È da considerare una delle vittorie “contro” per eccellenza. Contro le potenze del calcio, contro i pronostici, contro la rassegnazione alla logica del più forte. Perfino contro la guerra, a modo suo. 30 anni dopo, la critica si divide ancora in due scuole di pensiero: c’è chi definisce la Danimarca campione d’Europa 1992 una bella favola vichinga, il lieto fine di una storia che riconcilia con l’idea di un calcio aperto a ogni risultato, e chi invece ritiene la vicenda una di quelle imprese che se si verificassero sovente non sarebbero argomento di discussione. In altre parole, la classica botta di fortuna. Una sorta di guerra fra ragione e sentimento in cui il pareggio non è ammissibile.
C’E’ DEL CALCIO IN DANIMARCA
Per comprendere un capolavoro bisogna partire dai protagonisti. Fino al 1992 la Nazionale danese aveva ottenuto risultati solo ai Giochi Olimpici, conquistando la medaglia d’argento nelle edizioni 1908, 1912 e 1960, e il bronzo nel 1948. Nell’estate 1984 la squadra danese è stata semifinalista agli Europei. Mai vincenti, ma piazzati sì. La storia segue sempre il proprio corso e spesso lo sport è costretto a scendere a patti specie se, come 30 anni fa, si profilano all’orizzonte grandi cambiamenti geopolitici. Ciò che per un Paese rappresenta la fine della propria storia sportiva e non solo (il conflitto nell’ex Jugoslavia), per un altro si trasforma in una delle vittorie più singolari nella storia del calcio moderno. È un atto d’amore per la propria bandiera e per lo sport quello che spinge i giocatori ad affrontare qualsiasi sacrificio pur di rappresentare la Danimarca in una competizione importante, senza preavviso e a corto di preparazione atletica.
SI QUALIFICA LA JUGOSLAVIA MA…
Il girone 4 per le qualificazioni agli Europei 1992 oppone Jugoslavia, Irlanda del Nord, Danimarca, Far Øer e Austria. Passa soltanto la prima classificata. A partire da settembre 1990 ha inizio uno “spalla a spalla” tra le due più forti, Danimarca e Jugoslavia. Alla fine si qualifica la Jugoslavia con un punto più della contendente. Nel novembre del 1991, momento in cui l’obiettivo della qualificazione viene raggiunto, nell’area balcanica la situazione è degenerata. Il Paese è ormai diviso e la diaspora delle singole realtà, fino a quel momento federate, è già un fatto compiuto. Croazia e Slovenia hanno abbandonato la Jugoslavia e la guerra fra serbi e croati in Slavonia, zona di confine orientale tra le due parti in conflitto, è sulle pagine dei giornali di tutto il mondo. Ad aprile 1992 la guerra divamperà anche in Bosnia-Erzegovina. Gli eventi bellici subiscono da quel momento un’irreversibile escalation. Una guerra d’indipendenza si trasforma in guerra etnica.
A maggio 1992, 20 giorni prima dell’inizio dei Campionati Europei, nel timore di atti terroristici la Svezia, che ospita la fase finale, fa una dichiarazione solenne: squadre e giocatori jugoslavi sono tutti indistintamente indesiderati. Le prime fasi della guerra etnica riportano a immagini di quasi 50 anni prima. L’UEFA sembra avere la motivazione politica per estromettere la squadra balcanica. Poco dopo l’ONU impone alla Federazione Jugoslava un embargo commerciale e finanziario che ha tutto il sapore dell’isolamento politico. La decisione non ferma il governo di Belgrado ma ha un peso sul piano sportivo. Nel contempo la Danimarca seconda classificata nel girone 4 rende noto d’essere pronta a subentrare, anche perché è rimasta una casella vuota. I giornali di Copenaghen escono in edizione straordinaria: “Andiamo agli Europei”.
L’allenatore Richard Møller Nielsen (1937-2014) sonda la disponibilità dei giocatori e incassa il sostegno di tutta la squadra, con una defezione eccellente: quella di Michael Laudrup (il fratello Brian farà invece parte della spedizione). C’è pochissimo tempo per portare a termine una preparazione atletica almeno accettabile. Si qualificano alle semifinali le prime due classificate di entrambi i raggruppamenti. Riuscire a fare una figura dignitosa nel girone A, che contrappone la Danimarca a Svezia, Francia e Inghilterra, sarebbe già soddisfacente. Francia e Inghilterra sono le grandi favorite al superamento del turno. Nel girone B si affrontano Olanda, Germania, Scozia e Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), denominazione dell’ex Unione Sovietica. Successivamente, la prima classificata del girone A affronterà la seconda del girone B, così come farà la prima del girone B con la seconda dell’altro raggruppamento.
TESTA, CUORE E GAMBE
La nona edizione dei Campionati ha inizio mercoledì 10 giugno 1992 allo Stadio Rasunda di Solna (Stoccolma). Svezia-Francia finisce 1-1. Il giorno successivo, sempre nel girone A, tocca a Inghilterra e Danimarca. La squadra di Møller Nielsen si difende con ordine e riesce a mantenere il pareggio senza nemmeno patire troppo. È una Danimarca molto muscolare ma in evidente ritardo di preparazione quella che esce imbattuta dal Malmoe Stadium, l’impianto che tre giorni più tardi vedrà affrontarsi Francia e Inghilterra, per il secondo 0-0 consecutivo da parte dei britannici.
