Scrive Fabrizio Tanzilli che lo spazio viene concepito a livello storico e calcistico dall’Olanda come luogo di conquista e di minuziosa costruzione. Diretta emanazione di un territorio domato mediante l’ingegno, di una terra strappata al mare, di una materia antropizzata è il calcio totale di Rinus Michels, un’idea di dominio totale del campo da gioco, ad un ritmo mai visto prima. Olandese è però anche la tecnica sopraffina dei calciatori oranje, che sembra in questo caso discendere dalle pennellate dei fuoriclasse pittorici fiamminghi che pur maturarono nelle Fiandre e, poi ,in quelle Province Unite edificate con dighe e sistemi idraulici. Il calcio olandese è simile ad una tela in cui qualunque artista può muoversi in libertà e al contempo sentirsi valorizzato in uno schema di gioco super organizzato.
Ed è proprio in grembo ad una delle più mature espressioni dell’ultimo ciclo d’oro europeo novecentesco dell’Ajax, sotto la guida del maestro ed epigono del calcio totale, Louis Van Gaal, che sboccia l’eleganza geniale di DennisBergkamp. Per parlare di Bergkamp tuttavia si deve partire, oltre che dal suo retroterra culturale e calcistico, anche dai suoi riferimenti e modelli. Ad esempio dalla classica domanda “Qual è il tuo idolo sportivo?”, a cui Dennis risponde in mondo quantomeno sorprendente:
«Probabilmente io sono diverso dagli altri calciatori. Loro risponderebbero che Pelè, Maradona o Cruyff sono i loro idoli, mentre io vi dico che il mio è Gleen Hoddle»
Dennis Bergkamp
Ma chi è Glenn Hoddle? Un nome meno appariscente e forse, a molti, persino oscuro. Mezz’ala inglese, militante dal 1975 al 1995 e bandiera del Tottenham, Hoddle – spiega Bergkamp – colpisce per “la sua tecnica: un tocco morbido e preciso”. Un dettaglio non da poco, un paradosso apparente: come può una leggenda dell’Arsenal ammettere di avere avuto come modello un pilastro dei rivali degli Spurs? Il paradosso è però presto risolto. Bergkamp non guarda al calciatore in sé, né alla squadra. Si concentra sul tocco, sulla tecnica e sulla precisione. È come chi, osservando un quadro, preferisca i dettagli e le sfumature di colore ad una discussione sulla scuola pittorica di riferimento o sulla biografia dell’autore.
L’ascesa di Dennis Bergkamp si sviluppa seguendo questa rotta: sempre una ricerca del piacere del gioco, del divertimento allo stato puro espresso mediante un perfetta tenuta tecnica e nascosta da un volto apparentemente impassibile. Entrato nelle giovanili dell’Ajax a soli 12 anni, mostra dei numeri impressionanti e con i lancieri, dal 1986 al 1993, segna 103 gol in 185 presenze. Tenta poi di emulare gli olandesi del Milan, senza copiarli. E firma così per l’Inter. È quello un biennio controverso. Pur regalando talvolta spettacolo – la sua tripletta contro il Rapid Bucarest, condita da una rovesciata perfetta, una pennellata con palla all’angolino destro della porta della squadra romena, rimane un gioiello – come nella Coppa Uefa vinta con i nerazzurri nel 1994, Bergkamp non riesce mai ad esprimersi pienamente.
A suo dire, come raccontato in una intervista per Four Four Two del 2011, è l’approccio difensivo dei nerazzurri a comprometterne la resa in campo.
Non è pertanto difficile, a questo punto, accettare le lusinghe di quello che considerava il Paese migliore per le sue caratteristiche tecniche: l’Inghilterra. A mettere le mani su Bergkamp è l’Arsenal; a condizione, come assicuratogli dal suo allenatore Bruce Rioch, di giocare un calcio offensivo. Ma questa non è l’unica promessa contenuta nel suo contratto. A causa della sua fobia del volo – divenuta quasi leggendaria – i Gunners devono inserire persino una clausola apposita:
«Tre giorni prima di una partita mi preoccupavo per il volo successivo. Durante una partita ero portato a pensare al volo precedente. [Questa fobia] mi stava bloccando dal godermi le partite, dal divertirmi; pertanto dovevo decidere se andare in terapia per mesi o anni, o se smettere di volare. Quando mi unii all’Arsenal, inserimmo nel contratto la mia richiesta di recarmi alle partite in automobile anziché in aereo. E non costituì mai un problema».
L’obiettivo è mettere Bergkamp nelle condizioni di potersi esprimere al meglio, e senza pressioni: così Highbury trova il suo nuovo idolo. Ma ben presto tutti gli stadi d’Inghilterra si inchinano progressivamente ad una qualità con pochi, per non dire senza, eguali. Come il 2 marzo del 2002 in casa del Newcastle, quando Bergkamp segna la rete più bella della sua avventura londinese e della sua intera carriera. Puntando verso la porta dei Magpies, con il difensore greco Dabizas a bloccargli la via, concepisce in una frazione di secondo la propria magia: si gira spalle alla porta, il controllo del pallone orientato a sinistra, passando la palla a destra. Poi vira a sinistra, leggerissimo. A quel punto si ritrovò solo davanti al portiere. Il pallone già sistemato, e pronto per calciare e segnare il gol che sblocca il risultato:
«Prima che la palla arrivasse avevo preso la mia decisione: avrei aggirato [Dabizas]. Sapevo dove fosse. E il mio pensiero fu “lascia scorrere la palla e guarda cosa succede”. Forse l’avrebbe bloccato, o non avrei fatto scorrere la palla a sufficienza, o mi avrebbe anticipato. Ma forse avrei potuto sorprenderlo, ritrovandomi davanti a lui».
