La causa palestinese nel calcio, a più di 12 mila km di distanza.
Més que un Club, direbbero a Barcellona con un’espressione ormai iconica (e inflazionata). Anche se, per spiegare il Club Deportivo Palestino, sarebbe forse più appropriata una frase di Allende: «Vale la pena morire per le cose senza le quali non vale la pena vivere». Una tradizione sportiva, quella del Deportivo, che non può essere compresa senza un atlante e un buon compendio di storia internazionale.
Il nostro viaggio parte da Osorno, quartiere di Santiago De Cile: è un torrido agosto del 1920 e nella zona, poverissima, vive una comunità di immigrati palestinesi.
Le tasche vuote sono inversamente proporzionali al senso di appartenenza, alla grande passione per il calcio e ad una tenacia quasi metafisica. Così questi nuovi cileni decidono di riversare tutta la nostalgia per la terra lontana nel pallone, e fondano il Club Deportivo Palestino: il legame con la Patria di origine si vede già nei colori delle maglie, che coincidono con quelli della bandiera palestinese e richiamano quell’altro circolo chiamato Club Sportivo Palestino, fondato nel 1916 sempre in Cile con lo scopo di combattere pregiudizi e discriminazioni.
Il club è inizialmente un passatempo per gli iscritti al circolo, impegnati in tornei regionali. Dopo due decenni, tuttavia, la squadra assume un ruolo cruciale in un periodo storico molto complesso: sono questi infatti gli anni della formazione dello Stato d’Israele (14 maggio 1948) e dell’inizio del conflitto arabo-israeliano. Ecco perché, fin dalle origini, il Deportivo Palestino non è solo un club bensì l’estensione del popolo palestinese in Sud America, il simbolo di una comunità che quanto più si trova distante dalla terra natìa tanto più rimane legata alle proprie origini. Sono gli aspetti storici e sociali, le radici che non gelano a provocare una così forte identificazione con la squadra di calcio. Ma facciamo un attimo un passo indietro.
La Storia
Dal 1850 il continentesudamericano diventa meta dell’ondata migratoria che proviene dalla Palestina: migliaia di persone alla ricerca di fortuna nel Nuovo Mondo, prevalentemente agricoltori e commercianti, che avevano sentito parlare dell’America dai viaggiatori e mercanti in Terra Santa e speravano di trovare nel Nuovo Mondo una scappatoia dall’instabilità politica e territoriale dell’Impero Ottomano. I viaggiatori scelgono il Cile da una parte per le politiche di inclusione, relativamente favorevoli ai palestinesi, dall’altra perché negli Stati Uniti, via via, vengono emanati atti volti a regolamentare gli ingressi come l’Asiatic Barred Zone del 1917, l’Emergence Quota Act del 1921 e il Johnson-Reed Act del 1924.
Anche in America Latina, però, non mancano fenomeni di discriminazione verso la comunità palestinese: i suoi rappresentanti sono spesso chiamati Mohammedans (indipendentemente dal loro background prevalentemente cristiano), o col termine più popolare Turcos (turchi). Così i migranti iniziano ad acquisire nomi e cognomi spagnoli, iscrivono i figli nelle scuole pubbliche e tentano di assimilarsi al Paese ospitante.
Attraverso più di un secolo di complessa integrazione, persecuzione e negoziazione dell’identità, emerge così un modo differente di essere cileni.
Oggi sono 450.000 i cittadini nazionali di origine palestinese, di cui una gran parte a Santiago, la capitale del Cile, a circa 13.220 km da Gerusalemme. Una “lobby orizzontale” in grado di condizionare le scelte nazionali e che, dal partito comunista ai conservatori, copre un ampio spettro politico. D’altronde, il peso elettorale degli esuli palestinesi è pari al 10% dei seggi del Senato e all 11% della Camera.
La causapalestinesenel calcio
Insomma il Deportivo Palestino, fondato già nel nome e nella lotta palestinese, è la rappresentazione plastica di come lo sport possa legarsi indissolubilmente alla politica. Ovviamente il club ha fin dal principio problemi di convivenza con la comunità ebraica cilena, basti pensare che Amador Yarur, presidente del Palestino dal 1950 al 1960, riceve un’offerta di 200.000 dollari dalla comunità ebraica nazionale per cambiare il nome della squadra da “Palestino” ad “Arabe” (offerta, ovviamente, rispedita al mittente). Arabes è invece il soprannome della squadra, o anche Tricolores, con esplicito riferimento alla bandiera palestinese che ne “La Cisterna di Palestino”, a Santiago, sventola liberamente.
