Il presidente della UFC è una delle figure più influenti dell’intrattenimento sportivo moderno.
Se provaste a cercare su Google il nome di Mark Bergeron, trovereste più di sei milioni di risultati corrispondenti al vostro input. Nascosto tra ex giocatori di hockey, manager, un cantante e addirittura un regista, trovereste un simpatico e anziano nerd, che su LinkedIn sfoggia una pittoresca immagine profilo in cui è raffigurato assieme a due cosplay di estrazione preistorica. Sfogliando il suo curriculum è chiaro che ha avuto una vita piuttosto regolare: tecnico e ingegnere informatico per la maggior parte della sua vita. Mark Bergeron è uno dei tanti ordinary Joe che popolano gli States, nell’accezione più positiva che si possa dare a questo termine per un lavoratore così qualificato. Come possa un uomo del genere essere implicato in affari sportivi può sfuggire a primo impatto, ma col senno di poi il suo ruolo ha un peso specifico fondamentale.
È lui l’interlocutore telefonico più frequente di Dana White nei primi anni 2000.
Nessun caso di omonimia: quel Dana White è lo stesso figuro dal sorriso smagliante e l’eloquio facile che oggi riempie i teleschermi degli appassionati di arti marziali miste col suo onnipresente faccione. In quegli anni Dana deve barcamenarsi nella disastrosa situazione della federazione, prelevata per 2 milioni di dollari nel 2001 dai proprietari originari della SEG (Semaphore Entertainment Group) grazie al fondamentale supporto economico dei fratelli Frank e Lorenzo Fertitta, figli di un imprenditore operante nel settore del gioco d’azzardo e compagni di liceo di White. Galvanizzati dall’idea, i Fertitta investono fino a 44 milioni per finanziare la compagnia, trovando scarsi ritorni nei primi anni e accumulando fino a 30 milioni di debiti.
La federazione che hanno preso in mano da Bob Meyrowitz è una scatola vuota: prima di andarsene il presidente ha ceduto praticamente tutto, eccetto il nome e un vecchio ottagono in legno.
Diritti per DVD, videogame e merchandising, più l’archivio video della federazione: tutto svanito. Non c’è nemmeno un marchio registrato. Dana prova a registrare il sito della federazione, ufc.com, ma si accorge che un sito a questo nome c’è già. UFC è sì la Ultimate Fighting Championship, ma anche l’acronimo di User-Friendly Computers. È proprio quel Mark Bergeron a detenere il dominio web anelato da White, e non ha intenzione di lasciarlo tanto facilmente: per lui il sito è un passatempo, un modo per aiutare le persone ignoranti in materia informatica a risolvere i problemi del proprio computer. Dall’altro lato, però, trova un osso altrettanto duro: Dana White lo tempesta di offerte sempre più grosse. A Bergeron non interessa il denaro, ma White è uno che sa come persuadere gli altri. Morale della storia: cercate il sito ufcomputers.com.
La storia di Dana White si presta al racconto per vari motivi. È spoglia di retorica, in primis: niente self-made man all’americana, nessun zero to hero. Le origini di White sono indubbiamente umili, ma per scalare le gerarchie sociali ha sempre sfruttato le sue abilità nel connettersi agli altri. In più, è ricca di frangenti in cui sembra poter finire da un momento all’altro, rivelarsi un degno fallimento e nulla più. Dei cliffhanger personali che rendono il quadro sporco e imperfetto, ma proprio per questo unico. Di origini irlandesi, nasce nel Connecticut e durante l’infanzia si sposta molto, prima nel Maine poi a Boston, quest’ultima tappa chiave per la sua vita e la sua carriera. Padre alcolizzato e assente (uno dei pochi ricordi di Dana è quando portò lui e la sorella al cinema a vedere Beverly Hills Cop, entrando con dieci minuti di ritardo e facendo baccano in sala), di lui e di Kelly deve occuparsi la madre June, con cui, almeno nei primi anni di vita, il rapporto è stabile.
