Gli ultimi anni l’Italia pallonara – in parallelo con quella politica, economica, culturale etc. – ha iniziato a prender coscienza del proprio declino, più precisamente nel 2010, quando fu annunciato che la Serie A era scivolata al quarto posto del ranking Uefa e che avrebbe inviato nella Champions del 2011-2012 solo tre squadre (prima di allora solo Adriano Galliani pareva essersi accorto del problema). Negli stessi anni il calcio è cambiato: i petroeuro hanno inflazionato il mercato, le stelle hanno deciso che i fuoriclasse giocassero in Spagna, risultato un’Italietta imbelle e coi complessi d’inferiorità. Complessi d’inferiorità che da anni permettono di pontificare gratuitamente sul gap ‘infrastrutturale’ che patisce il campionato, sulle mancanza di competitività e sull’assenza di un piano strategico che ci permetta di uscire dalla palude. Tutto vero, tutto giusto.
È ineludibile che la serie A non abbia saputo reagire alla fine del patronato familiare – vedi i Cragnotti, Sensi, Cecchi Gori, Tanzi – e non sia stata in grado di rendere commercialmente accattivante il suo prodotto nell’era del calcio finanziario. Sarà pur sempre vero che la programmazione del piano stadi di proprietà rappresenti un’urgenza non più rinviabile; passino le partite delle 12 per i calciofili d’Oriente. Passino i 100 milioni per un cartellino e le sponsorizzazioni monstre. Passi Doyen, Infront, Mendes e diritti Premier dai nove zeri periodici. Passino le creste e gli scarpini fluo. Ma c’è un messaggio di questa retorica arrendevole e vittimistica che gira a vuoto dal triplete interista: la cancerosa convinzione che l’Italia del pallone debba progredire per arrivare ad un nuovo stato del gioco, uno zenit inesplorato ove i bilanci battono la tattica e i procuratori vincono i centravanti. Così non è, se permettete.
Occorrono pochi rudimenti di Vico per comprendere che ieri sera la Juventus ha fatto qualcosa che ha sempre saputo fare e sempre saprà fare: giocare bene al pallone, con cuore e tenacia, e vincere emotivamente gli avversari con una cattiveria unica nel panorama europeo. Si facevano tre finali consecutive prima dello Stadium, dell’Adidas e dei soldi di Pogba. Quindi, qual è esattamente il confine ove ha inizio la cosiddetta mentalità vincente? Dov’è scritto il dna che segna il corso della storia di una squadra rispetto ad un altro? L’unica risposta plausibile è l’inesauribile voglia di affermare se stessi e di dominare il circostante. È un costrutto psicologico elementare quello che permea uno sportivo che approda in una di queste realtà, un processo di autoconoscenza che termina nella consapevolezza della misura dei propri limiti e di conseguenza nella convinzione del possibile loro superamento. Se questa formazione individuale si somma in un’etica collettiva il risultato è un meccanismo che nell’inesatta scienza che è il Calcio può diventare infallibile. La Juventus ha ripercorso in questi anni la sua pulsione primitiva per la vittoria e l’ha saputa trasmettere ad un gruppo che se ne è alimentato in modo insaziabile, questo è il segreto della ‘mentalità’, null’altro. L’inappagabile volontà di affermarsi nello spazio e nel tempo, l’orgoglio di essere. La partita è stata allo stesso tempo culminazione e compendio di questo processo di ritorno: dati i lampi di Dybala – uno che ha le stigmati ed è segnato al pallone d’oro – la squadra non ha semplicemente portato indietro la linea ma ha iniziato ad esprimere una sintassi tattica tutta italiana fatta di coperture e minuziosi raddoppi, senza gli affanni di un pressing scriteriato, costringendo i catalani a fare i conti con la fine del proprio ciclo – perché salvo scongiuri di remuntade improbabili il guardiolismo è morto nelle sue forme ieri notte – e con la fase difensiva più indolente che si sia vista negli ultimi tempi.
La dimostrazione è l’impossibilità di eleggere un man of the match che non sia La Joya, perché nessuno brilla quando il gruppo si esprime coralmente al suo meglio. Questa Juventus ricorda i migliori XI azzurri: brutti e cattivi dietro, estetici e briosi davanti, sinonimo di trofei di solito. Copre, si chiude, rincula e gioca la palla a terra con coraggio, soffre quando c’è da soffrire, è pugnace a resistere (inaccettabile l’assist a Iniesta del Messia come inaccettabile è la risposta di Buffon).
Il Barça invece è caricatura di se stesso: il 3-4-3 non copre mai l’angusto campo – per le loro proporzioni – di Torino, ogni volta che i bianconeri si riaffacciano saltando la prima linea di pressione si aprono praterie, le palle da fermo sono una noia, Busquets detta il primo passaggio e in sua assenza Messi deve indietreggiare per accendere la luce. Sembra paradossale ma al Barcellona, pur continuando un estenuante ma sterile possesso palla, manca fosforo se non c’è freschezza atletica. Neymar soffre tremendamente l’Italia, il Vampiro, da buon uruguagio, è più a suo agio ma stasera Eupalla ha deciso, 3 a 0 ed appuntamento a mercoledì prossimo dove la Juve non è il PSG (predicano tutti alla calma con understatement sabaudo). Riuscisse la seconda rimonta andrebbe interrotta la competizione.
A questa Juventus tutta l’ammirazione, firmato un romano e romanista.