Intervista a Marco Pastonesi, uno che fa parlare i ciclisti come degli intellettuali.
Marco Pastonesi è nato a Genova il 27 agosto 1954. Rugby e ciclismo sono i due sport che lo hanno stregato e ai quali ha dedicato gran parte della sua produzione giornalistica e letteraria. Storico giornalista de “La Gazzetta dello Sport”, ha lasciato la rosea il 30 giugno 2015 per prepensionamento. Ricalcando le orme dei grandi cantori del passato, Pastonesi ha raccontato il ciclismo e le sue storie con originalità, fantasia e umanità, confezionando il tutto con un italiano corretto, godibile ed effervescente. Ha seguito quindici Giri d’Italia, dieci Tour de France, quattro Giri del Ruanda e uno del Burkina Faso, ma anche un’Olimpiade, quattro Coppe del mondo e diciotto Sei Nazioni di rugby, sport nel quale ha eccelso arrivando a giocare addirittura in Serie A. Ha scritto (e partecipato alla stesura di) molti libri, ovali e a pedali, riuscendo nella mirabile impresa di non sbagliarne nemmeno uno.
Buongiorno Marco. Partirei con una domanda piuttosto semplice: qual è stato il suo percorso di formazione e come si è avvicinato al mondo del giornalismo sportivo?
Guarda, ho fatto il classico per poi proseguire all’Università con Giurisprudenza. Il giorno in cui mi sono laureato sono andato da mio padre col certificato che ti rilasciano lì per lì e gli ho detto più o meno queste parole: ti ringrazio per avermi appoggiato in questo percorso ma non è la mia strada. Avevo già diverse collaborazioni all’attivo, scrivevo di tutto, addirittura qualcosa anche su riviste di musica. Scrivere è sempre stata la mia passione, il mio bisogno. Ai miei tempi per diventare un giornalista c’erano tre modi: grazia ricevuta, cognome giusto o gavetta. I primi due non mi riguardavano, il terzo è stato giocoforza l’unico sentiero per me percorribile. Sì, ho fatto davvero tanto “marciapiede”.
Sappiamo che lei ama in particolar modo due sport: rugby e ciclismo. Dove e quando nascono queste due passioni?
Lo sport c’è sempre stato. Nuoto, atletica, basket, rugby. Ecco, il rugby mi ha davvero cambiato la vita. Ho giocato anche ad alti livelli, Serie A e B, ma soprattutto mi ha dato nuove basi, che io sono solito definire socialiste e comuniste. La bici invece è, da sempre, il mio mezzo di trasporto: fisico e onirico.
Dal suo punto di vista, com’è cambiato il giornalismo sportivo negli ultimi decenni?
Prima di tutto bisogna dire che è cambiato tantissimo. Prima esistevano i giornali, oggi invece è dura per loro, non ci sono quasi più. Probabilmente quella dei giornalisti era (ed era vista come) una casta, oggi invece chiunque può diventarlo senza esserlo. Rimanendo in ambito ciclistico, oggi è senz’altro più dura, poco da fare: si vive meno in e il gruppo, si seguono poche corse, spesso sono i giornalisti a pagare di tasca propria per seguirle. E questo non è un bene, si capisce, il ciclismo come tanti altri sport ma forse di più ha bisogno della strada e della presenza per essere raccontato come si deve. Da casa o dal computer è tutto più limitato.
E del giornalismo (sportivo e non) attuale che idea si è fatto?
Sinceramente leggo bei pezzi, scritti bene, inchieste valide e approfondite. Più che nel giornalismo o nella carta stampata, io credo che ci sia un problema nel mondo dell’informazione in generale. Mi riferisco alle veline, ad un’organizzazione che spesso pesa e mette mano più del necessario. Un’informazione dall’alto, impostata e imposta.
Com’è cambiato, invece, il mondo dei pedali? Da osservatore esterno, inizialmente mi ero fatto un’idea del ciclismo come di uno sport facilmente accessibile. Invece, nei miei primi mesi di esperienza sul campo, ho trovato una realtà diversa: non chiusa o difficile in senso assoluto ma estremamente complicata se rapportata all’immediatezza e alla frugalità che da sempre caratterizzano la bicicletta. Penso, per esempio, alla figura dell’addetto stampa: non ha assunto forse troppa importanza?
Ecco, infatti: mettiamo dei paletti altrimenti andiamo fuori strada. Rispetto al mondo del giornalismo, quello del ciclismo è cambiato poco o nulla. E i ciclisti, nonostante oggi sia molto più difficile reperirli o avere una conversazione con loro come Dio comanda, rimangono atleti estremamente facili e aperti se confrontati ad esempio con i calciatori. Il ciclismo, in sostanza, non ha fatto altro che adattarsi. La figura dell’addetto stampa, per ritornare al tuo esempio, è diventata importante col tempo. Prima bastava avere il numero di telefono, oggi la situazione è sicuramente diversa. Se un atteggiamento del genere garantisce e preserva sicuramente la vita aziendale, penalizza altrettanto sicuramente quella giornalistica, quindi chi fa questo lavoro ma anche il lettore che poi usufruisce del servizio.
