?.
Tuttavia è proprio per questo che è difficile chiedere di più al Milan, una rosa da quarto posto che sta pagando terribilmente il cuore lanciato oltre l’ostacolo la scorsa stagione; la corsa a perdifiato, sopra-ritmo, la cavalcata lunga e al di sopra delle proprie possibilità. Oggi il Milan è stanco nella testa ancor prima nelle gambe, privo di energie nervose, e forse anche sorpreso dalla sua condizione, che si era convinto essere quella di una squadra che poteva (e doveva) competere per vincere in Italia e in Europa. In questi momenti la prima cosa che viene a mancare è la lucidità, la percezione dello stato attuale.
Lo stesso Pioli, sempre un passo avanti, appare spaesato, in ritardo, mentre si limita a ripetere che «si deve lavorare» – ma in questo momento è come spremere un’arancia già spremuta, rimettere alla scrivania un impiegato dopo 12 ore di lavoro – e sperimenta cambiamenti radicali come quello impostato ieri nel derby, più simile a una mossa della disperazione che ad un modo per uscire dalla crisi. Siamo così arrivati al paradosso per cui il Milan è sceso in campo a specchio contro l’Inter, con il 3-5-2 (l’unico modulo conosciuto e collaudato da Inzaghi) ed evidenziando tutta la differenza di valore tecnico tra le due squadre.
Il modo migliore per consegnarsi all’avversario ed entrare nelle fauci del Biscione, e infatti il primo tempo del Milan è stato impalpabile, imbarazzante, dominato in lungo e in largo e ancor peggio nettamente ridimensionato dall’Inter. Costretto a buttare palla avanti, a chiudersi dietro, a non avvicinarsi mai alla porta avversaria e a rinunciare al carattere propositivo e al palleggio che lo aveva contraddistinto (ed elevato) negli ultimi due anni. Senza parlare di giocatori messi fuoriruolo, come il fantasma di Messias in mezzo al campo, e di altri promossi a titolari senza evidenti ragioni (Origi che avrà toccato tre palloni in un’ora di gioco, schierato al posto di Leao che, secondo Pioli, non avrebbe «le caratteristiche di due punte vicine in verticale»).
«Credo che da allenatore ho chiara la situazione: se avessimo giocato il nostro calcio saremmo andati in difficoltà. Non abbiamo quelle distanze e solidità che avevamo prima. Dobbiamo fare meglio ma abbiamo trovato più densità, anche se non si può rinunciare a essere più offensivi e spregiudicati».
Stefano Pioli a DAZN, dopo la partita
Così ha poi parlato l’allenatore rossonero, in una diagnosi lucida e onesta – giocando come sappiamo avremmo perso, per mancanza di misure, solidità e fiducia, – ma dimostrando che la prognosi sull’evoluzione della malattia è ancora in alto mare. Da parte sua Pioli ha dichiarato che confermerà la difesa a tre (comprensibile per ritrovare certezze, anche se ieri era la partita più sbagliata del mondo per farlo), ma tuttavia il suo Milan non è la Roma di Mourinho o la Juventus di Allegri, che per ricompattarsi cambiano modulo a stagione in corso e si mettono a tre dietro. Il Milan è invece una squadra che si è imposta grazie al suo calcio innovativo, a un’idea di gioco superiore alla somma dei suoi individui, più simile paradossalmente all’Atalanta che alle altre ‘grandi’ del nostro calcio.
Così oggi siamo addirittura d’accordo con Arrigo Sacchi, un fatto degno di nota negli ultimi anni, che intervistato dalla Gazzetta ha dichiarato: «Il Milan non è più una squadra. L’Inter non ha giocato contro un avversario, ma contro uno sparring partner. Passare alla difesa a cinque ha creato confusione e cancellato gli ultimi anni di lavoro. Questa è la mia idea. È stata inoltre annullata qualsiasi idea di gioco». Come al solito Sacchi ragiona per ideologie e non per giocatori, per momenti, e però un fondamento di verità c’è: il Milan ha rinunciato momentaneamente al lavoro degli ultimi tempi, probabilmente per l’impossibilità di portarlo avanti con le forze attuali.
Il problema, di nuovo, è che si tratta di una squadra non paragonabile a quelle di cui sopra (che tra l’altro sono passate a tre da tempo, la Roma addirittura da un anno e mezzo, senza mai tornare indietro: può essere questo il destino del Milan?).
E non è paragonabile proprio perché si era affermato non tanto grazie ai singoli o alla compattezza di squadra, quanto invece per uno stile di gioco radicale e innovativo – sviluppato, mai dimenticarlo, in un ambiente favorevole. È questa la grande crisi rossonera di oggi: una crisi di identità, causata da un fisiologico calo atletico e mentale, che sta facendo emergere tutti i limiti di questa rosa. Crisi diversa però da quella della Juventus, che un’identità fino a un paio di mesi fa non ce l’aveva: il Milan l’aveva eccome la sua (unica e ben definita) identità, ma al momento l’ha persa. È proprio per questo che ritrovarla, o svilupparne una nuova, alle condizioni attuali appare così difficile.