Intervista sportiva alla voce della geopolitica italiana.
Di geopolitica, negli ultimi anni, si è parlato molto. C’è chi la considera una scienza, chi una para scienza, chi un settore affine alle relazioni internazionali, chi mera tattica militare. Convinzioni fondate su una concezione monolitica delle nazioni e dei popoli, non cogliendo che la geopolitica è innanzitutto osservazione delle aggregazioni umane e della loro interazione. Osservazione unita al massimo sforzo possibile di calarsi nello sguardo altrui per tentare di coglierne la traiettoria. Perché, strano ma vero, i popoli sono composti esclusivamente dall’aggregazione di esseri umani.
Difficile, probabilmente impossibile, trovare in Italia un più preparato e appassionato studioso delle collettività come il protagonista della nostra intervista. Dario Fabbri, noto analista geopolitico e direttore di Rivista Domino, è di recente uscito in libreria con “Geopolitica umana”, summa del suo approccio innovativo e anticonvenzionale alle vicende delle collettività umane. Abbiamo avuto il piacere e l’onore di fare due chiacchiere con lui sul modo in cui le singole comunità si esprimono attraverso lo sport e su come gli sport stessi siano sempre prodotti dal sentire delle comunità che li praticano.
Scopriremo l’approccio statunitense allo sport, le differenze culturali che separano il tifo americano da quello europeo, parleremo della scommessa saudita e del (mancato) universalismo del calcio. Un’intervista per provare a calarsi nei panni di collettività a noi ignote. Scopriremo che lo sport non ha, di per sé, la rilevanza geopolitica che siamo soliti dargli in Occidente. Ma può comunque essere, se approcciato nel modo corretto, un fenomenale strumento di comprensione dei popoli, delle nazioni, delle aggregazioni umane.
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Iniziamo parlando della visione sportiva del paese più potente del mondo, che tu conosci molto bene, gli Stati Uniti.
L’attitudine sportiva americana ha un grande pregio: quello di dedicarsi a più sport insieme, cosa che noi non facciamo. È molto raro che un italiano o un europeo segua tre o quattro sport in modo continuativo, in genere qua si diventa tutti esperti di sport fino allora semisconosciuti, solo quando un atleta nostrano si gioca la medaglia d’oro alle Olimpiadi. In ordine di importanza gli americani seguono baseball, football, basket e hockey su ghiaccio, l’importanza varia un po’ da Stato a Stato.
All’inizio degli anni Duemila ho fatto avanti e indietro per una decina d’anni con Austin, in Texas, con periodi di mesi trascorsi tra l’Italia e l’America, e il Texas è uno Stato dove il football è sport nettamente superiore agli altri. Ero un ragazzino e notai che i texani, ironicamente ma nemmeno troppo, lo chiamano “National Sport” in contrapposizione al National Pastime del resto degli Usa che è il baseball. Lo dividono per giorni, il venerdì è il giorno del football liceale, il sabato vanno a vedersi quello universitario (ad Austin i Longhorns sono una religione) e la domenica ovviamente ci sono i Dallas Cowboys, la fidanzata d’America.
A proposito di football, si è molto discusso degli aspetti extra sportivi dell’ultimo Super Bowl. C’è chi ha parlato persino di complotto, sostenendo che gli apparati del Pentagono e dell’amministrazione Biden erano in combutta con Taylor Swift e l’NFL.
Iniziamo col dire che il Super Bowl ha un’importanza assoluta perché è partita secca. Gli americani, che sono un popolo dinamico, non amano le feste fisse e le partite secche. Le feste sono quasi tutte mobili: il Presidents’ Day, il Martin Luther King’s Day, Labor’s day, Thanksgiving day, le finali di NBA e MLB (chiamate World Series nonostante a baseball, oltre a loro, giochino ad alti livelli solo cubani, giapponesi e venezuelani) sono tutte “al meglio di”. Il Super Bowl invece è l’unica finale secca e quindi catalizza attenzione, sennò non si comprende la sua importanza. Non è una questione gerarchica. Gli americani seguono gli altri sport con la stessa attenzione con cui seguono il football.
