Una volta la bicicletta, primo amore dell'Arcitaliano, era un rito di popolo.
Quando Curzio Malaparte rientra dal fronte nella natia Prato, ha una medaglia sul petto ed i polmoni bruciati dall’iprite. Negli occhi il valore dei santi maledetti che si sono immolati a Caporetto, nel cuore il disprezzo per i codardi nell’Alto Comando. A casa lo attende la madre ed una lei, che rappresenta il primo amore di quella generazione che, nemmeno ventenne, si è lanciata nell’avventura della Grande Guerra. È la sua bicicletta: invecchiata ed arrugginita, ma con il sorriso d’acciaio che splende timidamente nella penombra dell’anticamera.
La sua linea è rimasta immutata e perfetta, il profilo slanciato, elegante ed essenziale. Un veicolo machiavellico e arcano, che per magia rimane in bilico su quei due cerchi che ricordano i disegni perfetti di Giotto. Che delusione sapere che questa prodigiosa invenzione non sia stata frutto del genio italiano, come un capolavoro di Leonardo o Michelangelo, o almeno francese e quindi pur sempre latino; purtroppo è la creazione di un innominabile cittadino di Leeds. Eppure la bicicletta ricorda proprio una bella ragazza, una giovane fiorentina, così vivace e spiritosa. E anche se il conterraneo Bartali preferirebbe forme più giunoniche, Malaparte non si stupirebbe se quel corpo fatto di telaio, manubrio e ruote significasse l’amore.
“In silenzio trafigge lo spazio, in silenzio penetra nel tempo. Senza un briciolo di pudore, viola tutti i misteri del paesaggio, dell’orizzonte, della natura. Scivola sulla strada come sul filo di un rasoio, inclinandosi con grazia nelle curve, dondolando dolcemente in salita, gettandosi alla cieca verso le verdi vallate, verso l’abisso delle pianure assolate.” (1)
I suoi primi ricordi dei pedali sono legati alla figura del padre, autentico pioniere delle due ruote lungo le strade di Firenze. Invece il colpo di fulmine si abbatte su Curt Erich Suckert all’età di otto anni, mentre si trova con i suoi genitori sulla cima della Cremosina in Piemonte, sul percorso della corsa ciclistica “Ai monti, ai laghi, al mare”. Ad un tratto, da una curva sbuca il centauro Gerbi che gli ruba la paglietta dalla testa e si invola inseguito da Petit-Breton: il bambino rimane stregato, folgorato dai due eroi che animano la sua Iliade sportiva.
Se questo episodio sia realmente accaduto, oppure sia un riuscito esempio di autobiografia fittizia (“autofiction”) che farà la fortuna della letteratura del nostro protagonista, non è dato saperlo; allo stesso modo, leggenda vuole che, colto da slanci di irreprensibile vitalismo, pedalasse nudo per ore sotto il sole, prima di collassare nella sua villa di Capri. Ancora, si dice che avesse progettato un viaggio in bicicletta attraverso gli Stati Uniti, da costa a costa, un’ originale iniziativa sponsorizzata dalla Coca Cola; negli intenti di Malaparte una traversata a metà tra la denuncia degli eccessi della motorizzazione e l’autopromozione, arte in cui eccelleva come il mai amato e riconosciuto padre putativo D’Annunzio.
Senza dubbio la sua passione per le due ruote è autentica, tanto che sceglie un mitologico dualismo tra ciclisti per descrivere i due volti dell’Italia che esce dalla Seconda Guerra Mondiale. Così nel 1949, sulla rivista francese Sport Digest ecco “Le deux visages de l’Italie: Coppi e Bartali”, pubblicato a ridosso dell’inizio del Tour, nello stesso anno in cui vede le stampe anche lo sconvolgente romanzo “La pelle”. In questo saggio però sarebbe riduttivo ritrovare soltanto la luce dell’infatuazione giovanile, e infatti la trentina di pagine sembra riassumere i tratti più caratteristici dello stile, artistico e non, dell’Arcitaliano.
Innanzitutto, si può credere che Malaparte scelga proprio la bicicletta per restituireuna fedele testimonianza del proprio tempo. Infatti, se all’inizio del secolo questa rappresentava l’inarrestabile incedere della modernità, nel Secondo Dopoguerra è la materializzazione dello speranze dei compatrioti sopravvissuti alla guerra, i vinti che recitano tale copione più per convenienza che per convinzione. Dal punto di vista prettamente sportivo, insieme al calcio che riparte sotto l’intramontabile bandiera del Grande Torino, il ciclismo è la grande passione del Paese e lo scritto di Malaparte è rivolto proprio alla massa, al di là di qualunque intellettualismo.
