Dobbiamo cambiare la prospettiva del calcio italiano.
Nonostante sia passata una settimana dalla notizia che ha “sconvolto” il calcio italiano, i vari presidenti di Serie A continuano a fare il giro delle radio, televisioni, giornali rilasciando interviste su quanto sia stata folle e masochista la scelta del governo. Parliamo ovviamente della decisione dell’esecutivo Meloni di non concedere la proroga di due mesi all’ormai celebre “Decreto Crescita”, causando vere e proprie lacrime di coccodrillo tra i dirigenti dei principali club italiani.
Stando a quanto filtrato da Palazzo Chigi, a mettere la parola fine sulle agevolazioni fiscali per i calciatori provenienti dall’estero sarebbe stato il segretario della Lega Matteo Salvini. Il Ministro dei Trasporti si è infatti mostrato deciso sul tema: «Immorale fare sconti a calciatori stranieri multimilionari. I club pensino a investire su vivai e sui giovani italiani». Per quanto i toni siamo semplificatori e populisti, sull’essenza della questione Salvini ha ragione da vendere. E il fatto che sia stato lui a indicare la direzione per “resuscitare” il calcio italiano la dice lunga sul lavoro che (non) stanno svolgendo i presidenti dei 20 club e la Lega Serie A.
Ma perchè secondo loro, questo mancato prolungamento, di due soli mesi tra l’altro, dovrebbe far compiere un serio passo indietro al nostro calcio?
La soluzione è presto detta (economica, ovviamente) e l’assist ce lo serve il Ministro dello Sport, Andrea Abodi. Proprio lui infatti, subito dopo l’ufficialità si è dimostrato contrariato, parlando di «problemi a un comparto (la Serie A, ndr) già in difficoltà per il Covid e per la concorrenza spietata degli altri club europei sul piano fiscale». Come se poi, in tutto questo, dal 2020 al 2022 i club di Serie A non avessero ricevuto dallo Stato circa 150 milioni in aiuti economici legati alla pandemia.
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Fatto sta che il ritornello è stato comune, con le società a evocare la concreta possibilità di perdere i campioni stranieri del nostro campionato e così risultare meno competitive in Europa. Intanto però una precisione scontata: l’abolizione del Decreto non è retroattiva. Può star quindi tranquillo Claudio Lotito, che puntando il dito contro il suo stesso Governo – e dichiarando che lui, comunque, non ne ha usufruito in passato – continuerà a godere degli sgravi fiscali sull’acquisto di Isaksen, Castellanos, Kamada e Guendouzi.
Le proteste si concentrano però sul tema sollevato anche dal Ministro dello Sport Andrea Abodi, il quale ha citato «la spietata concorrenza dei club europei, che di agevolazioni invece, ne hanno eccome».
Al Ministro sarebbe però da ricordare un dato: dal 2020 ad oggi, l’esenzione fiscale in Italia per via del famoso decreto è stata del 50%, mentre in Olanda e Francia del 30%. Ma soprattutto, le altre Nazioni non vengono da due clamorose esclusioni mondiali consecutive. Ed è questo il vero punto dirimente: per un governo italiano la priorità deve essere lo sviluppo del movimento nazionale, non la garanzia di pesanti sgravi fiscali a quei club (organismi privati) che prelevano calciatori stranieri, approfittando di un decreto che troppe volte si è dimostrato un autogol per lo sviluppo del calcio nazionale.
D’altronde gli ultimi dati sui primi cinque campionati europei sono piuttosto impietosi: come investimenti annui per club nei settori giovanili l’Italia si posiziona al penultimo posto (di media una società inglese investe per i vivai 6.5 milioni all’anno, una tedesca 5.4, una francese 4.8, una italiana 4.6 e una spagnola appena 3.8 – dato tenuto su dal Barcellona, tra l’altro). Eppure la Liga, ultima per investimenti, può contare su un dato fondamentale: il minutaggio più alto concesso ai giocatori cresciuti in casa.
Secondo i dati del CIES Football Observatory, il campionato spagnolo guida questa particolare classifica con il 17,1% dei minuti totali giocati da prodotti dei propri vivai, seguito dalla Premier League (12,1%), dalla Ligue 1 (11,7%) e dalla Bundesliga (10,2%); la Serie (7,2%) è al 29esimo posto su 30 campionati europei, precedendo solo la Super Lig turca. Una lacuna che era stata anche evidenziata dall’ex CT dell’under 21 Nicolato, per il quale «siamo partiti da una U21 che aveva giocatori di Serie A, tra poco dovremo andare a cercarli in Serie C».
A ciò si aggiunge la fotografia scattata nel 2023 da Scouted Football, la quale conteggiava i minuti garantiti ai teenager nei primi cinque campionati europei (dal 2004 in poi): Ligue 1 in testa, con 10.434 minuti e 34 ragazzi schierati; poi la Premier League, 4.269 minuti e 18 teenager; quindi la Liga, 4.072 minuti per 13 giovani calciatori; la Bundesliga, 2.654 e 20 giovani; infine la Serie A, soli 752 minuti divisi tra 14 ragazzi.
Per non parlare del dato più pesante di tutti, e che più riguarda il Decreto Crescita, ovvero la percentuale di minuti totali giocati dai calciatori stranieri: in Serie A è il 65%, dato più alto d’Europa. Ciò significa che gli italiani disputano solo il 35% dei minuti nel nostro massimo campionato. Una percentuale calcolata proprio negli ultimi giorni e riportata da Repubblica, ulteriormente cresciuta rispetto al 2022 nel quale già guidavamo questa classifica con il nostro 64% di minuti giocati da stranieri, contro il 59% della globalizzata Premier, il 54% della Bundes, il 41% della Liga e il 39% della Ligue 1.
Stranieri che tra l’altro, in Italia, arrivano a quasi uno su due addirittura nelle primavere.
Lasciate perdere allora le dichiarazioni altisonanti e prive di fondamenta dei vari Lotito, Abodi, Marotta – «nel momento in cui il nostro calcio stava risalendo la china nel ranking, con tre squadre che lo scorso anno hanno disputato finali europee, l’abolizione del decreto crescita è un autogol» e via dicendo: se una squadra vorrà prendere un campione (straniero), lo farà ugualmente. Ma magari così inizierà a investire anche sugli italiani, a provare a crearseli quei campioni anziché lamentarne l’assenza.
Poi da tifosi possiamo anche essere dispiaciuti dall’abolizione della misura, ma dovremmo avere la lucidità di capire che, se domani vogliamo un campionato competitivo e un movimento in ripresa (per di più in una cornice economica così complessa e indebitata), oggi dovremmo lavorare affinché questo possa accadere, produrre talento e non elemosinarlo dall’estero. Impostazione che vale a maggior ragione per i presidenti, i quali assomigliano a chi si lamenta che non c’è da mangiare in tavola quando non ha fatto niente per procurarselo. Forse è il momento buono per cambiare prospettiva, per smetterla di nascondere la polvere sotto il tappeto.
Per finirla di vivere di espedienti ed elemosine, e iniziare a crescere con idee e progetti. Ma anche solo per cominciare a far giocare nel campionato italiano più italiani, perché spesso – al di là dei massimi sistemi e delle teorie più o meno lungimiranti – tanto si riduce a questo: chi gioca, migliora. E quante volte solo per “emergenza” in Serie A abbiamo concesso la titolarità a giocatori italiani che poi hanno dimostrato il proprio valore? Insomma, è arrivata l’ora di cambiare prospettiva, e se l’abolizione del decreto può aiutare ben venga. Consapevoli che se poi dovesse andare, almeno stavolta, potremo evitare di prendercela coi governi.