Lo stesso giorno, a Stoccolma va in scena Svezia-Danimarca. Grazie a una rete di Thomas Brolin nella ripresa, la partita viene vinta dai padroni di casa e la critica si convince che per i simpatici e volenterosi sudditi di Margherita II si stia approssimando il ritorno a Copenhagen. Il 17 si gioca la terza giornata del girone. A Stoccolma la Svezia ospita l’Inghilterra, mentre Francia e Danimarca animano l’altra sfida. Il verdetto del doppio confronto sovverte i pronostici: la Francia e l’Inghilterra vengono sconfitte con medesimo risultato (2-1) e sono costrette a tornare in patria. È soprattutto la qualificazione della Danimarca a generare incredulità e a fare notizia. La classifica del girone A dice:
Svezia 5 punti, Danimarca 3, Francia e Inghilterra 2.
Nell’altro raggruppamento finisce in testa l’Olanda con 5 punti. A seguire, la Germania con 3, Scozia e CSI a 2. In semifinale la Svezia affronterà la squadra tedesca, l’altra partita sarà Danimarca-Olanda. Dopo l’inaspettata vittoria contro la Francia, la formazione allenata da Møller Nielsen ha quattro giorni per raggiungere Goteborg, recuperare le energie e studiare le mosse da contrapporre alla squadra campione d’Europa in carica. Le previsioni generali della vigilia vedono solo oranje. La partita è finita da pochi minuti e le agenzie giornalistiche internazionali battono una notizia che pochi avrebbero immaginato: la Danimarca ha appena sconfitto ai calci di rigore l’Olanda. Venerdì 26 giugno, allo Stadio Ullevi di Goteborg i danesi affronteranno la Germania, che nel frattempo ha sconfitto la Svezia per 3-2.
LA GIOIA E IL DOLORE
La squadra di Møller Nielsen presenta un calcio essenziale ma efficace, secondo i dettami di un 4-4-2 non sempre “ortodosso”. Davanti al portiere, l’esperto Schmeichel, la linea dei 4 difensori è costituita da Nielsen, Piechnik, Olsen e Sivebaek; a centrocampo operano Christofte a destra, Jensen e Vilfort al centro e Henrik Larsen a sinistra (con licenza di fungere da terza punta o da trequartista quando la situazione lo richiede); in avanti giocano Povlsen e Brian Laudrup. A volte la squadra gioca con i tre centrali, due esterni bassi a difendere, un centrocampo a tre, e due punte. Dipende dalle caratteristiche dell’avversaria.
In attesa della finale, i media fanno trapelare una notizia che ha poco di calcistico. Mentre il gruppo danese si stringe intorno al suo allenatore e vive momenti di grande coesione, al suo interno si sta consumando una tragedia. La figlia di Kim Vilfort, Lene di 8 anni, soffre di una grave forma di leucemia. Dopo ogni partita dell’Europeo suo padre prende un aereo per Copenhagen e le fa assistenza come può. Poi torna, si unisce alla squadra e dà un contributo di sostanza. Senza mai farlo pesare. La storia commuove l’opinione pubblica internazionale. Non avrà piedi raffinati ma è un centrocampista efficace e su di lui contano il Brøndby e la Nazionale. Kim Vilfort è in campo anche la sera del 26 giugno 1992.
E segna il gol del 2-0, quello che sancisce la vittoria del titolo europeo.
Il mondo sbigottisce: i “tappabuchi” del Baltico, quelli che non avrebbero nemmeno dovuto esserci, sono Campioni. Non sarà stata la vittoria del bel calcio e dell’innovazione tattica, ma di sicuro è quella del cuore, delle gambe, del carattere. Il trionfo personale di un allenatore forse burbero ma capace di forgiare la squadra nel momento dell’emergenza. Poche settimane dopo, Lene muore. Vilfort esorcizzerà la morte della figlia continuando a giocare e a mettere in campo tutto se stesso fino al momento del ritiro nel 1998. Il modo più utile di trasformare la disperazione in forza costruttiva e la professionalità in esempio di umanità.
LA REALTÀ ROVESCIATA
Se è vero che spesso sono amor di patria e orgoglio a muovere le azioni individuali e collettive, il libero arbitrio può portare verso le direzioni più diverse e talvolta più inconciliabili tra loro. I popoli che una volta componevano la Jugoslavia hanno scelto di abbandonare la bandiera della Federazione in nome di patrie più piccole. Patrie da amare e da difendere, anche con la forza, se inevitabile. La Danimarca ha deciso di mettere in gioco la propria reputazione, anche a rischio di essere sommersa di gol e di ridicolo sportivo. Poi è diventata campione d’Europa.
E poi c’è l’orgoglio, una delle molle più potenti che ci siano. È stato l’orgoglio, misto all’incapacità mettere da parte i risentimenti personali, a spingere Michael Laudrup a rinunciare alla convocazione e a guardare in tv momenti che avrebbe potuto vivere in campo. Mentre Kim Vilfort ha trasformato l’orgoglio in dignità e grandezza. Ed ecco infine i risultati: la Danimarca, outsider per eccellenza, sarà campione d’Europa di calcio 1992. La Jugoslavia vivrà la guerra etnica per un numero interminabile di anni. Senza alcuna colpa calcistica.