Al liceo conosce i fratelli con cui entrerà in affari, ma mette subito in mostra la sua showmanship, segnalandosi per una particolare abitudine: ogni giorno apre la porta del bagno con un calcio, frapponendosi esattamente a metà tra un personaggio western e un wrestler, se tra le due figure si può tracciare una linea di demarcazione. Dopo diverso tempo viene scoperto ed espulso: ordinaria amministrazione, per lui, specie se si considera che l’espulsione non lo sfiora, mentre è l’acclamazione dei suoi compagni che lo galvanizza. Difatti, questi lo avevano incitato a ripetere il gesto perché ogni volta che questo si verificava, la suora, forse spaventata, puntualmente decideva di non faceva lezione. Metodi spartani ma efficaci, insomma, quelli del giovane White. Non va meglio col college: Dana prova ad accederne a due diversi, in entrambi non dura più di un semestre.
La strada, a questo punto della storia si è ormai capito, è molto incidentata.
Nulla di strano, fin qui. Di grandi figure con un cattivo rapporto con l’istruzione ce ne sono fin troppe, tanto da farne quasi un genere letterario. A questo punto l’irlandese-americano comincia a lavorare: buttafuori ad un’osteria irlandese, asfaltatore per la EJ Paving (“Il peggior lavoro che abbia mai fatto”) facchino negli hotel, soprattutto il Boston Harbor Hotel e il Four Seasons, dove trova pane per i suoi denti alimentando la passione per la lotta in una maniera molto poco convenzionale: per decidere chi avrebbe tenuto le mance fa a pugni coi suoi colleghi nel loro guardaroba. “Ma non ci colpivamo in faccia”, specifica White. In questi anni, mentre continua ad allenarsi nella boxe e nell’aerobica, incontra Peter Welch, un ex pugile diventato istruttore a South Boston, la zona popolare della città. In futuro Welch e White incroceranno di nuovo le loro strade, prima quando Welch allenerà Brock Lesnar e Conor McGregor, poi quando i due collaboreranno per il reality targato UFC The Fighter, che racconta il mondo della boxe in cinque palestre di Boston.
Già negli anni ’80, però, Welch è una figura fondamentale nella vita di Dana White. È lui che gli permette di aprire la sua prima palestra. Non ci sono molti spazi a disposizione, così gli viene affidato un ripostiglio nello scantinato di un tribunale. Un posto abbandonato a sé stesso che Dana rivolta come un calzino fino a farlo diventare il cuore pulsante della new age bostoniana: “Dalle 4 alle 9 di sera questo posto era un inferno”, spiega White in un’intervista durante le riprese del suddetto reality. W&W si sobbarcano un compito abnorme dal punto di vista socioculturale: la palestra toglie dalle strade i ragazzi per portarli in un luogo di comunità. Un classico processo operato dagli sport nei quartieri meno abbienti, un tipico modello da prendere ad esempio. Un esempio che, evidentemente, non sta bene a tutti. O meglio, sta bene, ma a determinate condizioni.
Le voci girano, un giorno in palestra si fa strada un uomo in carne, ben vestito ma sciatto: indossa un giubbotto beige, pantaloni neri e uno sguardo che non fa troppi complimenti. Non si dilunga con le spiegazioni: quello che chiede sono 2500 bucks, senza come e perché. Inizialmente sbalordito, dopo capisce (o forse si fa spiegare) la situazione: quell’uomo burbero è Kevin Weeks, braccio destro di James Whitey Bulger, boss della mafia del New England. Gli uomini d’onore vogliono la parte che ritengono gli spetti. Qui arriva il primo momento topico: White, che non ha a disposizione abbastanza denaro (“Per me quei 2500 pesavano come 25000”) decide inizialmente di non pagare, e rischia grosso.
Riconoscendo l’aria pesante, fa i bagagli e fugge: destinazione Las Vegas.
Anni di lavoro cancellati, si riparte da poco più di zero. Nel frattempo, attorno a questo scenario frizzante si gettano i prodomi per un futuro Premio Oscar: anni dopo Martin Scorsese si presenterà da Welch per avere uno sguardo più approfondito su Boston e sul mondo della boxe. Grazie a quelle informazioni, e basando il personaggio di Frank Costello -interpretato da Jack Nicholson- su Bulger, Scorsese girerà The Departed, in cui lo stesso Welch ha un cameo, che ha conquistato l’ambita statuetta nel 2006. Ma non finisce qui: Mark Wahlberg, anche lui all’interno dell’opera di Scorsese, è stato per qualche mese compagno di stanza di Dana White, appena dopo che questi si trasferì da Boston. White lo ha allenato, e ancora oggi i due sono in ottimi rapporti.