Cosa si può fare per invertire questa tendenza? E soprattutto, chi dovrebbe alzare la voce? Atleti, dirigenti, addetti ai lavori o figure terze?
Non è una visione positiva e ottimistica, lo so, ma all’orizzonte non vedo novità significative. I cambiamenti sono lunghi, richiedono tempo e oggigiorno sono influenzati soprattutto dalla sfera economica. Momentaneamente, almeno per me, le cose stanno così: c’è questa tendenza “calcistica” e mi sembra inarrestabile. Sarò scontato, ma il giornalista ha già in mano gli strumenti per fare un bel lavoro: passione, onestà, competenza, qualità, buon italiano, immaginazione e fantasia quando è il caso. Sudore, lacrime e sentimenti, insomma.
Perché, secondo lei, il ciclismo si presta così bene al racconto? Perché tutti i più grandi giornalisti che si sono interessati al mondo dei pedali non hanno potuto fare a meno di raccontare, romanzare e integrare il ciclismo con storia, geografia, letteratura, scienza, attualità?
Facile: non è il ciclismo che assomiglia alla vita ma viceversa, è la vita che assomiglia al ciclismo. Ogni corsa è una vita, un’esistenza, un insieme gigantesco di eventi, situazioni, emozioni. Ogni atleta e ogni spettatore vive la sua e il suo occhio si sofferma su cose diverse. E’ un luogo di incontri, non ha eguali. Gli altri sono sport, il ciclismo è un qualcosa di più. Non si svolge dentro una “scatola” – per quanto magica essa possa essere – ma sulla strada, che ricorda l’andamento della nostra vita, fosse soltanto per come entrambe ce le immaginiamo quotidianamente.
La sua è una grande esperienza di giornalismo vissuto giorno per giorno, a fianco degli atleti e di tutti gli staff. Se la programmazione di un mensile segue ritmi e programmazioni più gestibili, come si lavora, invece, nella redazione di un quotidiano?
La mia esperienza, anche se credo che sia così per tutti, mi porta a dire che lavorare in quotidiano significa vivere il giornalismo nella sua forma più vera e pura. Diventa praticamente la tua vita. L’altra faccia della medaglia è che, nella maggior parte dei casi, si finisce per sacrificare tutto il resto, affetti compresi. Anzi, soprattutto quelli. La sfera familiare è spesso quella più sacrificata, diventa la seconda per importanza. Si arriva ad avere due vite vere e proprie ma distinte e la cosa, solitamente, non può durare a lungo. Infatti credo che, ancora oggi, quella dei giornalisti sia la categoria con più divorzi all’attivo.
Mi è capitato più volte di leggere un’intervista che Paolo Condò ha rilasciato a “l’Ultimo Uomo” nel novembre del 2015. Ecco, Condò, che lei conosce bene vista la comune esperienza in Gazzetta, ad un certo punto afferma che il suo giornalista preferito è Marco Pastonesi e che “sapere che lui se ne stia in prepensionamento, per me è un omicidio giornalistico”. Se mettono in prepensionamento uno come lei, cosa significa?
Allora, la scelta del giornale è dovuta ad uno stato di crisi dello stesso e proprio per questo è stato deciso di mandare via i diciassette giornalisti più vecchi. Una scelta anagrafica, diciamo. Certo, lavorare a “La Gazzetta” è una specie di passaporto per l’universo, però ormai è andata così. Sono entrato in una nuova fase della mia vita. Scrivo ancora, e molto: web, riviste (anche straniere), libri. Mi ha fatto piacere constatare che la forma di approfondimento che concede il libro vende ancora molto. Si pensava che fossero destinati a scomparire da un giorno all’altro e invece sono morti prima i giornali. Sicuramente qualche giornale sopravviverà dovendosi però accontentare di una piccola nicchia di appassionati.
Dove vede il giornalismo del futuro?
Mi sembra ormai chiaro che le potenzialità del web non ce l’ha nessuno quindi dico web finché non arriverà un’altra rivoluzione a scompaginare il tutto. Non bisogna però dimenticarsi dei valori, che non hanno tempo, devono essere sempre attuali. Il futuro della professione deve essere deontologico e morale.
Lei ha seguito da vicino anche il movimento africano: quando arriverà a toccarci da vicino?
E’ già arrivato e ne sono contento. Chi diceva che si trattava soltanto di un fenomeno folkloristico, adesso non può non ricredersi. Certo, le corse in Africa non seguono nessuna logica, ne vedi di tutti i colori, però è allo stesso tempo ciò che le rende così intriganti e incredibili da seguire.
Siamo all’ultimo chilometro, Marco. C’è un giornalista che da giovane seguiva con particolare attenzione e che ti ha ispirato?
Leggevo più che volentieri Mario Fossati.
La sua corsa preferita?
Non ce n’è una in particolare, per questo ti dico quelle più piccole, nelle quali c’è quel mix di storia e tranquillità che ti permette di lavorare con serenità e di raccogliere quelle che spesso si rivelano essere le storie migliori.