Senza voler andare troppo a ritroso, però, ancora nel nuovo millennio sono stati molti gli episodi di tensione che hanno visto protagonista la società diOsorno.
Nella stagione 2013-2014 ad esempio, per sostenere la causa palestinese contro le mire espansionistiche sioniste, il club decide di scendere in campo sostituendo il numero 1 – dietro la maglia di ogni giocatore – con una mappa della Palestina raffigurante i confini del 1946 (prima della nascita dello Stato di Israele). La reazione della comunità ebraica è pronta e violentissima tanto da far intervenire il Centro Simon Wiesenthal, una ONG internazionale creata per conservare la memoria dell’olocausto, che accusa il club di “alimentare istinti terroristici”.
E sono tali le pressioni effettuate (più o meno indirettamente) da Israele che la federazione di calcio cilena arriva ad imporre al Deportivo il divieto di esporre la mappa della Palestina. Questione conclusa? No perché, malgrado l’obbligo, il presidente della squadra decide di non rispettare la misura, e anzi cambia solo il “luogo” della mappa mettendola davanti accanto allo stemma. Certo, la proprietà deve poi pagare una multa alla Federcalcio, ma come scrive un ottimo articolo della rivista spagnola Libero trova un efficacissimo rimedio.
Se l’utilizzo della maglia viene infatti vietato per le competizioni ufficiali, ciò non impedisce alla società di commercializzarla: «la vendita di magliette del Palestino aumentò di più del 300% dopo la polemica sulla mappa, e al club arrivarono richieste da Francia, Marocco, Turchia, Portogallo, Germania, Spagna, Brasile, Colombia, oltre che ovviamente dal Medio Oriente». Inoltre i calciatori del Deportivo scelgono di disegnarsi sull’avambraccio proprio la famigerata mappa, alzando le mani al cielo verso il proprio pubblico e provocando un sentimento di orgoglio che arriva fino in Cisgiordania.
“Una vittoria per il Deportivo Palestino è una gioia per il popolo palestinese che soffre. I terribili eventi di Gaza hanno rafforzato i nostri legami con la Palestina e le nostre radici”.
Stagione 2013/2014, parole del Presidente Maurice Khamis Massu
In seguito a questi eventi, tra l’altro, è invece la Federazione Palestinese a passare al contrattacco, chiedendo a gran voce l’espulsione di Israele dalla FIFA. Il motivo? Presto detto: Israele, a proposito di calcio, lascia giocare le proprie squadre negli insediamenti illegali in Cisgiordania (illegali non tanto e non solo per la Federazione Palestinese, ma anche per le Nazioni Unite). Insomma, un modo per capire come il conflitto proceda, a suo modo, anche nello sport.
Sempre nel 2013 poi Felipe Núñez, capitano del Deportivo, si reca in Palestina per partecipare ad una serie di incontri, cerimonie e visite a cliniche sportive. Il tutto nella cornice di festa degli abitanti di Beit Jala, una città vicino a Betlemme da dove partirono molti palestinesi oggi residenti in Cile, in un ricongiungimento che fa capire ancor di più allo stesso Núñez quanto fosse pesante e simbolica la maglia che indossata per anni: «Con il viaggio si sente una diversa responsabilità e si dà un altro valore al fatto di vestire la maglietta del Palestino».
Ormai il Deportivo Palestino, rispetto a qualche anno fa, è più “spoliticizzato”: gli stessi giocatori non mostrano più traccia di cognomi arabi, e le dichiarazioni pubbliche sono sempre più posate e prettamente calcistiche. Eppure il club conserva le sue radici e il legame con la terra d’origine sia nella sensibilità dei tifosi, sia nella sua stessa struttura economica. Nel 2003 infatti, un anno prima di morire, il leader palestinese Yasser Arafat interviene personalmente per salvaguardare il futuro della società (in grave crisi economica), scrivendo una lettera in cui chiede a chi ne ha le possibilità un decisivo intervento finanziario.
L’appello del leader palestinese viene dunque accolto da Hasim Shawa, Presidente della Bank of Palestine: questi, colpito dalla storia del club, garantisce la banca come sponsor principale per i successivi vent’anni, salvando così le disastrate casse del club.
“Sappiate che per noi palestinesi siete la seconda nazionale. Da sempre portate in alto i nostri colori, ci date voce nei momenti più difficili e dimostrate che, ovunque siamo, a Gerusalemme, Beit Jala o Santiago, siamo un solo popolo”.
