Sarajevo non è mai stata una città qualunque. Basti pensare all’attentato che fu il casus belli della prima guerra mondiale – era il 28 giugno 1914 e Gavrilo Princip assassinava l’arciduca Francesco Ferdinando all’altezza del Ponte Latino – oppure all’eccezionale carattere multiculturale che ha sempre contraddistinto la città, divenendo poi il suo stesso tallone d’achille. La Gerusalemme dei Balcani, infatti, è stata per tempo immemore un interessante laboratorio di integrazione etnica e religiosa in cui convivevano serenamente cristiani, musulmani ed ebrei.
Proprio in questo contesto caotico e promiscuo ha luogo uno dei derby più particolari dell’area balcanica. A Sarajevo ci sono diverse squadre, ma il “derby eterno”, come taluni lo definiscono, è quello tra due istituzioni che rappresentano mondi opposti nella stessa città. Per spiegare sensatamente la differenza principale tra i Bordo-Bijeli (Marroni-Bianchi del FK) e i Plavi (i Blu dello Željo), è necessario scomodare Ivica Osim, ultimo CT della nazionale Jugoslava, che disse:
«Tifare Sarajevo è una questione di geografia, mentre tifare Željezničar è una questione di filosofia».
Quest’affermazione è figlia delle innumerevoli vicende che si sono susseguite nel corso della storia dei due club più importanti del Paese, una storia che si è più volte intrecciata in un complesso groviglio di odio e amore, rivalità e fratellanza, conflitto e solidarietà.
LE TANTE SARAJEVO
Lo Željezničar venne fondato nel 1921, ben venticinque anni prima dei rivali, grazie all’iniziativa di un gruppo di ferrovieri (Željezničar significa proprio ferrovieri) e sin da subito il neonato club si distinse dalle altre squadre della capitale per la sua apertura etnicamente indiscriminante.
Nei primi vent’anni del Novecento, la popolazione di Sarajevo conosceva tutte le maggiori religioni monoteiste ed era divisa dal punto di vista etnico in bosniaci, musulmani, ebrei, croati e serbi. Nell’ambito sportivo, le società di calcio rispecchiavano in maniera rigida queste divisioni: seppur in maniera ufficiosa, il Barkohba era la squadra della comunità ebraica, il SAŠK di quella croata, lo Slavija di quella serba e il Đerzelez di quella musulmana.
Al contrario, i “ferrovieri” decisero che il loro club sarebbe stato estraneo a tali logiche e avrebbe accolto qualunque individuo indipendentemente dall’appartenenza nazionale, religiosa o sociale. Sin dagli albori, dunque, si distinse come la squadra del popolo, dei lavoratori e degli amanti della filosofia – che oggi chiameremmo inclusiva – targata Željo.
Lo scoppio della seconda guerra mondiale portò al primo grande sconvolgimento del XX secolo: il 15 aprile 1941 Sarajevo venne occupata dalle truppe naziste e fu successivamente posta sotto l’egida dell’NDH (Nezavisna Država Hrvatska, Stato Indipendente di Croazia), Stato fantoccio di Germania e Italia guidato dal comandante degli Ustascia Ante Pavelić. In questo contesto le società calcistiche della zona furono invitate a partecipare ai campionati organizzati dalla Federcalcio croata ma, siccome la dirigenza dello Željezničar rifiutò senza esitazioni, al club venne preclusa ogni attività.
Per tornare a giocare, la squadra dovette aspettare la fine del conflitto: la sconfitta delle forze dell’Asse e la conseguente fine dell’influenza nazista nei Balcani spianò la strada al maresciallo Josip Broz Tito che, grazie all’autorità e al prestigio guadagnati durante la Resistenza, impose il governo comunista nella neonata Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Sarajevo, liberata tra marzo e aprile del 1945, divenne quindi la capitale della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina.
Il nuovo assetto istituzionale, tra le altre cose, fece ripartire i campionati che si disputavano nel precedente Regno di Jugoslavia e che furono caratterizzati dall’incontrastato dominio delle squadre di Belgrado, Spalato e Zagabria (Građanski Zagreb, Concordia Zagreb, HAŠK Zagreb, Hajduk Split, BSK Belgrade e Jugoslavija Belgrade). La loro supremazia rimase immutata anche dopo il 1945. Anche se alcuni club avevano cessato di esistere, altri erano risorti con nuovi nomi – è il caso di Stella Rossa e Dinamo Zagabria – e altri ancora vennero fondati da zero, come il Partizan.
Per garantire splendore anche alla città di Sarajevo, il 24 ottobre 1946 il governo fondò una nuova squadra, il Fudbalski Klub Sarajevo, che inizialmente assunse il nome di SD Torpedo. Risultato della fusione tra FK Udarnik e OFK Sloboda, nonostante la totale assenza di storia e tradizione, divenne molto presto uno dei club più blasonati e famosi del panorama jugoslavo.
Ciò fu possibile anche grazie all’operato della federazione sportiva bosniaca che invitò, per usare un eufemismo, le altre squadre a cedere i propri giocatori di spicco al FK Sarajevo, nuovo club di riferimento a livello nazionale. La prepotenza governativa puntò anche sulle stelle dei rivali cittadini dello Željo, ma un calciatore fece eccezione: Josip “Joško” Domorocki rifiutò coraggiosamente il trasferimento, e finì la carriera in blu con la maglia dei Plavi.
La politica di rafforzamento del club portò i suoi frutti qualche anno più tardi: il FK Sarajevo riuscì infatti per la prima volta a diventare campione della Yugoslav First League nella stagione ’66/’67, spodestando le “big four” del calcio jugoslavo – Dinamo Zagabria, Hajduk Spalato, Stella Rossa e Partizan Belgrado.
