Recensioni
26 Novembre 2021

Curve pericolose: quando le gradinate minacciano il potere

Intervista-recensione a Giuseppe Ranieri, penna militante sulla strada e sui gradoni.

Posso le tifoserie organizzare rappresentare una forza in grado di soverchiare il potere costituito? Possono le curve rappresentare il primo focolaio di controcultura all’interno di una comunità? Queste sono le domande sollevate in “Curve pericolose – Antagonisti, sovversivi, antifa’: quando le gradinate minacciano il potere” (Il Galeone editore, 2021), un’indagine che ci porta sulle gradinate di quattro continenti alla ricerca di una risposta, che tuttavia spetta al lettore maturare. Tunisia, Egitto e Turchia, Santiago e San Paolo, il filo rosso interseca le vicende del tifo israreliano, cipriota e greco, fino ad arrivare alla Scozia ed al quartiere di Sankt Pauli; lega anche il primitivo e ipercapitalistico soccer, l’intreccio di tifoserie che divengono prime oppositrici di un regime, anima delle proteste popolari di piazza, voci stonate in un silenzio imposto dallo stato poliziesco.

A condurci lungo questa trama, tra sovversivi, ribelli e pirati, sono Matthias Moretti e Giuseppe Ranieri, penne militanti nell’ambiente. Quest’ultimo torna a rispondere alle domande di Rivista Contrasti, offrendo chiavi di lettura che aprono prospettive sulla realtà che viviamo quotidianamente, non soltanto allo stadio.

Come spiegate nell’introduzione, alle vostre orecchie “Fuori la politica dalle curve” suona come uno slogan piuttosto vuoto: perché l’attività del tifo organizzato è politica per definizione?

Si tratta ovviamente di una provocazione, volta a scardinare da un lato un diffuso rifiuto del concetto di politica generalizzato nella popolazione – e di conseguenza anche negli ultras – ma d’altro canto anche un certo tipo di dogmatismo delle curve. Spesso e volentieri la politica in curva si identifica con la semplice esposizione di simboli oppure, peggio ancora, con le campagne elettorali, e sarebbe ipocrita negare che nelle sue forme “più volgari” porta divisioni e malumori. Ma in fin dei conti, prendere posizione sull’ennesima delocalizzazione che lascia in mezzo a una strada centinaia di famiglie della propria città, schierarsi contro un ecomostro colpevole dell’incremento esorbitante del tasso dei tumori, oppure contro gli abusi della polizia o contro la malagestione dei territori ecc… cos’altro è se non una presa di posizione politica?

Una cosa è non voler avere a che fare con le pratiche elettorali e con le adesioni partitiche, un’altra è sostenere che non ci sia una coscienza interiore collettiva e che manchi la capacità di esprimere giudizi. Ecco, questo è implicitamente politica; volendo tagliare il capello con l’accetta potremmo parlare di pre-politica, ma essa implicherebbe che comunque una visione politica c’è – sebbene, magari, si tratti di forme politiche nuove e diverse dagli schemi che abbiamo interiorizzato negli scorsi decenni.

Nell’area del Magrheb, storicamente il contesto giovanile non è stato mai caratterizzato da una diffusa presenza di sottoculture o movimenti underground, complice una condizione socio-culturale per molti aspetti conservatrice e tradizionalista. Quella ultras, invece, ad oggi risulta l’unica diffusa e partecipata. Come spiegare questa circostanza?

Ci sono una serie di motivazioni che potrebbero spiegare ampiamente il ritardo dello sviluppo delle sottoculture, sebbene comunque parallelamente al boom degli ultras, anche altri contesti abbiano vissuto momenti di forte crescita (probabilmente quello dei graffiti su tutti). Al di là delle differenze tra i vari contesti nazionali, la costante dei regimi maghrebini è quella di una società controllata in tutti suoi aspetti grazie a una soffocante presenza delle forze di sicurezza. Per molto tempo, gli unici due luoghi in cui questo controllo estenuante si allentava sono stati gli stadi e le moschee, diventando così inevitabilmente un punto di incontro per i soggetti più inclini alla ribellione e alla sovversione. I risultati ormai sono diventati storia.



Nel libro spiegate come, nonostante i regimi abbiano utilizzato il pallone come veicolo per depoliticizzare le masse, in realtà il calcio si sia rivelato come lo sport conflittuale per natura. Cosa rispondere a coloro che insistono sull’equivalenza ad “oppio dei popoli”?

Beh diciamo che, fino a non molto tempo fa, con chi insistesse con questo adagio non ci avrei perso proprio tempo, perché si sarebbe trattato o di una persona ottusa, o dichiaratamente in malafede. Purtroppo c’è da dire che mai come in quest’ultimo periodo in cui si gioca praticamente ogni giorno a ogni ora, e grazie anche a un certo giornalismo malsano che ha ormai preferito il gossip all’aspetto tecnico, i giudizi dei social alle implicazioni sociali,  il calcio non solo si è progressivamente allontanato dal ruolo “sociale totale” di fatto, che aveva fino a un paio di decenni fa, ma ha creato una categoria di persone inebetite sul divano davanti alla televisione, che sono tanto di più lontano da quello che viviamo noi sugli spalti e che si avvicinano alla definizione citata nella tua domanda. Non vedo una grossa differenza tra chi si rincoglionisce davanti ai programmi di Maria De Filippi e chi segue – ad esempio – Tiki-Taka.