Las Vegas, quindi. Dana approda nella capitale del divertimento senza molto tra le mani, eccetto le sue connessioni. Neanche molte a quei tempi, a dire il vero: a Vegas il suo punto di riferimento sono Frank e Lorenzo Fertitta, che hanno da poco preso le redini dei possedimenti familiari dopo che due anni prima loro padre è andato in pensione. Per i due fratelli, quest’amico, più di ogni altra cosa, è un punto di riferimento per quanto riguarda il mondo della lotta. La storia comincia a muoversi quando Dana e Frank incontrano all’Hard Rock Casinò John Lewis, ex fighter UFC nonché pioniere del Brazilian jiu-jitsu fuori dai confini verdeoro.
Già intenzionati a frequentare una palestra d’alto lignaggio per migliorare la loro preparazione tecnico-fisica, i tre (Dana e Lorenzo in particolare) diventano habitué di quella di Lewis, ove si allenano alcuni dei migliori fighter dell’epoca, tra cui Tito Ortiz e Chuck Liddell. Il rapporto tra questi e White si intensifica, col natio di Manchester che comincia a frequentare sempre più spesso gli eventi della neonata federazione, fino a quando, tra il 1995 e il 1996, l’attuale presidente della UFC diventa manager dei due artisti marziali misti. Dana segue i suoi assistiti ad ogni evento, comincia a trattare con Meyrowitz per i contratti, si fa un’idea di come la UFC sia strutturata.
Abbastanza male, a suo avviso: l’idea alla base è effettivamente validissima (mettere uno contro l’altro atleti con un retroterra marziale differente, dimostrando alla fine che non c’è un’arte migliore delle altre, ma il migliore è colui che sa intrepretare e mescolare tutti gli stili), tuttavia il carrozzone è gestito malissimo: non ci sono regole precise per lo svolgimento degli incontri, la tutela per la sicurezza e la salute dei lottatori è veramente scarsa, se non inesistente. Arriva addirittura ad esprimersi il senatore repubblicano John McCain, in futuro candidato alla Casa Bianca, che critica aggressivamente il prodotto definendolo un cattivo esempio:
“É il corrispettivo umano della lotta tra galli” dichiara il politico dell’Arizona, rovinando ulteriormente la reputazione di una compagnia già precaria.
Almeno all’apparenza: in realtà questa provocazione servirà per mettere in luce le criticità regolamentari della UFC, con McCain che nell’ultimo decennio ha rivalutato in pieno le MMA.
Nel breve termine, tuttavia, la situazione è tragica: alla fine del 2000, la compagnia non produce ricavi ed è sull’orlo del fallimento. L’ennesima sliding door nella vita di Dana: con la chiusura dei battenti della UFC il lavoro di cinque anni si sarebbe dissoluto lasciandogli, ancora una volta, una miseria tra le mani. Dialogando giornalmente con addetti ai lavori, riesce a strappare infine un prezzo a Meyrowitz: 2 milioni di dollari. Tanto basta per rilevare il prodotto. White si rivolge ai suoi sodali, i quali, superata l’iniziale ostilità del padre, lo appoggiano in questa lucida follia. Nel gennaio 2001 viene fondata la Zuffa LLC, società che controlla la Ultimate Fighting Championship le cui quote spettano per il 91% ai fratelli Fertitta e per il 9% a Dana White, nuovo presidente della UFC.
Il 23 febbraio successivo ha luogo ad Atlantic City il primo evento targato Zuffa, UFC 30.
La location è di quelle che non passano inosservate: la Trump Taj Mahal, a suggellare un rapporto, quello tra White e Trump, che ha origini lontane e legati agli affari ancor prima che alla politica. Non era il primo evento ospitato dal magnate americano, come erroneamente si pensa: l’hotel era già stato scenario di UFC 28 a novembre 2000, quando White non era ancora in controllo.
Si può pensare che White lo avesse già rassicurato in riguardo al futuro prossimo della federazione, ma poco cambia nella sostanza: le tre serate ospitate a casa Trump hanno luogo da novembre 2000 a maggio 2001. Un boost fondamentale per un’azienda messa in condizioni precarie: Trump si presenta ad ogni evento, dimostrando gran dedizione alla causa.
È l’inizio di un’amicizia ancora oggi viva. Un’amicizia che va oltre le convinzioni politiche, White anzi specifica come lui non si interessi alla politica, sebbene si sia esposto a diversi comizi di Trump e abbia addirittura donato lo scorso anno 1 milione di dollari all’organizzazione repubblicana America First Action.
