Ritratti
10 Gennaio 2023

Cristiano Giuntoli, sacrificio e visione

L'uomo dietro alla rinascita del Napoli.

No man is an island. Nessun uomo è un’isola. Una citazione che ricorre spesso nella letteratura dell’ultimo secolo, enunciata per la prima volta nel verso della lirica Meditazione XVII del 1624, scritta dal poeta inglese John Donne; la utilizzeranno poi tanto Ernest Hemingway quanto il maestro spirituale Thomas Merton, e a cascata artisti, registi, scrittori. Nessun uomo è un’isola è una costante esistenziale, un assioma della vita: ogni uomo è parte di un continente, ed è dunque legato in modo imprescindibile agli altri. Nella vita, come nello sport. Questo assioma, senza dubbio, è stato fondamentale nel percorso di Cristiano Giuntoli.  

Cristiano nasce a Firenze, nel febbraio del 1972. La famiglia Giuntoli non vive di calcio ma respira calcio e sport in generale. Il nonno gestisce un bar dove grandi e piccini si ritrovano a zinzinnare cedrate, sorseggiare caffè, giocare a carte e, come in qualsiasi altra provincia d’Italia di quegli anni, a dibattere e confrontarsi sullo sport. Essendo in Toscana, si finisce spesso a parlare di ciclismo, dell’andamento del Giro e dell’intensa rivalità tra Moser e Saronni. Essendo in Italia, d’altra parte, il calcio diventa argomento di discussione cardine. Così il piccolo Cristiano, tra tavoli e sedie, comincia a sognare di diventare un calciatore professionista.

Muove i primi i primi passi della carriera calcistica nel Prato, esordendo in C2 e conquistando la C1 nell’annata 92-93. A Prato conosce anche un giovane italo-australiano di 14 anni che vuole emulare le gesta sportiva del padre Bob, tale Christian Vieri, soprannominato Bobo. Le strade di Cristiano e Christian si separano poco dopo, quando Vieri viene ritenuto troppo acerbo per le giovanili della squadra e viene spedito nella squadra satellite dell’AC Santa Lucia, sotto la guida di Luciano Diamanti, padre di Alino (l’anno successivo Bobo torna e realizza caterve di gol nelle giovanili).



In totale, con la maglia biancoazzurra, il difensore Giuntoli totalizza 7 presenze in campionato in tre anni. Si trasferisce allora qualche chilometro più lontano, in provincia di Siena, al Colligiana, nel fitto bosco del pallone dilettantesco. Non ha un talento eccezionale, benché meno la cristallina classe del campione, ma è un ragazzo intelligente e acuto, oltre che un professionista umile e rispettoso, stacanovista e disciplinato. Caratteristiche che lo rendono un uomo apprezzato e un difensore affidabilissimo per la categoria dilettantesca, dove spende la maggior parte della carriera (eccetto, oltre la prima esperienza a Prato, le stagioni 2000 e 2005): Latina, Imperia, Savona e Sanremese, le tappe della sua avventura.

Terminata la carriera calcistica si reca a Coverciano, dove acquisisce il patentino per allenare in cadetteria. Poi si laurea all’Isef, nella sua amata Firenze. Dopo una prima fugace esperienza allo Spezia, Cristiano si accasa al Carpi nel luglio del 2009 come vicedirettore sportivo, con il club appena ammesso in Lega Pro Seconda Divisione dopo aver perso gli spareggi in Serie D. Il patron del club emiliano, Stefano Bonacini, deluso dalle ultime annate, ben presto lo promuove a direttore sportivo affidandogli l’intera gestione della rivoluzione sportiva carpigiana.

È qui che Giuntoli sviluppa la sua arte, quella di una gestione oculata e lungimirante che lo accompagnerà in ogni sessione di mercato. Per dirla con il collega Pantaleo Corvino, la forza delle idee.

Antepone, a nomi blasonati, giocatori funzionali al collettivo. E compie meticolose operazioni di ricerca di giovani promesse sparse nel labirintico pallone nostrano, destreggiandosi nei bassifondi del sistema piramidale calcistico italiano. Non si sofferma solo ed esclusivamente sul talento, ma indaga sulla fame dei supervisionati, perché la ferocia agonistica consente di differenziare il talento. In terra modenese spicca per il lavoro scrupoloso e l’attenzione maniacale nella scelta dei nuovi innesti, rivelando come, anche in giacca e cravatta, non avesse perso le qualità che lo avevano contraddistinto da giocatore dilettante della provincia italiana. Lavoro e sacrificio.