Tuttavia l’Halftime Show è, nella sua improbabilità, la cosa che più si avvicina al nostro Sanremo. Altro passaggio non banale, nella sua solennità come gara secca è l’unico evento segnato in numeri romani. Per i discorsi esterni al campo, partiamo dalla premessa che lo sport non è lo specchio assoluto della società. Questa concezione dello sport è propria di paesi post-storici, profondamente minimalisti, privi delle prove massimaliste che le grandi società hanno, su tutte la guerra. Lo sport in queste nazioni viene scambiato per il metro con cui raccontare tutto, e questo non è vero, o almeno non è sempre vero. Gli Stati Uniti sono massimalisti, la guerra la fanno tutti i giorni e quindi lo sport è solo parziale metafora di sé. Metafora quindi non totalizzante ma parziale.
È un paese diviso, a livello sovrastrutturale e politico, tra bideniani e trumpiani, ammesso che le due categorie esistano. Strutturalmente la divisione è tra l’America delle coste, rappresentata per il momento da Biden, quasi post-storica, di certo assai benestante; e quella profonda che la odia, quella che la guerra la fa per davvero, che va avanti senza denti, senza assicurazione sanitaria, l’America dei “deplorables”, come li chiamò Hillary Clinton. Le polemiche sul Super Bowl sanno molto di complotto, che è il veicolo della parte di popolazione che si sente esclusa dalle stanze dei bottoni, e quindi le grandi manovre e i grandi inganni non possono risparmiare nemmeno quell’evento.
Football importante quindi ma, eccetto il Texas, non ha la dignità di sport nazionale. Titolo che spetta, invece, al baseball.
Il baseball è davvero lo sport degli Stati Uniti più di altri. È profondamente cinetico, e gli americani sono fissati con il movimento, si spostano sempre nella loro vita. Raramente un americano nasce e muore nello stesso luogo, da noi è raro il contrario. Ha venature britanniche, come tutti gli sport alla loro origine, ma poi diventa profondamente americano. Ha la caratteristica primaria di poter essere giocato e praticato da chiunque. Tanto che gli americani che non lo amano (molto pochi) dicono che si gioca in pigiama. Prendi il lanciatore, il ruolo più statico per eccellenza: i più grandi lanciatori hanno avuto anche la pancia.
Il battitore ha il braccio grosso, storicamente quindi nemmeno lui è un magro. È stato giocato a grandissimi livelli da tedeschi come Lou Gherigh e Babe Ruth, e da italiani come Di Maggio e Berra. Il baseball è per tutti i fisici e per tutte le etnie. E poi ha una fruibilità molto dilatata, ideale per la tv. È uno sport di tempi morti in cui puoi fare qualsiasi cosa durante la partita, studiare, telefonare, scrivere. Poi è uno sport a tradimento, appena tu fai altro, dopo un’ora di nulla totale, arriva l’homerun, da noi chiamato fuoricampo.
Si merita il titolo di National Pastime perché tutti lo vogliono praticare, nessuno escluso. Pensa a Michael Jordan, che si ritirò apposta per giocarci, perché era la sua passione da piccolo e quella di suo padre. Per fare un parallelo fantascientifico sarebbe come se Messi al suo apice avesse abbandonato il calcio per andare a giocare un altro sport, considerato “nazionale” del suo paese. Per gli americani il baseball è questo. Non per i texani. Per dire la famiglia Bush, originaria del New England, si vanta di aver portato il baseball in Texas, dato che Bush figlio costruì lo stadio del baseball nei pressi di Dallas.
Tendenza al movimento che si esplica anche nel trasferimento delle franchigie da uno Stato ad un altro.
Le franchigie negli Stati Uniti sono tutte temporanee, nel momento in cui non hanno più successo di pubblico e di attenzione nella loro città, se ne vanno. Creando situazioni assurde, come i Los Angeles Lakers che devono il loro nome ai laghi del Minnesota, o quello dei gloriosi Dodgers, nome tremendamente newyorkese che si rifaceva ai pericoli dei tram di Brooklyn. Trasferimenti che vengono vissuti con normalità e dolore. Fa parte della violenza della loro società. Ovviamente questa rispetto ad altre è una violenza ridicola, ma la accettano e la trovano normale.