Torniamo al 2001. L’opera di risollevamento è appena iniziata, c’è da lavorare su molteplici piani. Uno dei primi aspetti di cui la nuova proprietà si occupa è la regolamentazione sul piano tecnico, che aveva causato problemi sostanziali alla precedente gestione. Il 9 aprile il New Jersey State Athletic Control Board si riunisce, alla presenza -tra gli altri- di White, e delibera una serie di regole fondamentali che oggi costituiscono lo scheletro della disciplina. Suddivisione dei round, categorie di peso, attire da indossare durante gli incontri, falli. Le MMA abbandonano quel tono da carnevalata e si danno una parvenza di professionalità, deliberando anche sulle procedure mediche e mettendo a punto un protocollo sulle sostanze proibite.
Gli effetti sono subito evidenti: nei tre successivi eventi aperti al pubblico si registrano rispettivamente 12500, 9500 e 9000 spettatori, cifre che in precedenza in UFC erano state fatte registrare molto raramente. I numeri sono incoraggianti, gli eventi riprendono ad essere trasmessa sulla tv via cavo, con un lavoro certosino la UFC recupera (o guadagna, a seconda dei punti di vista) tanta credibilità, ma i bilanci non si fanno quadrare con la credibilità. Così, a metà del 2002, le tre teste che hanno puntato su questa scommessa folle si trovano ad un punto di svolta: mollare tutto o rilanciare. Lorenzo chiama Dana e gli rivela di essere sul punto di mollare, ma questi lo implora di dargli l’opportunità di cercare 6-8 milioni di sponsor.
Convinto dalle parole dell’amico-collega, Fertitta decide di insistere. La miglior scelta della sua carriera imprenditoriale: a novembre di quello stesso anno UFC 40, con Ortiz vs Shamrock nel main event, è il primo punto di svolta della UFC. Sold-out in arena con 13022 biglietti venduti ma soprattutto più di 150000 abbonamenti in pay-per-view: l’incontro tra due leggende della disciplina, valido per il titolo dei pesi mediomassimi, viene alimentato da un hype mai visto prima per un incontro di arti marziali miste, e ancora oggi è visto come un incontro pivotale per questa disciplina. A fare tendenza è la modalità di avvicinamento all’incontro: nei mesi precedenti i due si erano ripetutamente pizzicati nel programma The Best Damn Sports Show Period, un programma dedicato all’approfondimento delle persone (e dei personaggi, di conseguenza) dietro gli addetti ai lavori (atleti, coach e manager).
Un dietro le quinte che diverrà caratteristico prima degli sport di combattimento, poi dello sport in generale (basti vedere quanto proliferano oggi i documentari sportivi).
Non a caso il programma va in onda su Fox Sports: il network americano ha sempre avuto un occhio di riguardo per l’intrattenimento di successo (la qualità è sempre discutibile e opinabile, ma il successo è certificato dai numeri). L’esperimento si dimostra vincente, così i promoter decidono di svilupparlo ulteriormente. Il 17 gennaio 2005 va in onda su Spike TV la prima puntata di The Ultimate Fighter, un vero e proprio reality in cui sedici potenziali fighter devono vivere insieme per tre mesi e sono suddivisi in due squadre, composte da otto lottatori di varie categorie di peso e guidate ognuna da un fighter UFC a fare da coach, attraversando un training composto da varie sfide ad eliminazione che portano alle due finali (pesi medi e mediomassimi nella prima edizione, ma sarebbero variati in seguito) i cui vincitori avrebbero conquistato un contratto in UFC.
Dana si espone in prima persona, mostrandosi spesso all’interno del programma come figura di riferimento per i lottatori: è il loro primo motivatore, ma non lesina loro dure critiche. Questa presenza rimarrà una costante del prodotto UFC: ancora oggi il presidente UFC è presente ad ogni evento, ed i suoi rapporti con i lottatori, positivi o meno che siano, fanno sempre notizia.
Da questo format White e compagni traggono diverse indicazioni positive: innanzitutto lo spettatore si fa coinvolgere dall’entrare nella vita di tutti i giorni di questi atleti, che attraversano momenti di sconforto, paure e anche scontro, come tradizione vuole in ogni reality. Inoltre, le finali vengono trasmesse live su Spike e ricevono un gran riscontro di popolarità: in particolare, l’incontro tra Forest Griffin e Stephen Bonnar, con la vittoria del primo per 29-28 ai punti, è ancora oggi vista come una pietra miliare di questo sport.