Nessun uomo è un’isola. Cristiano lo sa bene e si circonda di validi – e fidatissimi – collaboratori. Nel quinquennio emiliano ripete costantemente la nostra parola d’ordine è il sacrificio, un manifesto del suo modus operandi e vivendi. Giuntoli non si limita poi al ruolo d’ufficio di direttore sportivo, ma assume le vesti del buon padre di famiglia: è onnipresente negli allenamenti, conversa con i tesserati, li incentiva, controlla la loro alimentazione e la parte atletica. Secondo alcuni, al Carpi, è solito controllare anche le condizioni del terreno di gioco per prevenire rischi di qualsiasi genere. È un uomo di calcio, a tutto tondo. Che trasuda calcio. Uno di quelli venuti dalla provincia e dalla gavetta delle categorie minori.

In sei anni Giuntoli ottiene quattro promozioni, conquistando le prime storiche promozioni in Serie B e Serie A contro ogni pronostico.

Protagonisti delle cavalcate sono perfetti sconosciuti stanati dal direttore fiorentino. Kevin Lasagna, per esempio, prelevato dall’Este in D per 75mila euro e visionato per la prima volta nella Governolese, in Promozione. Gaetano Letizia, dall’Aversa Normanna, dalla Lega Pro Seconda Divisione. Roberto Inglese, dal Lumezzane. Riccardo Gagliolo, dall’Imperia, in D. Il trionfale percorso al Carpi – un miracolo di gestione elogiato anche da Gianni Mura, come ricorda Massimiliano Gallo su Rivista 11 – attira le sirene di numerose squadre della massima serie. Prime tra tutte quelle del Napoli e del suo presidente, Aurelio De Laurentiis, da sempre sapiente (e oculato) imprenditore prestato al calcio.

De La intuisce le capacità sportive e umane di Giuntoli, il profilo ideale per una politica di investimento sagace e prudente, volta alla creazione di un costante profitto per la società: lo scopo è scovare, modellare e valorizzare i campioni del futuro, non acquistarli “belli e fatti”. A Napoli, con le dovute oscillazioni, Cristiano Giuntoli non varia il suo copione. Cerca incessantemente il talento ai margini del grande calcio e del mondo stesso, con lo scopo di scovare quello che gli altri non vedono (Kim e Kvara, in questo, sono due colpi esemplari di Giuntoli): di nuovo tornano la fame, le qualità umane dei calciatori. Nel frattempo chiama con sé i suoi fedelissimi, come Giandomenico Costi, che fa parte del suo staff già dal 2009 ai tempi di Carpi.

Silenzioso, moderato, discreto, sobrio. Coltiva dolcemente i rapporti con la stampa, senza mai eccedere. Si presenta dicendo che «nel calcio si può perdere, ma allora si parlerà di non-vittoria. La parola sconfitta non deve fare parte del nostro vocabolario». Eppure l’inizio non è semplice. Napoli è una piazza istintiva e passionale, nel bene ma anche nel male. Cristiano non convince, specialmente la stampa: in lui non si riscontrano lo spirito e le capacità da leader di cui una società come il Napoli, affermatasi ormai a livello europeo, ha bisogno; più che un dirigente, Giuntoli sembra un impiegato. Il direttore persegue però ostinatamente la sua strada e, pure ad alti livelli, mantiene un’altra visione del calcio, forgiata in decenni di categorie minori e di budget ridotti.



I primi anni passano in sordina, senza bagni di sangue sul mercato (eccetto forse la finestra estiva 2020) ma con acquisti che, rientrando nei parametri societari, si inseriscono nello spirito e nell’idea partenopea – se nessun uomo è un isola, nessun direttore sportivo può fare al meglio il suo lavoro senza una profonda sintonia con l’allenatore. Così Giuntoli, con la sua solita attitudine guardinga, quietamente, scolpisce la formazione artefice dell’anno sarrista per eccellenza, quella del 2017-2018, che offre una serie di prestazioni clamorose, di stordente bellezza. La stagione termina con 91 punti, senza però l’agognato traguardo dello scudetto.