Tra le differenti realtà raccontate, quale può essere considerata la più sorprendente e quale invece può rappresentare un monito per le nostre tifoserie? Dove potremmo aspettarci una nuova sollevazione popolare guidata dai tifosi? 

Partendo dall’ultima parte della tua domanda, concedimi una verità e una mezza battuta: siamo sicuri che non ci siano tifoserie che guidano o partecipano attivamente a sollevazioni popolari? – Certo, sempre commisurate al livello italiano, in cui nella stragrande maggioranza dei casi restiamo ancora impantanati a un livello simbolico e mediato del conflitto, e che comunque vive quei pochi conflitti incisivi su piano territoriale – D’altro canto, non mi permetterei mai di sostituirmi ai molteplici 007 e funzionari del Ministero degli Interni, che da anni svolgono questo tipo di lavoro e di indagini, male – forse malissimo- ma forse è anche grazie alla loro impreparazione, mista a malafede, che ancora ci sono situazioni simili.

A parte gli scherzi e le provocazioni, confrontandomi con chi ha letto il libro, ho notato che ognuno ha apprezzato o comunque è rimasto sorpreso dalle molteplici e varie realtà, e dagli scenari differenti l’uno dall’altro. Per quello che mi riguarda, mi ha totalmente sorpreso il caso israeliano, che non conoscevo quasi per niente all’inizio di questo lavoro, mentre quello statunitense andava a prendere consistenza proprio durante la stesura; invece i casi di Turchia, Egitto e Brasile li conoscevo in parte, ne ero già affascinato e mi ci sono approcciato in maniera “accademica e passionale” allo stesso tempo, reputando questi i casi che possono insegnare maggiormente agli ultras di casa nostra.



Un domani, saranno forse le palestre a rappresentare gli epicentri dell’antagonismo che si sta cercando di eliminare definitivamente dalle curve?

Ho frequentato alcune palestre popolari e ad altre sono legato da vincoli di sangue e cuore, e sicuramente il mio giudizio su queste realtà non può che essere ampiamente positivo. Tuttavia penso che proprio a livello “deontologico” le curve e le palestre popolari non siano esattamente sovrapponibili per mission e per condizioni di partenza, a cominciare dal tipo di rapporto con la violenza che li pone quasi agli antipodi.

Nel nostro Paese, il movimento “Basta Abusi”, nato con l’intento di delineare in maniera univoca la protesta di un nutrito numero di gruppi ultras, ha fatto emergere delle spaccature interne al panorama del tifo, riproponendo uno scenario simile a quello palesatosi anni fa in occasione della protesta contro la Tessera del tifoso. Quali reputi essere i fattori che non permettono in Italia una presa di coscienza comune e condivisa relativa alle problematiche riguardanti il mondo del tifo organizzato?

È vero, si è riproposto uno scenario simile a quello di qualche anno fa per la protesta contro la Tessera del Tifoso, che a sua volta riproponeva uno scenario simile a quello che ha portato alla depauperazione del fu Movimento Ultras e alla divisione all’interno dello stesso; volendo si potrebbe andare ancora più a ritroso, a dimostrazione che probabilmente le divisioni sono insite nell’indole degli ultras e non potrebbe essere diversamente: se l’ultras è una fedele espressione dell’anatomia sociale della propria realtà territoriale, è difficile che curve di provincia abbiano le stesse motivazioni ed esigenze di quelle metropolitane, o che gruppi elitari abbiano lo stesso sentito di quelli onnicomprensivi, e potrei farti altri mille esempi. Aggiungici anche il classico “celodurismo”, che ormai impera nelle curve, e che i pollai con troppi galli non hanno mai fatto una bella fine; soprattutto se qualche gallo a un certo punto si sente volpe o peggio ancora leone, re della foresta con qualche pollo al seguito, e il gioco è fatto…

Certo, resto dell’idea che, magari, abbassando il tiro e concentrandosi su questioni meno universali (come ad esempio il caro-biglietti, o l’aberrante questione dell’obbligo di firma in piena pandemia), in maniera più incisiva di uno striscione, forse si sarebbe potuto ottenere qualcosa in più.

Recentemente hai partecipato alle celebrazioni per i quindici anni dalla scomparsa di Valerio Marchi. Quale eredità ha lasciato lo “studioso militante” nell’approfondire i movimenti giovanili?

Sicuramente l’eredità lasciata da Valerio Marchi è non solo enorme, ma è un punto di riferimento imprescindibile da cui partire per approcciarsi in maniera allo stesso tempo appassionata, militante e rigorosa a questo tipo di studi. Fortunatamente, alle spalle di questo ricordo si è levata una generazione di teppa pensante (mi vengono in mente i vari Domenico Mungo, Claudio Dionesalvi e Francesco Berlingieri, giusto per citare i più visionari e illuminati allo stesso tempo), che è stata quella che per prima ha sdoganato il pensiero e le proposte interpretative di Valerio Marchi ed è stata in grado di tramandarli fino alla mia di generazione.

Il mio augurio è che anche noi riusciremo a fare lo stesso con chi arriverà dopo e accrescerne il prestigio, perché il valore delle eredità è cangevole nel tempo e dipende anche da cosa si fa per mantenerle, possibilmente accrescendole, ma soprattutto di tramandare il valore della ribellione e di quella “teppa” che la dovrà tradurre in sovversione e azione sociale.  

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