Chi vive per il tutto, e non può raggiungerlo, piuttosto sceglie il nulla.
Nelle ultime settimane, dopo e durante la Piazzale Loreto mediatica allestita per Cristiano Ronaldo, passato dall’essere il più forte calciatore della sua epoca insieme a Messi ad un ferrovecchio di cui disfarsi al più presto, in tanti con un minimo di memoria e buon gusto avevano empatizzato con il portoghese. Un trattamento ingeneroso quello ricevuto dall’ex 7 dello United, una gogna social squallida, spiacevole, a tratti disturbante. Bisogna pur dire che Cristiano Ronaldo, negli ultimi mesi, ci aveva messo tanto del suo, avanzando a grandi passi verso un suicidio mediatico-sportivo quasi inspiegabile, tra comportamenti ultra-egoistici e uscite a dir poco stonate (suicidio completato con la firma per l’Al Nassr, ma ci torneremo).
Sì perché il campione di Madera, sempre così centrato, attento alla sua immagine e al suo personaggio, non ha minimamente saputo gestire il finale di carriera, chiuso nella torre d’avorio di una egomania quasi patologica. Non è stato capace di compiere quella transizione, per semplificare, che ha fatto uno come Ibrahimovic al Milan: mettersi pian piano da parte pur restando un leader e anzi diventandolo ancora di più (umano, prima che tecnico); un esempio per i compagni che trovasse il modo di rinunciare a qualche flash e riflettore per il bene della squadra. Così Cristiano, anziché un valore aggiunto, è diventato un valore sottratto per gli spogliatoi di Manchester United e Nazionale portoghese: una grande questione irrisiolta che ha dato adito a polemiche, retroscena, destabilizzazioni.
E che ha lasciato sul campo diverse vittime e nessun vincitore. Tanto lui quanto le sue squadre, tanto lui quanto i suoi allenatori: ten Hag, privato di credibilità, e Santos, privato della panchina.
Non arrendendosi all’età, ad un fisiologico declino vissuto come una minaccia profonda ed esistenziale –lui o è il numero uno o non è – CR ha dichiarato guerra al mondo (allenatori, alcuni compagni, altri tifosi, buona parte dell’opinione pubblica) senza più le forze per sostenerla. E se è vero che anche i più discussi comandanti rimangono in sella finché accumulano vittorie e trascinano i propri eserciti, è innegabile che nel momento dei rovesci siano i primi a subire gli ammutinamenti. Così il portoghese ha accumulato errori di valutazione su errori di valutazioni, macchiando una carriera che, nell’ultimo anno e mezzo, ha decretato un fallimento umano ancor prima che sportivo.
Una caduta irreversibile, con Mendes che vagliava le opzioni più disparate pur di garantire un club prestigioso al suo assistito e tutte le (più o meno) grandi società che facevano sapere di non essere interessate a farsi carico di uno stipendio così pesante e di un calciatore così ingombrante – per uno come Ronaldo l’ingaggio è anche uno status, e forse anche per questo non ha accettato di tagliarselo drasticamente pur di approdare negli Sporting Club, Napoli o Roma di turno, club di seconda fascia internazionale che però gli avrebbero consentito di diventare un mito di popolo (sempre che questi fossero realmente interessati). Fatto sta che, al di là delle ipotesi, lo scivolamento lento di CR è diventato nelle ultime settimane uno sprofondamento rovinoso, culminato con la firma in Arabia.
È come se non avesse retto al Qatar, se il superuomo Cristiano Ronaldo fosse crollato psicologicamente dopo le polemiche e le esclusioni con la sua Nazionale.
Fino al colpo di grazia rappresentato dal trionfo dell’Argentina e di Lionel Messi, suo rivale di sempre con il quale non si è nemmeno complimentato via social: un Messi, finalmente assurto a leader caratteriale e tecnico in Nazionale, con cui fino a qualche settimana fa era ancora in piedi il paragone, il dualismo immortalato nella foto che li vedeva giocare a scacchi insieme; Ronaldo vs Messi, la trasposizione calcistica del Federer vs Nadal (prima che arrivasse Djokovic). Chi si schierava con l’uno chi con l’altro, in una dicotomia non solo sportiva ma anche esistenziale. In Qatar l’argentino ha però zittito i Bar sport di mezzo mondo, in un allungo definitivo verso un livello superiore nella storia del calcio; e oggi, nessuno si sogna più di mettere Cristiano allo stesso livello di Lionel.
Per questo Ronaldo ha deciso di tirare le fila del suo fallimento e di diventare cattivo fino in fondo, l’antagonista di questa storia. Non ha saputo accettare la sconfitta (per chi come lui ragiona in simili termini) fino al punto di mandare tutti metaforicamente al diavolo e di venderla l’anima, al diavolo, firmando con i sauditi dell’Al Nassr. Si potrebbe pensare che è una questione di soldi, ma davvero era questa la priorità di Cristiano Ronaldo? Gli si rinfacciano in queste ore le sue dichiarazioni del 2015, in cui spiegava a Piers Morgan di voler chiudere la carriera in modo dignitoso, in un grande club, non negli USA, in Qatar o a Dubai – all’Arabia Saudita non ci aveva neanche pensato.
«Voglio finire ai massimi livelli. Voglio finire con dignità, bene, quindi con un buon club. Ciò non significa che andare in un posto come USA, Qatar o Dubai non vada bene, ma non mi vedo… non fa per me».
Non erano dichiarazioni a favore di telecamera, Cristiano lo pensava veramente e anzi troppo piano ci era andato. Come lo pensava, probabilmente, fino a qualche settimana fa, prima dell’epilogo qatariota e di prendere la decisione di sparire dal mondo, nel deserto dorato saudita. È quasi paradossale, empatizzare con un calciatore che prenderà centinaia di milioni nei prossimi anni e che poi avrebbe già un ruolo da ambasciatore di Arabia Saudita, Egitto e Grecia per il mondiale 2030. Un po’ lo facciamo, ma non possiamo negare che il ritiro di Cristiano Ronaldo sia tutto fuorché dignitoso: anzi, è imbarazzante. Una macchia indelebile sul finale, laddove il portoghese non è stato capace di affrontare una nuova fase della sua carriera e ha deciso a quel punto di distruggere tutto. O tutto o niente. O Roma o morte, non c’erano vie di mezzo.
Dopo aver compreso che nessuno lo avrebbe considerato il più grande della sua epoca – un sogno che cullava sperando di vincere lui il Mondiale da protagonista con il Portogallo, e in quel caso chissà come sarebbe andata – Cristiano ha deciso allora di demolire tutto, a partire da se stesso. Comprensibile ma, almeno per chi scrive, calcisticamente ingiustificabile. Tuttavia, non approfittiamone per dimenticarci di cosa è stato Cristiano Ronaldo per il calcio: forse il più grande tra i ‘normali’, tra i ‘non eletti’ (Pelé, Don Diego, lo stesso Messi) nella storia di questo sport. E anche il miglior marcatore, della storia di questo sport. 837 gol in 1181 partite. Un’autentica leggenda, che nessun emiro e nessun epilogo – triste, solitario y final – potranno mai cancellare.
Il 'Principino' è stato fondamentale per il rilancio della juventinità, qualità indispensabile per ricostruire il ciclo vincente ancora in corso. Apologia di Marchisio, digià dimenticato.