È il definitivo turning point della UFC: in questo show erano stati investiti molti soldi, e un suo fallimento avrebbe rappresentato un punto di non ritorno.
Al contrario, TUF è diventato il simbolo del rilancio, nonché un marchio della federazione: oggi è arrivato alla 21ª edizione ed in tutti questi anni ha sfornato ben 10 campioni UFC, tra cui Tony Ferguson, Nate Diaz e l’attuale campioni dei pesi welter Kamaru Usman. Da quel momento la compagnia naviga in acque serene e si può permettere contratti migliori, investimenti più mirati e una vasta programmazione.
White si apre alla TV in chiaro, di cui apprende il potenziale, e amplia l’offerta con Unleashed, un programma settimanale che mostra incontri del passato ai tanti neofiti avvicinatisi alla disciplina in quel periodo, e Countdown, uno show incentrato sull’avvicinamento agli eventi in pay-per-view. Comincia l’egemonia UFC: la promotion di Las Vegas o ingloba le sue concorrenti (Pride, WEC e Strikeforce, acquistate tra il 2007 e il 2013) o le costringe a chiudere i battenti anzitempo, come fatto dall’Afflition, la compagnia di quel Trump amico-rivale fondata nel 2008 e sciolta appena un anno dopo.
La UFC è ormai un progetto di successo e minaccia anche la WWE per la leadership negli sport di contatto. In quegli anni moltissime future leggende costruiscono la loro legacy: Randy Couture, Anderson Silva, Frank Mir, Georges St.Pierre, lo stesso Liddell. Dopo aver abbandonato il mondo del wrestling arriva anche Brock Lesnar, la cui popolarità aiuta moltissimo la federazione ad entrare nel mainstream, stimolando ulteriormente i fighter. Il trash talking diventa la cifra stilistica delle rivalità UFC e a quel punto l’accordo con Fox Sports è solo una diretta conseguenza. È l’agosto 2011 quando UFC e il colosso di Murdoch firmano un contratto di sette anni per la trasmissione di tutto il materiale della promotion di Las Vegas.
Va tutto a gonfie vele per Dana e soci. Ma la fama non arriva mai senza qualche controversia.
Tutto inizia nel 2011, quando June White, madre del presidente UFC, pubblica la biografia non autorizzata Dana White, King of MMA. L’opera è il culmine di una serie di interviste rilasciate dalla signora White, il cui obiettivo era esporre al grande pubblico che tipo di persona fosse, secondo lei, suo figlio. Qualcuno diverso rispetto a chi lui dava in pasto alle telecamere. Una persona dall’infanzia insicura e difficile, anziché il duro che lui ha sempre ritenuto di essere.
Ma non è tutto: la madre gli rinfaccia anche di averla abbandonata dopo il successo, rispondendo in maniera rude a tutte le chiamate e le e-mail e ignorando totalmente la nonna in fin di vita, la quale era costretta a vivere in una roulotte. “Le aveva promesso che l’avrebbe prelevata col suo aereo privato per portarla a Las Vegas per offrirle le migliori cure mediche che potesse, poi non si è più fatto sentire. In seguito, sono venuta a sapere che lui aveva detto ai suoi vicini che sua nonna era deceduta” ha dichiarato in un’intervista. Ma non finisce qui: June ha insistito sulla questione per diversi anni pubblicando una seconda biografia, Through A mother’s Eyes, The Dana White Story, in cui è entrata nei dettagli per quanto riguarda i rapporti del figlio con l’altro sesso, denunciando i molteplici tradimenti nei confronti della moglie Anne.
Le accuse di misoginia hanno varia matrice: in un’intervista di dieci anni fa Dana aveva dichiarato che una donna non avrebbe mai potuto lottare in UFC, per poi istituire poco dopo una sezione femminile, con Ronda Rowdy Rousey -prelevata dalla Strikeforce- come primo acquisto di grido. Grazie alla fiducia riposta da White nella ex judoka californiana le MMA al femminile in UFC sono definitivamente esplose: ad oggi si può ritenere che il livello delle categorie maschili e femminili non sia molto distante, sebbene le seconde non abbiano ricevuto la stessa esposizione dei colleghi uomini. Tuttavia, diversi sono stati i main event femminili disputati negli ultimi anni, che hanno visto protagoniste nella maggior parte dei casi le due fighter principali della compagnia, nonché prime nel ranking pound for pound, cioè Amanda Nunes e Valentina Shevchenko.