Non è abbastanza. Il Napoli non ha vinto e con l’andare del tempo molti iniziano ad attaccare Giuntoli, accusandolo di essersi adagiato troppo sul mercato di “Beniteziana” memoria, quello dell’arrivo massiccio di giocatori di tempra internazionale all’ombra del Vesuvio. Lui non si scoraggia, tutt’altro. Nel 2019 parte un rinnovamento della rosa nel nome, queste le sue parole, della «continuità sportiva e dell’autosussistenza economica». Perifrasi che fanno di-sperare i tifosi. Le ristrettezze economiche riportano però Giuntoli alle origini, ai mercati delle idee, alla ricerca di giocatori duttili e utili, tecnici e dinamici, che possano dare il loro apporto alla causa – Anguissa, riscattato dopo un anno di prestito a meno di 15 milioni, vi dice niente?

Il direttore insomma non asseconda le regole di un mercato pazzo, né cede al gioco al rialzo (e al massacro) che contraddistingue i trasferimenti calcistici odierni. Se non per un uomo: Victor Osimhen. Per lui, come scrive la Gazzetta, Giuntoli «fa la scommessa più grande della sua carriera. Una sorta di all-in a Texas-holdem, una giocata che la carriera te la può anche stroncare (…) Decide di puntare tutto su di lui per il futuro del Napoli» e «in pieno Covid, convince il presidente De Laurentiis a investire sull’attaccante nigeriano». Una scommessa, l’unica e chirugica, stravinta.

Per il resto, tra i fuochi pirotecnici di altre compagini, la cautela partenopea desta non poche critiche.

Nella stagione post rinnovamento il rendimento del Napoli è altalenante; vince la Coppa Italia con Gattuso (chiamato a sostituire Ancelotti) ma in campionato arranca tremendamente, finendo settimo. L’anno successivo, dopo una discreta stagione, perde la qualificazione alla Champions League con lo psicodramma dell’ultima giornata (dove non vince in casa contro il Verona). Tutti sul banco degli imputati, Giuntoli in primis, tacciato di essere una pedina nelle mani del padre padrone Aurelio. La squadra viene quindi affidata a Luciano Spalletti: l’anno seguente il Napoli esprime un ottimo calcio, fino ad acciuffare la Champions con un terzo posto agrodolce.



Estate 2022, il rinnovamento cominciato tre anni prima raggiunge il suo apice. Fuori, tra gli altri, Koulibaly, Insigne, Mertens, Ospina e Fabian Ruìz, attori azzurri di primissimo piano. Una rivoluzione che assomiglia a una smobilitazione, e che fa cadere la tifoseria nello sconforto totale. La sfiducia cresce quando, nel pieno stile del direttore, i “vecchi” beniamini non vengono sostituiti da profili rinomati bensì da perfetti sconosciuti pescati nella periferia, del calcio e del mondo. In particolar modo tre “pilastri” del rinnovamento fanno storcere il naso.

Al capitano Lorenzo Insigne subentra tale Khvicha Kvaratskhelia, funambolica ala georgiana, proveniente dal per nulla esaltante campionato nazionale dopo un’ottima parentesi russa. Al posto del comandante senegalese della difesa (e napoletano acquisito) Kalidou Koulibaly, il miglior centrale del campionato italiano, viene prelevato dal campionato turco un gigante coreano dal volto buono e dal temperamento guerriero, Kim Min-Jae, detto il Mostro. Infine Giacomo Raspadori, talento italiano, pagato (strapagato per la critica) 35 milioni di euro, in luogo dell’idolo delle folle Dries Mertens, Ciro per i napoletani. Mercato fallimentare. Ridimensionamento. Tifosi inferociti, stampa inviperita.

Gli ottimisti dicono che almeno, dopo l’inevitabile crollo, il presidente venderà il Napoli e si terrà il Bari. E potrà ripartire un nuovo ciclo.