Dal canto loro i “ferrovieri” subirono la prima retrocessione nel 1947, proprio in seguito allo smantellamento della rosa attuato in favore dei nuovi rivali. Seguirono anni duri ai quali, ancora una volta, il popolo dello Željo reagì con le sue tipiche virtù di forza e determinazione.
Così nel 1949 i lavoratori delle ferrovie, soldati e numerosi volontari di Sarajevo si rimboccarono le maniche per costruire ciò di cui il club aveva più bisogno, e cioè un proprio impianto di gioco. Iniziarono i lavori di costruzione dello stadio nel quartiere di Grbavica, poi assurto ai “disonori” della cronaca a fine secolo. Quattro anni più tardi l’impianto fu finalmente pronto per essere inaugurato; e sul suo campo, il 13 settembre 1953, lo Željo sconfisse il Šibenik 4 a 1.
Da allora la storia del club continuò imperterrita tra quegli alti e bassi che costituiscono parte integrante del suo DNA sin dalla fondazione. In un susseguirsi di promozioni, retrocessioni, instabilità finanziaria e scandali legati al calcio scommesse (Planicić affair, 1964), lo Zeljo conquistò il primo scudetto della sua storia nella stagione 1971-1972.
In seguito a questi exploit si dovette attendere il 1984, anno in cui tra l’altro Sarajevo ospitò le Olimpiadi invernali, per vedere nuovamente le compagini della città tornare alla ribalta: il FK vinse di nuovo il campionato jugoslavo, mentre lo Željo venne eliminato all’ultimo minuto in semifinale di Coppa UEFA dagli ungheresi del Videoton, risultato che ad oggi rimane il migliore a livello europeo per una squadra bosniaca.
DOPO LA CADUTA DELL’URSS
Poi arrivarono gli anni ’90, scenario temporale del secondo grande stravolgimento nei Balcani: la caduta del sistema sovietico fece saltare il precario equilibrio fra le nazionalità e i Paesi che popolavano la Jugoslavia. A partire dalla primavera del 1992 il centro del conflitto si spostò in Bosnia, e in particolare nella sua capitale che fu teatro di un lunghissimo assedio da parte delle milizie serbe. Circa un mese dopo il referendum che aveva sancito l’indipendenza della Bosnia, il 5 aprile lo stadio Grbavica fu l’epicentro dell’inizio dell’assedio: l’atmosfera in città era già molto pesante e segnata da molteplici episodi di violenza.
Nonostante ciò, lo Željo avrebbe dovuto affrontare il Rad di Belgrado. Ma, poco prima del fischio d’inizio, echeggiarono raffiche di proiettili provenienti dalle colline circostanti, inconfutabile segno che l’armata dell’autoproclamata Republika Srpska, regione secessionista della Bosnia a maggioranza serba, stava avanzando verso la città.
Il quartiere fu presto occupato dalle milizie, il campo dello stadio venne minato e poco dopo dato alle fiamme – tra l’effetto distruttivo del rogo e le ruberie degli sciacalli si stima che andarono perse circa 316 coppe, motivo per cui lo stadio venne soprannominato Dolina Ćupova, ossia “Valle delle Coppe”. Fu un colpo al cuore per tutto il popolo dello Željo, che però dimostrò per l’ennesima volta di essere una comunità più forte delle avversità: calciatori e tifosi si unirono per difendere la città dall’assedio e dalla barbarie nemiche. Così Grbavica divenne il vessillo della resistenza.
Il putiferio che si era scatenato in patria, e più in generale nei Paesi dell’ormai ex Jugoslavia, costrinse all’inevitabile sospensione delle competizioni sportive fino a data da destinarsi. Perciò i Divovi, altro soprannome del FK che significa “giganti”, furono costretti a lasciare la Bosnia e imbastire una lunga tournée fuori dai confini nazionali: Turchia, Arabia Saudita, Oman, Iran, Brunei, Malesia, Qatar e Italia, con tanto di visita in Vaticano a Papa Giovanni Paolo II, furono alcune delle tappe che resero la squadra di Sarajevo uno dei più importanti ambasciatori della causa bosniaca, nel tentativo, attraverso il calcio, diconquistare il sostegno internazionale.
L’assedio terminò nel febbraio del 1996 e il 19 marzo Grbavica fu definitivamente liberata, consentendo alla gente del luogo (e allo Željezničar) di fare ritorno nelle proprie case dopo quattro lunghi, sciagurati anni. Il 2 maggio dello stesso anno fu il giorno del riscatto, quando Željo e FK Sarajevo disputarono il primo derby dopo la fine del conflitto proprio sul campo dello stadio Grbavica, sancendo il definitivo ritorno a una parvenza di normalità.
La guerra dei Balcani creò un incredibile effetto di solidarietà su giocatori e tifosi delle due squadre. L’eccesso di odio e le devastazioni subite in quegli anni portarono a un avvicinamento delle parti, accomunate dall’indicibile dolore, dalle perdite umane e morali, dalla stanchezza di un conflitto efferato ed estenuante.
In tempo di guerra non era più stato rilevante il colore calcistico di appartenenza, ma prevaleva un sentimento di fratellanza che andava oltre ogni divisione.
Il calcio divenne quindi ragione di unione e pace tra la gente di Sarajevo, un barlume di luce in mezzo alla folta nebbia alzata dalle macerie belliche. Giocare a pallone fu l’unico modo per evadere dalla realtà e dimenticare i bombardamenti, seppur in maniera effimera. Per questo oggi il derby di Sarajevo, a differenza di quello di Mostar e delle altre città della ex Jugoslavia, non è caratterizzato dall’odio tra i rivali, ma dalla memoria comune nel lasciarsi alle spalle un passato di ferite troppo dolorose. In questo anche il calcio può recitare un ruolo, più importante di quanto si pensi.