Dennis Bergkamp
SI tratta di parole formidabili. Prima dei piedi e del tocco, emerge come sia la mente di Bergkamp ad essere di una rapidità impressionante. E in quello che è l’ultimo – e più importante – decennio della sua carriera essa si esprime, prima ancora che nei gol, nella cura maniacale del passaggio. Sull’onda di Gleen Hoddle e di quel tocco morbido che aveva tanto amato – come per l’evoluzione stilistica che caratterizzò le scuole pittoriche fiamminghe ed olandesi verso la perfezione di Rubens, e il disfacimento nelle correnti del divenire nelle pennellate di Rembrandt – Bergkamp si specializza nel particolare raffinato. Il suo stile diviene sempre più simile ad una serie di pennellate morbidissime, declinate nel piacere del passaggio e del movimento della palla a favorire i gol degli altri. Simon Kuper ha espresso chiaramente tale evoluzione:
«Il Bergkamp di fine anni ’90, nella sua maturità, fu un “calciatore di momenti”. Talvolta poteva giocare una partita orribile, ma fare qualcosa che nessun altro calciatore sarebbe mai stato in grado di realizzare prima… era come se potesse vedere in un’altra dimensione»
Come ha modo di confermare l’allenatore che succede a Bruce Rioch alla guida dell’Arsenal, Arsène Wenger, ciò che un qualsiasi altro calciatore sarebbe in grado di fare in due o tre tocchi Bergkamp riesce a farlo di prima, in un istante; l’olandese è un costruttore di traiettorie di passaggio arditissime, specialmente nello stretto. Gioca a calcio come se giocasse a scacchi. Ogni difensore rappresenta per lui altrettanti rompicapi da risolvere con la perfezione dei tocchi e dei passaggi. E più il rompicapo (la linea difensiva) è complesso, più si esalta: «Ho sempre amato giocare contro calciatori come Mihajlovic o Materazzi. Giocatori che fanno interventi duri. Vorresti sempre tentare di fare delle buone partite contro questi giocatori e contro quei difensori che ti osservano con un’aria del tipo: “Guardaquanto sono forte!”. Non posso accettarlo».
E se bianconeri dei Magpies sono, loro malgrado, coloro che ammirano la rete più bella della sua carriera, bianconeri della Juventus sono ancora gli avversari che il 4 dicembre del 2001 si vedono scartare due giocatori in una doppia giravolta da Bergkamp, il quale serve in un istante, con un semplice appoggio di esterno, il suo compagno di squadra Ljungberg, mandandolo in porta per il 3-1 definitivo dei Gunners. Ricordando questo ed altri – spaventosi – passaggi, emerge nelle parole dell’olandese un gusto davvero maniacale per la perfezione del gesto tecnico; paragonabile e forse, a suo dire, superiore addirittura alla concretezza del gol:
«Il piacere di segnare un gol è noto, ma io provo lo stesso piacere nel passaggio. È come risolvere un puzzle. Ho sempre avuto un’immagine nella mia testa, di come vorrei vedere andare le cose due o tre secondi dopo. Potevo calcolarlo. Vi è un piacere indescrivibile nel fare qualcosa che gli altri non potranno mai vedere».
Dennis Bergkamp
L’estetica è qui predominante. Bergkamp si mostra un rifinitore completo ed imprescindibile per le manovre di gioco dell’Arsenal. È il pittore di punta di un movimento artistico che annovera altri fuoriclasse come il suo compagno di reparto Thierry Henry, in un calcio fatto di stile e risultati, qualità caratteristiche del primo Arsenal di Arsène Wenger. Bob Wilson disse addirittura che fu proprio Bergkamp a spezzare la reputazione da “noiosi” accumulata dall’Arsenal fino a quel momento – il celebre “Boring, Boring Arsenal”.
In questa lunga stagione calcistica che chiude un secolo ed apre un millennio, Bergkamp esprime metaforicamente l’applicazione dell’idea e del ragionamento complesso alla realtà. La sua libertà espressiva è il frutto di un calcolo a tratti ossessivo, in grado di trascendere l’utile e di declinarsi nel gusto del gesto tecnico puro. Si potrebbe persino insinuare che l’inizio del declino dei Gunners di Wenger corrisponde fatalmente con l’addio del genio olandese. L’Arsenal di quegli anni, d’altronde, non può prescindere dall’Un-flying Dutchman, così descritto proprio da Wenger:
«Ha intelligenza e classe. La classe è, ovviamente, legata perlopiù a ciò che riesci a fare con la palla, ma l’intelligenza ti permette di utilizzare la tecnica in maniera più efficiente».
Sembra un manifesto filosofico. O al massimo un’idea di gioco collettiva. Invece, e forse in una misura inedita, qui è il calciatore a plasmare con la sua mente, più di quanto non faccia l’allenatore, lo stile di gioco dell’intera squadra e non viceversa. D’altra parte non è forse il pensiero di Bergkamp a rendere atto la materia calcistica in potenza del club londinese, ad attaccare l’elemento materico delle difese avversarie con la stessa aggressività di un giocatore di scacchi desideroso di prevedere le intenzioni dell’avversario e di superarlo con l’ingegno? Al limite tra l’artista che vede il proprio capolavoro ancora prima di materializzarlo su tela e lo scacchista in grado di pensare prima dell’avversario l’evoluzione del gioco, Bergkamp è l’esemplificazione della vittoria dello spirito sulla materia. Della mente che vola – più di qualsiasi aereo – così in alto da vedere e da plasmare il mondo ancora prima che si realizzi.