Violenza che però non fa parte del tifo americano, a differenza che in Europa. In generale il tifo a stelle e strisce è a siderale distanza culturale da quello delle nostre latitudini. Come mai?
Il tifo è davvero molto blando negli Stati Uniti, è rarissimo che gli americani si attacchino tra loro per lo sport. È un paese con talmente tanta violenza che non serve lo sport per veicolarla, hanno molte altre cose importanti a cui pensare. Poi per carità ci sono anche paesi massimalisti dove ci si ammazza negli stadi. Ma con l’Europa a livello di tifo ci sono differenze incolmabili, il massimo coro americano è “defense” quando una squadra di basket deve difendere il punteggio. Il tifo più forte in America è quello universitario, per via della massa di giovani allo stadio. Anche qua non è un tifo violento, è importante al livello di acustica, ma comunque niente di che per i nostri standard. Difficilmente questa cultura sportiva potrà essere portata quaggiù.
Abbandoniamo il paese più importante del mondo per passare a uno radicalmente diverso ma con enormi ambizioni sportive. L’attivismo dell’Arabia Saudita è cosa nota: siamo certi che sia dato da motivazioni solamente esterne?
In Arabia l’uso dello sport è sia interno che esterno. L’Arabia, che non è né una nazione né un impero, è territorio personale della famiglia Saʿūd. La casa regnante usa l’intrattenimento sportivo un po’ come si faceva nell’antichità per tenere buona la popolazione e distrarla, come dare loro i sussidi. A livello esterno prova a raccontarsi indispensabile agli occhi occidentali almeno come paese cardine per l’intrattenimento, al fine di ripulire un’immagine forse non ripulibile. Ma l’Arabia è un paese improbabile, è un enorme azzardo su sé stessa. Dire che esista ancora tra trenta o quarant’anni è una scommessa.
Il mondo delle istituzioni sportive internazionali è stato abbastanza unito nel condannare l’invasione dell’Ucraina, escludendo da molte competizioni squadre e atleti russi. Israele non ha subito lo stesso trattamento. Questo doppiopesismo non rischia di minare ulteriormente l’immagine della governance sportiva globale agli occhi dei paesi non occidentali, ovvero la maggioranza del mondo?
Gli organismi sportivi internazionali sono ancora dominati in gran parte da paesi occidentali, a differenza di quel che capita alle Nazioni Unite o altrove. In questi contesti non solo i paesi occidentali ancora dominano, ma come dicevamo inizialmente lo sport è sopravvalutato nel suo peso culturale o geopolitico. È importante, ma non come ce lo raccontiamo da queste parti. È più letteratura che geopolitica, anche se la letteratura è molto nella vita. Ma in questi organismi i paesi non occidentali si lasciano volentieri condizionare perché non considerano importante il contesto.
Se all’Assemblea delle Nazioni Unite è più difficile tirare a sé il voto di un paese africano o asiatico, negli organismi sportivi è molto più semplice. Di solito è solo questione di soldi. Mentre nell’organismo politico o geopolitico a livello internazionale è molto più difficile perché una collettività sente di avere in mano sé stessa. Lo sport, fuori dalle serie tv occidentali, è importante ma non decisivo. Se un paese come la Costa d’Avorio o la Cambogia deve compromettere una sua posizione, lo fa più volentieri sullo sport. E questo si riflette anche nell’assegnazione delle manifestazioni sportive o nell’atteggiamento di chiusura verso la Russia.
È un dossier considerato poco rilevante. Mentre l’URSS ai tempi della Guerra Fredda considerava lo sport estremamente importante a livello d’immagine, premendo molto di più sui paesi a lei allineati, oggi la stessa Russia lo considera importante fino a un certo punto, preme di meno su questi paesi che in materia sportiva si lasciano convincere dagli occidentali.
Henry Kissinger una volta disse: “Il football americano e il baseball sono una glorificazione dell’esperienza umana, ma il calcio ne è l’incarnazione”. Ti trovi in sintonia con questa visione?