Ma. Si, qui c’è il grande ma della carriera di Cristiano Giuntoli, che con questo mercato si gioca tutto. Il “ma” sono le prestazioni del Napoli 2.0 di Luciano Spalletti: dominanti, stupefacenti, strabordanti, irriverenti, a tratti imbarazzanti per i malcapitati avversari. La squadra, nonostante sia neonata, si trova che è una meraviglia e tocca cime di bellezza paragonabili alla meravigliosa epopea sarrista. Il Napoli è un rullo compressore che non conosce la sconfitta, che unisce l’etica all’estetica. Giganteggia in Italia – con un incredibile 13-2-0, 13 vittorie e 2 pareggi fino alla pausa – e in Europa – primo nel girone, con successi roboanti e storici contro il Liverpool al Maradona, (4-1), e l’Ajax alla Johan Cruijff Arena (1-6), che attirano elogi planetari.

Essenziali sono proprio gli innesti di Giuntoli, soprattutto quei due semisconosciuti, il coreano e il georgiano, costati neanche 30 milioni totali (sic!). Il primo fa dimenticare in fretta il fu comandante e capitano Koulibaly, sfornando superbe prestazioni in serie. Il secondo, senza mezzi termini, spacca il calcio italiano (e non) con la sua classe cristallina, l’andatura claudicante, lo stile di gioco divertente, emozionante, tremendamente romantico: un giocatore che non solo ha un impatto statisticamente devastante ma che sembra venire da un mondo antico, sconosciuto e dimenticato. Quindi gli altri innesti, da Raspadori a Simeone, inseritisi perfettamente negli ingranaggi del Napoli spallettiano.



E Giuntoli? Si sono accorti un po’ tutti di lui, finalmente, ed è diventato a sua volta un obiettivo di mercato (della Juve su tutti, a proposito di rifondazioni). Il DS è considerato l’artefice, lo scultore – eclissato e silenzioso – del Napoli perfetto di inizio stagione. In tanti hanno scoperto il ‘metodo Giuntoli’ e riconosciuto lo straordinario lavoro del direttore sportivo: sempre composto, sempre moderato, ligio al lavoro e al sacrificio. Mai protagonista, costantemente con la prima persona plurale e mai con quella singolare. Il toscano declina l’eccesso di elogi e li riflette sul presidente, l’allenatore, lo staff ed i suoi uomini, schiva la vanagloria effimera del successo mediatico e tira avanti, innalzando i collaboratori che lo hanno sempre sostenuto.

«Siamo molto orgogliosi perché per tanti anni siamo stati sottovalutati e invece il calcio lo sappiamo fare, pensare e attuare. Le risorse degli ultimi anni sono quelle che sono, ma sono convinto che ne verremo fuori alla grande».

D’altronde, afferma, «i tempi del mercato non li dettiamo noi, bisognava che si creassero le condizioni. E comunque che si ragionasse in profondità senza condizionamenti umorali. Le cose succedono. E il Napoli aveva ormai preso atto di dover aprire un ciclo nuovo». Lavoro, pazienza e visione, con gli immancabili rischi del mestiere. Perché nessuno sa come finirà questa esaltante stagione azzurra, ma nel frattempo un grande risultato è già stato portato a casa: la transizione del Napoli, il suo anno zero che avrebbe dovuto segnarne il tracolloo il ridimensionamento del club è stato invece un momento di rinascita. Tecnica e finanziaria.

Fino al risultato, paradossale, che oggi la rosa azzurra vale già più di quando aveva i suoi giocatori più pesanti, rappresentativi, i suoi top player – su tutti Koulibaly e Fabian Ruiz, senza voler citare Insigne e gli altri. Pesanti anche dal punto di vista dell’ingaggio, cosa che ha permesso a Giuntoli, e soprattutto a De Laurentis, di ridurre il monte ingaggi di ben 35 milioni all’anno (già solo Koulibaly costava al Napoli 13 milioni mentre Kim 3.5, Insigne 10 mentre Kvara 2; e poi i gravosi stipendi tagliati di Fabian, Ospina, Mertens, Ghoulam).

Tanti meriti di questo Napoli sono allora di Spalletti, dei giocatori; ma anche di chi li ha scelti, quei giocatori. Un direttore sportivo calmo ma ambizioso, che agisce dietro le quinte con furbizia, giocando e calcolando d’anticipo. E che al talento innato della visione – una sensibilità calcistica che non tutti hanno – ha unito un suo vecchio mantra esistenziale. Quale? Non siete stati attenti. Fame e sacrificio.

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