Yasser Arafat
Tuttavia il Palestino non ha rappresentato solo un simbolo di lotta degli oppressi, ma ha svolto anche un ruolo nel (provare a) riallacciare i legami politici tra gli israeliani e i palestinesi. Come il9 gennaio 2016, quando il Deportivo organizza la storica “Partita della fratellanza” contro l’Ahli Al-Khaleel, la squadra di Hebron detentrice del campionato cisgiordano. L’incontro si gioca al Municipal de La Cisterna, tra le mura amiche, finendo 5-1 per i padroni di casa ma soprattutto ottenendo una buona risonanza mediatica per rafforzare i legami con la Cisgiordania.
Ogni vittoria del Deportivo, quindi, non è solo il successo di una partita ma il trionfo di un “ideale” e la gioia di un popolo. Ne sono testimonianza anche le parole del 2016 di Saeb Erekat, segretario generale dell’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina) e socio onorario del Palestino. Congratulandosi per la vittoria contro il Flamengo e la conseguente qualificazione ai quarti di finale della Copa Sudamericana, Erekat afferma:
“Avete scritto la storia tanto per il Cile quanto per la Palestina, sventolando la nostra bandiera sulle vette più alte del calcio. Avete riempito di sorrisi i volti dei bambini palestinesi che sentono questo club come la loro seconda nazionale. Speriamo che possiate presto tornare a giocare in Palestina, magari in una Palestina libera. Ricordate sempre che siete più di un semplice club calcistico: rappresentate un’intera nazione”.
Sicuramente il lato più affascinante di questa squadra è costituito dal retroterra e dalla rappresentanza offerta ad un popolo senza voce, ma a ben guardare la bacheca del Deportivo Palestino non è poi così vuota: essa mostra 2 titoli nazionali conquistati rispettivamente nel 1955 – con il grande Elias Figueroa come capitano, considerato uno dei calciatori cileni più forti di sempre – e nel 1978 (l’anno dopo raggiunge anche la semifinale di Copa Libertadores, massimo traguardo ottenuto a livello internazionale); inoltre ci sono 3 coppe cilene vinte nel 1975, nel 1977 e l’ultima, più recente, nel 2018.
Fra gli ex compare anche Manuel Pellegrini, che inizia proprio da questo club l’ascesa come allenatore, ma il giocatore più “identificativo” della storia del club è Roberto Bishara: terzino sinistro, nato proprio a Santiago nel 1981, Bishara è naturalizzato palestinese e vanta 27 presenze con la nazionale. Attualmente si trova nel quadro dirigenziale del Deportivo Palestino, e qui porta avanti l’ideale sportivo a cui ha consacrato una carriera.
Come detto però è l’orgoglio che segna la storia della società e soprattutto della sua tifoseria, un angolo di Palestina a 13.000 chilometri di distanza in cui tradizione ed identità continuano a vivere in perfetta armonia. Questi aspetti sono stati analizzati da Eugenio Chahuán, studioso del Centro di Studi Arabi dell’Università del Cile, che ha approfondito l’importanza del Deportivo Palestino per le migliaia di persone originarie della Palestina:
“C’è stata e continua a esserci una negazione storica da parte degli ebrei israeliani, fondamentalmente, dell’esistenza stessa dei palestinesi. E il Club Deportivo Palestino esiste da molto prima dello Stato di Israele, e oltretutto in Cile, dall’altra parte del mondo. Quindi c’è un tema di identità nazionale molto importante, la dimostrazione che già la prima emigrazione aveva intenzione di formare e organizzare istituzioni che portassero il nome e i colori della Palestina”.
Una squadra di calcio come ideale politico sostanzialmente, il simbolo e la rappresentanza di una comunità che, grazie al Deportivo, ritrova e rinsalda le proprie radici. Questo non vale solo per chi ha vissuto la migrazione, ma anche per le nuove generazioni: perché se il club è ormai una squadra cilena come tutte le altre, la tifoseria continua ad essere differente. Da queste parti l’integrazione non procede per sottrazione, ma custodendo la propria identità: sui muri, sulle gradinate de La Cisterna, nei racconti degli anziani. Il Deportivo Palestino è cultura, territorio, politica; è una tradizione da preservare di generazione in generazione più che una squadra di calcio. Dall’Italia tanti auguri, e 100 di questi (altri) anni.
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