Giuseppe Siragusa
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2 ottobre 2016. Roma – Inter. Al quinto minuto del primo tempo Dzeko raccoglie uno splendido pallone di Bruno Peres e lo schiaffa in rete: tutta la squadra esulta, aggrappandosi alla maglia del numero 9. Tra i compagni che festeggiano svetta su tutti il capitano della Roma, Daniele De Rossi. Strattonando la maglia del bosniaco si rivolge ai sostenitori seduti in Tribuna Tevere urlando: “Guardatela, pezzi di m***a!”. Come a dire: ha segnato proprio lui, quello che tutti avete criticato così duramente. Labiale inequivocabile, senza peli sulla lingua. Il codice De rossi prevede questo.
Un attaccamento estremo, quasi viscerale, alla squadra e ai compagni. La cosa più importante per un uomo che si è cucito la Roma addosso, spesso senza essere pienamente capito da una piazza che da anni gli punta il dito contro per via dell’ingaggio, dimenticandosi dei sacrifici portati avanti dal mediano di Ostia. Qui nasce Daniele De Rossi, il 23 luglio del 1983. Romanista sin da bambino, muove i primi passi sul campo dell’Ostiamare. A 16 anni accetta la proposta della Roma nella quale il padre, Alberto, allena la primavera.
Il suo ex allenatore Mauro Bencivega, che per dieci anni aveva allenato nel vivaio della Roma lanciando numerosi talenti in serie A – tra cui Amelia, Bovo, Lanzaro, D’Agostino, Pepe e Bonanni -, ha l’intuizione di spostarlo da mezzala offensiva a centrocampista, ruolo che gli permette di affermarsi nella Roma come nella nazionale italiana, diventando in quel ruolo uno dei giocatori più apprezzati nel panorama calcistico europeo degli ultimi 15 anni. De Rossi fa della carica agonistica e della grinta le sue doti migliori. La famosa vena sul collo che s’ingrossa nelle serate importanti è il simbolo del suo modo d’interpretare il gioco del pallone, con passione e tenacia. È una questione di leadership naturale. Giocare una partita sporca ma tenace – da guerriero – conta più della stessa gloria.
De Rossi la palla non se la lascia correre alle spalle: se la mangia, la conquista giocando d’anticipo e rischiando il tutto per tutto, prendendo di petto l’avversario e non scansandosi mai perché, per quelli come lui, il tackle non è un vizio ma un valore aggiunto. De Rossi non è solo grinta e polmoni, ma anche intelligenza tattica. Nella seconda era spallettiana della Roma “Danielino”, come anche allora, è il motore portante del centrocampo. Una presenza fondamentale là nel mezzo; forse addirittura più importante dei vari Strootman e Nainggolan, perché funge da collante tra la difesa e il centrocampo. Un vero e proprio scudo a protezione della difesa, che ama abbassarsi quasi sulla linea dei centrali difensivi: da qui fa ripartire l’azione, o con una precisa verticalizzazione o con una breve progressione palla al piede.
“L’appartenenza
è un’esigenza che si avverte a poco a poco
si fa più forte alla presenza di un nemico, di un obiettivo o di uno scopo
è quella forza che prepara al grande salto decisivo
che ferma i fiumi, sposta i monti con lo slancio di quei magici momenti
in cui ti senti ancora vivo” (Giorgio Gaber)
Lo spirito di appartenenza e l’unione al gruppo – alla maglia – è forse una delle qualità che più caratterizzano De Rossi come calciatore. Il suo rispetto verso i compagni lo pone come punto di riferimento per chi divide con lui lo spogliatoio. De Rossi non parla mai a sproposito. Non guarda in faccia nessuno, ma è il primo a fare mea culpa nei momenti di difficoltà, pagandone spesso il prezzo. Basti pensare alle dichiarazioni sulla Tessera del Tifoso di qualche anno fa:
“Il calcio italiano è ostaggio degli ultrà? No, è ostaggio delle televisioni, degli sponsor, certo anche degli ultrà, però loro sono una parte positiva del calcio. La tessera del tifoso? Non sono favorevole. Non mi piace la schedatura preventiva. Allora bisognerebbe fare anche la tessera del poliziotto”.
Il suo ultimo tatuaggio, una radio, incarna la tendenza passivo-aggressiva adottata nei confronti dei mass media negli ultimi anni, sopratutto verso l’ambiente roma – come viene chiamato in gergo dalla stampa. Una nube tossica che aleggia intorno a giocatori e allenatore.
Questo modo di essere De Rossi, questa sua innata “aggressività” – in campo e fuori – gli è costata molto cara nel corso della carriera. Numerosi sono stati i fallimenti causati dalla bestia che vive dentro di lui. Il più noto la gomitata a McBride nella seconda partita dei campionati mondiali in Germania nel 2006. Quattro giornate di squalifica e torneo virtualmente saltato. Ma il calcio, per sua e nostra fortuna, riserva a volte sorprese fiabesche. De Rossi subentra al posto di Totti nel secondo tempo della finale contro la Francia, prendendosi la responsabilità di calciare e segnare uno dei cinque rigori che consegnano la coppa del mondo all’Italia. Dopo dieci anni De Rossi ripete la follia del cartellino rosso, contro il Porto questa volta (lasciando così la Roma in dieci uomini e vedendo sfumare la qualificazione alla Champions League). A cosa serve tirarsi indietro?
Mea culpa e niente fascia da capitano. Un rosso horror che a 33 anni è inconcepibile per un giocatore della sua caratura, in un momento decisivo per le sorti della stagione giallorossa. Chiari di luna che mettono in discussione la professionalità di questo calciatore. Ma De Rossi è così: vive al massimo la sua vita rifiutandosi di rimanere nel mezzo, scegliendo sempre tra il bianco o il nero, tra la luce e l’oscurità. In questo nuovo millennio in cui oramai denaro regna su bastoni, dovremmo sforzarci di rispettare il suo modo di giocare a pallone. De Rossi può essere compreso o meno, ma di certo non ci impedirà mai di emozionarci, pensando a quanto sangue possa pompare un cuore nelle vene.