Questo vale per tutti gli sport. Non credo ce ne sia uno che ne incarni maggiormente l’essere umano in un senso o in un altro. Poi gli sport si adattano alle culture, al contesto. Prendi il rugby. Sport magnifico, dominato da due popolazioni molto esigue. Ovvero i boeri, discendenti degli olandesi del Capo, misti soprattutto agli ugonotti francesi, cui negli anni si sono aggiunti xhosa, zulu e altri meticci. Lo dominano perché lo sentono vicino alla conquista e alla difesa del territorio e non è casuale che ciò avvenga in una popolazione come i boeri che fa del territorio, anche in modo razzista, il suo forte. Oltre agli afrikaner, il rugby è poi dominato dai polinesiani incardinati in uno schema anglosassone, raccontati come neozelandesi.
Gli sport si adattano alla cultura che trovano. Il calcio senza dubbio è lo sport più diffuso e popolare del mondo, ma occorre interrogarsi su un punto. Le due collettività più grandi del pianeta, India e Cina, non lo considerano granché. E il paese più importante del mondo, gli Stati Uniti, non è dedito al calcio, non lo considera uno strumento di potenza. Il calcio là è il quinto sport nazionale. Quindi non ti so dire se è vero quel che dice Kissinger, ogni sport vale di suo, resta il fatto che non esiste uno sport veramente amato in tutto il mondo, il calcio non riesce a fare breccia nei paesi più importanti del pianeta. Qualcuno un giorno dovrà interrogarsi su questo. Stati Uniti, Cina e India giocano poco o molto male a calcio. E non se ne curano.
Se Kissinger era tifoso di Bayern Monaco e Greuther Fürth, Dario Fabbri è romanista. Come nasce questa fede e come mai la Roma ha un tifo così appassionato, a tratti esasperato, radicato nella città da essere ormai scolpito nell’immaginario collettivo di tutta Italia?
La Roma rappresenta un caso peculiare. Roma è città universale e universalistica per eccellenza, cattolica in sento etimologico. Roma e i persiani hanno insegnato l’universalismo al mondo, ma nel calcio, almeno nell’accezione che ne ha la gente, la Roma è questione quasi etnica, dunque il contrario dell’universalismo. Si tifa Roma essenzialmente solo a Roma (con poche eccezioni). La AS Roma diventò così diffusa in città, a differenza della Lazio che pure nasce prima, perché immigrati abruzzesi, calabresi, siciliani o napoletani cominciarono a tifarla quando giunsero in città, perché non capivano come mai la prima squadra in senso cronologico della città si chiamasse Lazio, giacché il Lazio come regione non ha una sua coscienza geopolitica. Io stesso sono di origini emiliane e toscane.
La trovavano un’incongruenza e questo li portò a tifare la Roma, il che è diventata una questione quasi etnica. È strano nella città universalistica per eccellenza, però è così, e questo spiega la questione del tifo a cui tu fai riferimento. Anche per me non è stata questione di scelta, è stata una fede trasmessa da mio padre e da mio nonno. E che adesso ho trasmesso a mia figlia di 11 anni che, non a caso, comincia a pormi il medesimo quesito che io ponevo a mio padre: “perché non vinciamo mai?”.
Fino a ieri noi romanisti ci rincuoravamo dicendo che anche Parigi o Berlino, altre grandi capitali, non avevano mai vinto nulla. Ma ora Parigi si avvia a grandi vittorie (più o meno). È una fede che ti procura più sofferenze che altro. Ma che sono molto felice di aver ereditato.
Ringraziamo Dario Fabbri per la disponibilità, la precisione e la cortesia. Questo è un contenuto riservato agli abbonati che però, su richiesta dell’intervistato, rendiamo oggi accessibile a tutti. Se poi vi è piaciuto quello che avete letto, se apprezzate e volete sostenere il nostro lavoro, qui sotto potete sottoscrivere un abbonamento (mensile o annuale) a Contrasti ULTRA, avendo accesso ai migliori contenuti della rivista. Grazie.