Per questo motivo la sua penna sarà paragonata a quella di Pasolini, così come per il suo carattere di “intellettuale d’intervento” che descrive la realtà da una prospettiva esclusivamente soggettiva. Tant’è che nessuno dei cronisti sportivi, che all’epoca seguivano il Giro o Le Grand Boucle, può affermare di averlo visto alle corse, tra i Buzzati ed i Montanelli: alla prosa espressionista di Malaparte, seguire fisicamente le gare non avrebbe portato nessun arricchimento. In effetti, si potrebbe concludere che nessuno meglio di lui avrebbe potuto cogliere i mutamenti in atto nel Paese di cui aveva incarnato ed estremizzato i vizi e le virtù, l’Arcitaliano che aveva realizzato la propria endiadi vita-opera.
“Se Bartali è più uomo, Coppi è più sportivo” (2)
Entrambi di origini popolari, agli occhi di Malaparte Bartali e Coppi rappresentanole due principali correnti del pensiero italiano dell’epoca. Il primo crede nelle tradizioni, nelle famiglia e nella fede, un fervente cattolico che pedala con un angelo che lo veglia dal manubrio. Sostenuto dalla Provvidenza, non teme di mostrarsi mentre prega alla partenza, all’arrivo, oppure durante le salite più aspre. Viceversa Coppi è definito come razionalista, un cartesiano che crede solo in sé stesso e nella fatica che è disposto a sopportare; privo di santi in Paradiso, il suo animo scettico non teme le dannazione eterna, bensì il secondo gradino del podio, al di sotto del pio rivale. Allora Ginettaccio è un uomo nel senso antico e metafisico della parola, mentre Fausto è un meccanico, attento alla messa a punto del suo corpo-macchina.
Anche se entrambi figli di contadini, in Bartali prevale l’anima della Toscana contadina, intelligente di mistica elementare e radicata ai valori tradizionali della terra; mentre Coppi è cresciuto nel Piemonte patria dell’industria italiana, dove l’agricoltore ha ormai ripudiato i campi per vestire la tuta dell’operaio ed accrescere le fila del proletariato. Il nativo di Ponte a Ema ha conosciuto prima l’aratro e poi la bicicletta, invece lo scalatore di Castellania ha abbandonato la terra per correre sulle due ruote in strada. Il toscano ha un fisico che predilige lo sforzo prolungato, un prodigio di ossa, muscoli e tendini, i cui sforzi sono scanditi dal battito del suo cuore di uomo. Coppi è un robot prodotto del progresso tecnologico, un automa scattante, la cui propulsione è data da pistoni che pompano benzina nelle vene.
Per descrivere le sue azioni, i cronisti ricorrono al gergo della tecnica e della meccanica; mentre le gesta di Bartali sono narrate con gli stessi accenti con cui sono state esaltate le imprese degli atleti sin dai tempi di Olimpia. Quindi eroe questo, campione l’altro. Se vogliamo, il toscano è tra gli ultimi esponenti di un mondo sotterrato dalla guerra, un universo romantico e decadente, incendiato dal culto del superuomo:
Bartali rappresenta lo spirito eroico della vecchia Europa, non sopravvissuta al primo quarto del ‘900. Il suo avversario è il volto della generazione che la guerra ha liberato da un’eredità ormai insostenibile, l’idolo di una gioventù divenuta scettica e disincantata, votata al materialismo. Un uomo al centro di una comunità sorretta da valori secolari, contro un individuo disperso nella triste solitudine della modernità.
La minaccia relativa all’avvento della tecnologia e la nostalgia per un superato spirito europeo sono altri due temi che Malaparte riesce ad individuare nel duello più celebre del ciclismo italiano. Un’epica lotta tra due campioni perfetti, che però non saranno mai opposti da un odio di carattere personale; infatti secondo l’autore di Kaputt, tra i due correrà sempre una sana quanto disinteressata rivalità agonistica.
Il loro antagonismo è il fatale confronto tra due differenti concezioni del mondo e dell’esistenza, perchè ogni impresa sportiva è un simbolo. Per Malaparte, nel susseguirsi di vittorie e sconfitte, trionfi e delusioni tra questi due titani della bicicletta, non possono che ritrovarsi le vicende umane, delle generazioni e dei popoli. Forse, come già Pindaro millenni prima, in questi atleti egli ritrova l’incarnazione della sofferta corsa degli uomini verso la pace, la libertà e la felicità.
Nota (1) e (2) tratte da “Coppi e Bartali” di Curzio Malaparte (Adelphi, 2009)
Fonti bibliografiche: “Coppi e Bartali” di Curzio Malaparte (Adelphi, 2009)