Negli anni ’10 la UFC è diventata quello che è oggi: un colosso dell’intrattenimento conosciuto in tutto il mondo.
Tutto ciò non sarebbe accaduto senza lo sforzo di tre matti, uno in particolare, che nei primi anni 2000 sudavano freddo prima di fare una minima spesa. Nel luglio 2016 il loro capolavoro arriva alla sublimazione: la UFC viene ceduta alla WME-IMG (oggi Endeavor) per 4,1 miliardi di dollari. Dana White, con il suo 9%, ne ha ricavato poco più di 360 milioni. La cessione delle sue quote non ha comportato l’allontanamento dalla federazione: la Endeavor ha richiesto che rimanesse nel ruolo di presidente. Ari Emanuel, fondatore e CEO dell’agenzia, lavora da più di 25 anni nel mondo del cinema e riconosce chi sa tenere il pubblico incollato alla TV: Dana White è indubbiamente una di queste persone ed è stato mantenuto in quanto ritenuto patrimonio della federazione.
La cessione delle quote non ha fermato White dall’investire nel mondo del combattimento.
Nel 2017 è stato uno dei principali promoter dell’incontro tra Conor McGregor e Floyd Mayweather, dichiarando che avrebbe voluto in futuro acquistare la licenza per integrare in UFC anche gli incontri boxe. Uno sport nobile in declino come il pugilato, del resto, potrebbe essere rilanciato solo da un visionario come lui. La UFC non ha mai smesso di crescere ed evolversi: nel 2019 è arrivato l’accordo con ESPN, mentre nel 2020 è stata l’unica federazione sportiva a non interrompere i suoi programmi durante la pandemia, pur rimanendo a porte chiuse e rimodulando i suoi programmi. In estate Dana ha messo a punto la Fight Island, un’isola privata in quel di Abu Dhabi che ha rappresentato una bolla per i lottatori e gli addetti ai lavori, in cui si sono tenuti ben 12 eventi tra luglio e gennaio 2021.
La sicurezza dei suoi atleti è, almeno secondo il suo giudizio, una delle principali preoccupazioni.
Interpellato diverse volte sul tema, ha sempre ribadito quanto fossero sicure le condizioni dei suoi lottatori, ritenendo i suoi protocolli più sicuri di quelli della NFL e altre compagnie sportive. Anche su questo aspetto, però, non mancano le aspre critiche nei suoi confronti. Si guardi alla malsana pratica del taglio del peso, ad esempio. Diversi sono stati gli episodi in cui la salute dei fighter è stata messa a repentaglio per rientrare nella categoria di peso concernente il loro incontro, ma uno in particolare ha sollevato controversie.
Nel settembre 2018 Nicco Montaño avrebbe dovuto affrontare Valentina Shevchenko nella sua prima difesa titolata da campionessa dei pesi mosca. L’atleta di origini ispaniche si era rivolta allo UFC Performance Institute per avere assistenza ed essere aiutata ad arrivare al peso richiesto entro due giorni dall’incontro (quando si celebra la cerimonia del peso). Poco prima di arrivare alla cerimonia, Montaño è svenuta ed è stata portata in ospedale, dovendo rinunciare all’incontro titolato; la compagnia non ha rilasciato dichiarazioni sull’incidente.
Di episodi simili ve ne sono stati diversi in UFC, così come ve ne sono in ampia quantità in altri sport di combattimento (ciò ovviamente non scagiona la federazione del Nevada), ma questo è il più emblematico e grave per il suo sviluppo, sintomatico di uno dei principali problemi della UFC sul piano della salute dei suoi atleti. In un’altra occasione, ad esempio, Cris Cyborg era stata protagonista di un cut talmente aggressivo da essersi tagliata la fronte.
Spesso si dice di molte figure nel campo dello sport che meriterebbero un documentario o una serie tv, ma Dana White sembra davvero uscito da una serie americana: a metà tra la guasconeria tipicamente yankee di un Hank Schrader, il cognato di Heisenberg e agente della DEA in Breaking Bad, e il rapporto conflittuale di Tony Soprano con la madre, White è un personaggio dalle luci e ombre ben tracciate, che non si cura delle critiche e procede spedito in un’unica direzione: in avanti, senza mai guardarsi indietro, nel bene e nel male.